RIVISTA DI CULTURA MEDITERRANEA

Venezia - Libreria Marciana

“Venezia e il contesto della ricezione delle lettere turche e persiane” di Giampiero Bellingeri

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È ormai corrente l’uso di accogliere la Letteratura de’ Turchi compilata da G. B. Donà, apparsa a Venezia nel 1688,1 come la prima, organica, trattazione europea degli aspetti generali, scientifici, artistici, della cultura “turca”. Cultura che, nelle diverse epoche e nei momenti mutevoli dei rapporti cangianti intrattenuti fra la Serenissima Repubblica e quel “dispotico” Stato, veniva ora negata in maniera recisa e strumentale, al fine di misconoscere la consistenza di una produzione, e preparazione intellettuale, presso i sudditi/“schiavi” di quell’Impero gigantesco, rivale e confinante, o meglio sconfinante; ora ritenuta, in maniera sbrigativa, di ridotta originalità, di scarso rilievo. Era giudicato appunto basso, o inadeguato – negli stereotipi messi in giro, sulle piazze, sul mercato delle idee, nella loro artificiosa cristallizzazione, magari dai Veneziani stessi, maestri in fatto di editoria e gestione, divulgazione di visioni, di rapporti sui Turchi e sui Persiani – il livello educativo e dottrinale di una società di servi, militarizzati, tutti dediti alla guerra, come esigeva una organizzazione statuale aggressiva, esclusivamente protesa alla sottomissione di popoli e individui liberi. 2
In sede Serenissima perturbata (dove peraltro, nello Studio di Padova, si discorre e disputa sugli “infedeli” Averroè, Avicenna, all’ombra di Aristotele, e del tanto vituperato ma curioso Alcorano),3 pare di assistere, davanti a quelle negazioni o contestazioni, o riduzioni propagandistiche, mediatiche, a una sorta di periodica censura, o messa in sordina, in ombra, dei tratti salienti, talora originalissimi, e, vedremo, apprezzati, che caratterizzano quel mondo, e quell’Impero, nei suoi arredi e allestimenti urbani, cioè civici. In realtà, la speculazione veneta su quelle declinazioni di civiltà è ben più complessa. Tal quale più complesso dovrebbe risultare, anche nella nostra attuale osservazione, il fermento più o meno intenso dell’ampio contesto culturale in cui andrebbero collocate le modalità letterarie captate dagli autori, dai viaggiatori, dagli analisti veneziani: vigili sui lineamenti in chiaroscuro che si stagliavano sulla mai immobile scena del teatro sociale dominato da Istanbul/ Costantinopoli. Talché ci sembra che pure attorno alle solide, benché celestiali sagome architettoniche, quali le cupole, che spuntano suggestive e familiari, e s’impongono sull’orizzonte del Bosforo (sì, a riproporre, provocatorie e maieutiche, alle coscienze le masse inquietanti e sempre rivali di Aya Sofya e del Serraglio), aleggino nell’insieme abbastanza mobili i lineamenti di un paesaggio descritto dagli osservatori, certo parziali. Avremo paesaggi, offerte sceniche, allora, capaci di sommuovere i giudizi. Come a confermare, concordare, raccordarsi in uno dei versi del canone (negativo, reattivo, o ragionevolmente costruttivo).
Secondo questi passi, commisurati ai tempi, ai momenti, alle mode e alle opinioni, compiuti nel territorio di vicende storiche travagliate, si andava vuoi attestando vuoi contestando tutto un insieme di forme culturali. E’ di questo complesso “espressivo” che andrebbe, ovviamente, tenuto conto; benché nel nostro caso si cerchi di agire in un ambito letterario, per convenzione mai angusto, mai aridamente specialistico: posto che quelle linee architettoniche incidevano, corrugavano i piani inclinati e prospettici, le sensibilità, le coscienze, le anime, appunto, per dar luogo a un contesto. Vediamo come siano articolate le elisioni: “(…) Quivi [nella Polis eccellente] fiorirono le virtù dell’armi, le invenzioni delle scienze, le ragioni dell’arti, l’eleganza del scrivere (…). Hora la natura e la virtù pare habbino nelle calamità nostre le giurisdittioni loro.

