Note sull’architettura veneziana dalle origini al Rinascimento
Nell’antica città di Hatra, in arabo al-Hadr, una città di confine tra mondo orientale ed occidentale, accanto ai templi dedicati al dio Nergal (mitologia sumera ed accadica), al dio Atargatis (mitologia Siro-armena), ad Allat e Shamiyyah (mitologia araba) ed a Šamaš (il dio sole sumero), sorgeva anche il tempio dedicato ad Hermes (il dio greco messaggero degli dèi, divenuto, nella sua facies romana, dio del commercio). Ora le ruspe e la dinamite dei seguaci del sedicente IS (Stato Islamico) hanno raso al suolo l’antica città patrimonio dell’UNESCO (dopo aver fatto scempio, a gennaio, dei resti delle antiche mura di Ninive e delle statue conservate nel museo della città di Mossul), e con essa quello straordinario Pantheon multietnico sopravvissuto a tutte le precedenti battaglie e invasioni della storia.2 Una precisa strategia di damnatio memoriæ, questa, nei confronti di tutto ciò che non appartiene ad un “Islam sunnita-salafita” che dovrebbe, nel delirio di onnipotenza maschilista dei seguaci del Califfo, conquistare il mondo (secondo una tendenziosa interpretazione del termine arabo Jihad, “sforzo”).
Una di quelle divinità, Hermes-Mercurio, potrebbe ben rappresentare quello che è stata Venezia nella storia del mondo: la città del commercio. Dunque, accanto a san Marco, dovrebbe trovar posto, da qualche parte del suolo dell’ex Serenissima, la statua del dio dai talari e dal kerykéion, il caduceo, antico simbolo di pace e prosperità.
«Il Palazzo Ducale di Venezia contiene esattamente in eguale proporzione i tre elementi: romano, lombardo, arabo. È l’edificio centrale del mondo»
John Ruskin, Le pietre di Venezia, 1851-18531
Quella pace che anche Venezia perseguiva con tutte le sue forze, in quanto solo la pace permette il fiorire dei commerci. In questo senso, se la caduta di Costantinopoli, nel 1453, traumatizzò l’Occidente, forse scosse di meno Venezia, che, come aveva commerciato con l’Impero bizantino, così si preparerà a farlo con il Gran Turco.
Perché questo preambolo? Perché l’ideologia di Venezia è stata, quasi sempre, per tutto il tempo del suo dominio da Mar, un’ideologia di mediazione e di dialogo con l’Oriente e, dunque, l’abbattimento del tempio di Hermes è un po’ la distruzione anche di quell’idea cara a Venezia. Un “Oriente”, sia detto subito, molto vasto, dal “Cataio” di Kublai Kahn, ai tempi di Marco Polo (XIII secolo), all’Istanbul del XV e del XVI secolo (senza dimenticare, però, l’episodio vergognoso del sacco di Costantinopoli nel corso della Quarta crociata (1202), di cui Venezia porta ancora le “macchie”, impudicamente esibite, nel gruppo dei Tetrarchi e nei quattro cavalli bronzei di San Marco.
Impensabile è naturalmente pensare di poter trattare, se non in superficie, il tema dei rapporti tra Venezia e l’Oriente. Basterebbe scorrere solo alcuni dei titoli dell’immensa bibliografia sul tema: da Venezia e i turchi, di Paolo Preto (Sansoni, 1975), a Venezia e l’Oriente: Arte, commercio, civiltà al tempo di Marco Polo e Marco Polo: Venezia e l’Oriente, entrambi a cura di Alvise Zorzi (Electa, s.d. e 1981, 1989), a Venezia e l’Oriente, a cura di Lionello Lanciotti (Olschki, 1987), a Venezia e Bisanzio nel XII secolo: I rapporti economici, di Silvano Borsari (1988), a Venezia e Bisanzio, di Donald M. Nicol (trad. it. Bompiani, 2001), a Bisanzio e Venezia, di Giorgio Ravegnani (Il Mulino, 2006), a Venise et l’Orient: 828-1797 (mostra all’Institut du monde arabe, Gallimard, 2006), a Venezia porta d’Oriente, di Maria Pia Pedani (Il Mulino, 2010),3 a Venise et la Méditerranée, a cura di Sandro G. Franchini, Gherardo Ortalli e Gennaro Toscano (Istituto Veneto di Scienze Lettere ed Arti, 2011), solo per citare i titoli più importanti.