Solimano il Magnifico
Solimano il Magnifico

Soggiacciono i Regni miserabili e deserti a peregrini horribili spettacoli (…), come che la barbara violenza (…) habbia ancora svelto ogni memoria di quelle opere illustri, lasciando tante, et si belle campagne à povere genti (…)”.4
Torniamo alle opere di autentica e ampia “edificazione”: “Le fabbriche (di Costantinopoli) di fuori non appareno, ma dentro sono bellissime, et fabbricate à loro modo che à me assai piace (…), le moschee, le sepolture, ponti (…), tutte cose per l’anima (…), li lochi di studenti, et le sue Scuole, le stanze de’ putti con li suoi studij, con li lochi delli Maestri,
et Lettori, tutti spesati, et salariati, ponti, bagni, fontane, campanilli è le Moschee, et tutto per le lemosine è fatto…”.5
Ancora, a infittire presenze e luoghi del sapere, in cui potenzialmente e in forza degli ordinamenti di quella Potenza si coltivano le lettere: “Vi sono Cento, e Venti Colleggi dove stanno molti Scolari chiamati Sophà, che vol dire Sapienti, o Studenti, à quali è dato in esso Colleggio à ciascuno una Camera…”.6
A intervalli, nei periodi burrascosi, raddrizzate le cedevolezze al malinteso, si tornava a brandire la Croce, sulla scorta di una bellicosa scienza orientologica, acuminata a trafiggere turchi, turcofilia, anticlericalismo.7
Poi con la disfatta turca a Vienna, nel 1683, sembra ufficialmente sdoganarsi la cultura ottomana, tuttavia immagazzinata per secoli, tenuta da parte, censurata se non negata, già si annunciava; ma sempre registrata. Fissata almeno a conoscere, con il calibro e la gittata di un cannone, con i numeri e le dimensioni e i nomi dei comandanti/re’is delle galee, anche i tipi, i tenori, i sistemi dei pensieri economici, amministrativi, organizzativi di giustizia e saperi letterari dello Stato ottomano. “Stato” che vale pure sciolto in “stato attuale dell’arte”. Notiamo in ogni caso una dichiarata “prurigine alla curiosità”:
“… Si discorse, che mio [di G. B. Donà, destinato bailo alla Porta, 1680] pensiere esser dovesse, avvicinato che fossi a quel grande Colosso, il quale divorando gli altri, si rende sempre più complesso, e che fino al suddetto tempo non fù mai tocco da qual si sia Natione impunemente (….) di scoprirvi il suo forte, & il suo debole, poiché il mondo in sé non contiene alcuna cosa di eterno. Fissato pertanto l’occhio sopra lo stesso, compresi a bastanza (…): Che quella Natione non si ritrovi in quel vigore così grande, come aveva acquistata la riputatione d’esser invincibile; Né ch’ella avesse tale rozzezza d’ingegno, e totale imperitia e nella cognizione delle scienze, e delle belle arti…”.8
Che dire allora di quando quel Colosso era nel suo pieno vigore e insieme la società e le comunità che lo animavano non erano mai state a tal punto rozze, inette? Come se da secoli a Venezia e nelle stanze dei giovani di lingua, apprendisti dragomanni veneziani a Pera non si fossero frequentati versi, aulici o popolari, “scolastici”, utili all’apprendimento delle forme ottomane! E che dire dei manoscritti turchi (e arabi e persiani), ricercati, acquisiti, nella Capitale ottomana, distribuiti in varie sedi veneziane, religiose e laiche, e nel tempo convogliati nella Biblioteca Marciana? 9
Seguono finalmente dei versi, con le loro esaurienti rese italiane:

Dun ghiezè ben iarè vardum Benim Iaurim viucudà Iusumi iusune surdum
Ala ghiuslum elvidà
Mi portai hierisera
A gl’amplessi notturni Dell’Idolo, che adoro;
E mentre in braccio al sonno Mirai posar le belle luci chiuse Contemplando in quel volto
Il Paradiso accolto,
Le dissi in voce tremola e dimessa, Addio Lilla, mio ben, tu sei pur essa? 10