Ma testi fondamentali sul rapporto tra Venezia e l’Oriente sono forse ancor più i volumi scritti da due grandi studiosi italiani, Sergio Bettini ed Ennio Concina; in particolare, del primo, il classico Venezia: Nascita di una città (Electa, 1978) e, del secondo, Dell’arabico: A Venezia tra Rinascimento e Oriente (Marsilio, 1994).4
Ma sui rapporti stretti – contro tutti i “fondamentalismi”, come suona anche un recente manifesto affisso sui muri di Venezia dai Centri sociali del Nord-Est – tra Oriente ed Occidente (e viceversa) c’è una lunga e a volte discussa letteratura che parte dai saggi di Anton Springer, Louis Courajod, Émile Mâle, Alphonse-Jean-Joseph Marquet de Vasselot, che passa per le contestate teorie di Josef Strzygowski5 (che Bettini definisce «aberrazioni»6), ed arriva fino agli studi, ancor oggi magistrali, di Henri Focillon: Art d’Occident: Le Moyen Age roman et gothique (A. Colin, 1938), e del suo miglior allievo, Jurgis Baltrušaitis: Art sumérien, art roman (Ernest Leroux, 1934) e Le Moyen ge fantastique: Antiquités et exotismes dans l’art gothique (A. Colin, 1955). Nel primo dei due volumi, l’autore afferma come, «a partire dall’epoca protostorica, se non prima, si forma in Europa un intero repertorio di immagini e di motivi provenienti dall’antico Oriente, che si rinnova e si arricchisce progressivamente».7 E ancora, nel finale, riassume così l’intera ricerca: «Abbiamo illustrato alcune delle relazioni e delle tappe fra la scultura romanica e le antiche forme dell’Asia. Probabilmente l’introduzione di motivi asiatici nell’Europa medioevale si spiega, in parte, con il massiccio arrivo in Occidente di vari oggetti orientali, di stoffe, vasi, gioielli barbarici e sassanidi e avori musulmani che hanno conservato memoria dell’arte antica».8 Naturalmente, in questa trasmigrazione di immagini, da Oriente ad Occidente, è avvenuto anche un mutamento di significato: «Lo scultore romanico ha compreso il meccanismo delle loro metamorfosi figurate [sc. delle forme orientali] e lo ha applicato al proprio mondo formale. Pur basato sugli stessi elementi e sullo stesso principio, il suo repertorio ornamentale, arricchito dai calcoli di diverse epoche, assume qui un nuovo significato e un nuovo accento».9
Venezia, porta d’Oriente e porta dei traffici marittimo- commerciali, come non può aver fatto anch’essa da tramite a queste trasmigrazioni?
In realtà i rapporti tra Venezia e l’Oriente cominciano con un furto (del resto Hermes, lo sappiamo, era anche il dio dei ladri): nell’828, due mercanti veneziani trafugano le reliquie di san Marco da una chiesa copta di Alessandria.
Un furto produttivo, perché serve a fondare, mediante la translatio del corpo del santo, ciò che lo stesso santo aveva sognato: l’approdo finale sul suolo veneto. Una prædestinatio, come scrive Bettini, «con la quale la chiesa di Venezia si liberava simbolicamente sia dalla dipendenza bizantina, sia dalla dipendenza dell’impero germanico attraverso Aquileia, sia anche, infine, da una troppo stretta dipendenza da Roma».10 Venezia è così fedele all’Oriente che segue addirittura i precetti del Corano (ma è una boutade di Camillo Boito; a quel tempo si poteva ancora fare, senza troppi rischi). Parlando della scarsezza di buoni scultori nella città lagunare, egli scrive: «Al proposito di Turchi, il Corano, al versetto 92 del capitolo intitolato La Tavola, dice: O credenti! il vino, il giuoco d’azzardo, le statue e la sorte delle frecce sono abominazioni inventate da Satana: astenetevene e vivrete felici. I Veneziani seguono il precetto del Corano, almeno in ciò che si riferisce alle statue. In quella città piena di meravigliosi esempi anche nella statuaria, in quella città dove non mancano gli uomini innamorati dell’arte e la gente ricca, si contano tre scultori soltanto».11
Venendo ai rapporti tra l’architettura veneziana e l’Oriente, sarebbe superfluo qui ricordare, perché troppo noto, il fatto che nel 1069 ca., dovendo ricostruire la chiesa di San Marco, i veneziani non si rivolsero, come poteva essere normale, ai modelli dell’architettura romanica coeva,12 ma decisero, con un gesto di chiara valenza politica, di guardare all’indietro, scegliendo l’Apostoleion, la basilica dei Santi Apostoli di Costantinopoli (in seguito distrutta
dai Turchi), a contrassegnare un distacco dall’architettura occidentale (dell’Impero germanico) a favore del legame con Bisanzio. Ma l’intera decorazione a mosaico della Basilica, dalla rifondazione dell’XI secolo a tutto il XIV, è un racconto del rapporto tra Occidente ed Oriente attraverso gli stretti legami con le scuole della capitale dell’Impero bizantino, Costantinopoli, e in primo luogo con gli artisti di «quel manifesto architettonico dell’idea imperiale d’Oriente»13 che è Santa Sofia, ma anche a centri cosiddetti “minori” come Ochrida (Macedonia). Santa Sofia e San Marco (dunque, indirettamente, il già citato Apostoleion), in tal modo, «hanno marcato di segno indelebile l’arte veneta».14 Non solo. Come ricorda giustamente Ennio Concina, André Chastel ha ipotizzato nella rinascita degli edifici a pianta centrale, a partire dal San Pietro bramantesco, all’inizio del Cinquecento (1504), «una risposta»15 alla moschea di Bayezid (Bayezid Camii di Istanbul, 1502). E del resto, anche l’altro edificio iconico veneziano, il Palazzo Ducale, come abbiamo visto dall’exergo, secondo Ruskin, oltre che «romano» e «lombardo» è «arabo».
Ma c’è forse un edificio sopra tutti, a Venezia, che è la “cifra” di questo guardare ad oriente della città. Un palazzo non tra i più celebri, fuori da qualunque percorso turistico: Ca’ Zen. Intorno a questo “notando palazzo” ed alla sua stranissima architettura, Concina ha costruito l’appassionante racconto del suo già citato Dell’arabico. L’autore, con grande sapienza scrittoria, così ci introduce il protagonista di questa narrazione: «A breve distanza dal trionfale tardo gotico della Ca’ d’Oro, quasi a ridosso di quella che nel primo Cinquecento era la lunga spiaggia fangosa della laguna settentrionale verso Murano, sorge tuttora uno dei palazzi nobiliari più enigmatici, nella forma e nei significati di questa, del Rinascimento veneto: Ca’ Zen ai Crosechieri».16 Gli Zen non sono una delle tante famiglie nobiliari della Serenissima, ma una famiglia la cui lunga storia è «intrecciata strettamente con quella dei legami fra Venezia e l’imperiale Bisanzio, dei rapporti tra Venezia e l’Islam, dell’ascesa veneziana sul mare. Una storia tutta interna a uno spazio culturale articolato e diversificato, di conflitto e insieme di dialogo. Che è poi quello autentico dell’identità e delle sorti della repubblica marciana».17 La capacità dello sguardo degli Zen di comprenderne l’architettura, nei loro viaggi nell’Impero Ottomano attraverso varie generazioni, fa dire a Concina che la «Venezia degli Zen […] si riconferma […] occhio, non soltanto porta d’Oriente»18 e «occhio d’Europa verso Oriente».19