E si apprezzi, con i calcoli, con le strategie politiche, la stilistica di quel gusto traduttorio, che induce il dragomanno, colto, a intensificare, nella moltiplicazione dei versi, il sapore di una sempre attualizzabile “Arcadia”. Nel dopo-Vienna, allora, dopo quel 1683 che vede gli eserciti ottomani respinti giù dal Danubio, si avrebbe insomma lo sdoganamento, l’ammissione “rilegata” dell’esistenza di organizzazioni, tradizioni, promozioni culturali in terra altrui. Sarebbe stato concesso un maggiore agio contemplativo, e uno spazio di manovra più vasto per cercare di restituire alla Romanità la Grecia, la Morea, e ricondurre a una condivisa tradizione classica, orientale, le manifestazioni “alessandrine” delle lettere turchesche, considerate degne di entrare a far parte del coro, del Parnaso oramai ricostituito, traslato a Occidente. Eppure, di un’applicazione palatina si sapeva da tempo: “(…) ama l’ocio, & la pace più che habbia fatto altro delli suoi maggiori (…). Dicon che è studioso di lettere, & specialmente delle cose di Aristotile: le quali legge con gli suoi espositori in lingua arabesca, & è studioso della Teologia sua: della quale ne fa professione à paragone delli suoi Mufty. E’ di età di anni quarantatrè in circa (…)”.11
Chiamato in causa era nientemeno che Solimano, il “Magnifico”, o “Legislatore”… (continua).

 

Venezia - Libreria Marciana
Venezia – Libreria Marciana

1 Della letteratura de’ Turchi. Osservazioni fatte da Gio: Battista Donado Senator Veneto, Fù Bailo a Costantinopoli, per A. Poletti, in Venetia MDCLXXXVIII, p.A.3, (in seguito: Donà, Letteratura…).
2 Cfr. P. Preto, Venezia e i Turchi, Firenze,Sansoni 1975¸ (lavoro celebre, riedito di recente presso Viella, Roma 2013), passim.
3 Sulle venete riprese dei classici dell’Islam, cfr. G. Vercellin (a c. di), Il Canone di Avicenna fra Europa e Oriente nel primo Cinquecento: l’Interpretatio Arabicorum Nominum di Andrea Alpago, UTET, Torino 1991.
4 Biblioteca Nazionale Marciana, Venezia, Ms. it., cl. VII, 882 (8505): “Descrittione dell’Imperio Turchesco del Rev.mo Monsignor Maffeo Veniero Arcivescovo di Corfù” (post 1584), c. 45r-v.
5 Dal ms del resoconto del Viaggio da Venezia a Costantinopoli, compiuto nel 1550-‘51, dell’ambasciatore straordinario Caterino Zen, cfr. BMC, cod. Correr 1199, cc. 95-103 (1961). Si veda anche P.M. Tommasino L’Alcorano di Macometto. Storia di un libro del Cinquecento europeo, Il Mulino, Bologna 2013.
6 Rimando a una delle numerose copie manoscritte della Relazione, talora attribuita a Ottaviano Bon (bailo a Costantinopoli dal 1604 al 1608; ma si tratta di scrittura
successiva al regno di Murad IV, 1623-1640): Biblioteca Querini Stampalia, ms. cl. IV, cod. 647 (1080), Relazione della Gran Città di Costantinopoli con la Vita del Gran Turco, (cc. 128r-257v), c. 159r e 178r.
7 Cfr. L. D’Ascia, Il Corano e la tiara. L’epistola a Maometto di Enea Silvio Piccolomini, (papa Pio II), Introduzione ed edizione, pref. A. Prosperi, Pendragon, Bologna 2001.
8 Cfr. Donà, Letteratura…, cit., p. 2.
9 Donà, Della Letteratura de’ Turchi, cit., p. 8.
10 Ibid., pp. 35-39. Sono versi editi, tradotti dal dragomanno della Serenissima Gian Rinaldo Carli, originario di Capo d’Istria; su di lui, cfr. M. Infelise, G. R. Carli senior, dragomanno della Repubblica, “Acta Histriae”, V (1997), pp. 189-198.
11 [B. Ramberti], Libri tre delle cose de Turchi, in casa de’ Figliuoli di Aldo, in Vinegia, M.D. XXXIX, p. 30r-v.