Due sono in particolare i “segni” del Palazzo che rimandano ad Oriente: la scarna decorazione di facciata – «paesaggi pastorali […] accostati a palmeti, scene di lavoro a porte di città e […] dromedari»20 – che dimostra come Venezia «non solo guarda, ma conosce, interpreta e muove al di là della linea dell’orizzonte lagunare, consapevole della vastità del mondo che la circonda, tra Occidente e Oriente, e che si intende saldamente radicata, per sua stessa origine e natura, nel farsi capace di altrui lingue e costumi»;21
e «l’inconsueto e stravagante […] disegno degli archi cuspidati […] vero e proprio segno-chiave dell’architettura della facciata»,22 in contrapposizione a quelli a tutto sesto, che ne fanno un palazzo alla «maniera di Levante»,23 in cui gli archi cuspidati e quelli a pieno centro mostrano sì, apparentemente, l’Oriente e l’Occidente su uno stesso piano, ma, al contempo, come aveva notato Sebastiano Serlio scrivendo della particolarità dell’architettura veneziana, ne rivelano anche tutta la “licenciosità”,24 evidenziando, dunque, infine, «la specificità di una Venezia che all’esigente universalismo del rigore degli ordini contrappone la grandezza di una storia “fuor dell’ordine di tutte l’altre città”».25
Ma la fine di questo legame strettissimo con l’Oriente è vicina e in parte forse dipende dalla crisi del 1537.26 E coincide con l’arrivo a Venezia di Jacopo Sansovino, che porta con sé il nuovo linguaggio “all’antica”: la Biblioteca marciana e la Zecca saranno i due episodi che segneranno l’abdicazione della Serenissima a Roma (nonostante, soprattutto la libreria, venga sottoposta ad un “chiaroscuro” vibratile tipicamente veneziano). Come sottolineato polemicamente da Vasari, quella città che aveva seguito «sempre le medesime cose con la medesima misura ed usanza vecchia», ora comincia «a fabbricare con nuovi disegni e con migliore ordine, e secondo l’antica disciplina di Vitruvio, le cose pubbliche e le private».27
Con questi due edifici, Venezia «sembra voler rinunciare all’affermazione del primato della sua specificità»,28 “romanizzandosi”,29 cioè “tradendo” quel sottile equilibrio che la rendeva città unica nel panorama europeo, occhio e specchio d’Oriente.
Ma forse non è così. Il “bisantino” Scarpa tornerà a guardare ad Oriente. Anche se non ad uno prossimo o medio, bensì estremo: al paese del Sol levante.
1 Rubo letteralmente questo exergo ad Ennio Concina, Dell’arabico: A Venezia tra Rinascimento e Oriente, Venezia, Marsilio, 1994, p. 11.
2 Come antidoto alla monocultura dell’IS, così come a tutte le monoculture della storia, consiglio la lettura di due volumi: Maurice Cerasi, La città dalle molte culture: L’architettura nel Mediterraneo orientale, Schede di Emiliano Bugatti, Milano, Libri Scheiwiller, 2005 e Maurizio Bettini, Elogio del politeismo: Quello che possiamo imparare oggi dalle religioni antiche, Bologna, il Mulino, 2014.
3 Della stessa autrice, si veda anche il saggio Venezia e l’oriente: Note su recenti letture, in «Mediterranea: Ricerche storiche», vol. 31, 2013, scaricabile in formato pdf sul web.
4 Ma si veda anche il fondamentale Storia dell’architettura di Venezia dal VII al XX secolo, Milano, Electa, 1995.
5 Cfr. Orient oder Rom, 1901 e Ursprung der christlichen Kirchenkunst, 1920.
6 Cfr. Sergio Bettini, L’arte alla fine del mondo antico, Torino, Testo & Immagine, 1996,
p. 76. Ma si veda anche, ibid., la nota a p. 5.
7 Jurgis Baltrušaitis, Portrait de Jurgis Baltrušaitis & Art sumérien, art roman, Paris, Flammarion, 1989, trad. it. Marco Infurna, Arte sumera, arte romanica, seguito da Ritratto di Jurgis Baltrušaitis di Jean-François Chevrier, Milano, Adelphi, 2006, p. 70.
8 Ibid., p. 107.
9 Ibid., p. 109.
10 Sergio Bettini, Venezia: Nascita di una città, Milano, Electa, 1978, p. 114.
11 Camillo Boito, [Rassegna Artistica:] Povero stato degli artisti a Venezia. – I pittori giovani. – Un nuovo pittore naturalista. – Come i Veneziani seguano un precetto del Corano. – Il Ferrari, il Minisini ed il Borro, che sono i tre soli scultori in Venezia, in «Nuova Antologia di Scienze, Lettere ed Arti», Volume decimottavo, Fascicolo Duodecimo, dicembre 1871, pp. 876-888: 884.
12 Non ne è convinto Boito, che scrive: «L’organismo esterno del tempio non è bisantino [sic!], è lombardo. Dietro alle innumerevoli colonne, sotto alla pomposa veste di marmi orientali, furono scoperti i lati dell’antica basilica di Domenico Contarini e di Domenico Selvo, maestosa, semplice, tutta di mattoni, a enormi arcate, a nicchie nei pilastri, abbelita [sic!] solo da sfondi laterizii lisci, da bifore non grandi, da occhi piccoli, senza trafori, sparsi qua e là, da quelle serie di archettini sorretti da colonnette snelle e da mensole, che sono uno dei caratteri dello stile di terraferma nell’XI secolo. […] L’organismo imponente, ma rozzo e povero, non fu soltanto rivestito, ma venne a dirittura trasformato con le strabocchevoli aggiunte, che le conquiste nuove, l’amore nuovo della sontuosità, il crescente bisogno degli sfarzi orientali suggerirono ai dogi del XII secolo», I restauri di San Marco, in «Nuova Antologia», Seconda serie, Volume decimottavo.
(Della Raccolta – Volume XLVIII), Fascicolo XXIV, 15 dicembre 1879, pp. 701-721: 707- 708. Ma cfr. E. Concina, Dell’arabico…, cit., p. 44.
14 Ibid., p. 46.
15 Ibid., p. 49. L’opera in questione è Renaissance méridionale: Italie 1460-1500, Paris, Gallimard, 1965.
16 Ibid., p. 15.
17 Ibid., p. 27.
18 Ibid., p. 52.
19 Ibid., p. 56.
20 Ibid., p. 78.
21 Ibid., p. 80.
22 Ibid.
23 Ibid., p. 84.
24 Cfr. Sebastiano Serlio, On domestic architecture: Different dwellings from the meanest hovel to the most ornate palace: The Sixteenth-century Manuscript of Book VI in the Avery Library of Columbia University, foreword by Adolf K. Placzek, introduction by James S. Ackerman, text by Myra Nan Rosenfeld, New York, Architectural History Foundation and Cambridge (Mass.), The MIT Press, 1978, commento alla tavola LVI, cit. ibid., p. 86.
25 Ibid.; la citazione interna è da Francesco Sansovino, Delle cose notabili che sono in Venetia…, In Venetia, appresso Francesco Rampazetto, 1565, p. 2.
26 Assedio di Corfù da parte delle truppe di Solimano il Magnifico e successiva guerra con Venezia durata fino al 1540 (trattato di pace firmato in ottobre), conflitto in cui l’episodio centrale è la sconfitta dell’alleanza cristiana a Prevesa (Grecia) il 28 settembre 1538.
27 Giorgio Vasari, Le Vite de’ più eccellenti pittori, scultori e architetti, Scelte e annotate da Gaetano Milanesi, Firenze, G. Barbera, 1868, vol. VII, pp. 502-503, cit. ibid., p. 91.
28 Ibid.
Cfr. ibid., p. 92.
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