RIVISTA DI CULTURA MEDITERRANEA

Dal Polesine al Garda. L’universo artistico e letterario di Francesco Permunian

[Tempo di Lettura: 15 minuti]

A  LA  GUERRE! A LA GUERRE! 

 

     “Dormi, dormi, bel putìn, altrimenti vengono i Pisani a portarti via!”, così mi minacciava mia nonna quando, alla sera, facevo i capricci perché non volevo andare a dormire.
     Ed è da quelle veglie infantili, ne sono più che certo, che poi ho preso a temere l’arrivo in piena notte di fantomatici individui vestiti di nero. Di cui a quel tempo ignoravo sia l’identità che la provenienza, visto che solo da grande seppi che quei “Pisani” erano degli avanzi di galera liberati dai fascisti dalle carceri di Pisa, Volterra e Firenze con la promessa della grazia ove si fossero distinti nella lotta antipartigiana.
     Osservando dunque una mia foto risalente a quei giorni, mi sono accorto che l’occhio sinistro era leggermente più grande di quello destro. E attraversato da una linea sottile color sangue, come se una lama di rasoio vi fosse penetrata dentro e già allora stesse scorticando i miei pensieri.
     In realtà ero un bambino molto apprensivo e dalla salute alquanto delicata. Uno strano “bambino marrone” a causa della troppa melassa con la quale, in assenza del latte, mia madre mi nutriva nella speranza di rinforzarmi. E di conseguenza ogni notte mio padre si appostava dietro lo zuccherificio Montesi con una brocca in mano e là, attraverso un buco nella rete e all’insaputa del guardiano, si procurava qualche litro di quel denso sciroppo brunastro.
     A dirla tutta, ero un mocciosetto che passava le notti temendo un attacco di sorpresa da parte dei “Pisani”. E nell’attesa ingannavo il tempo, mi ricordo, ascoltando i topi che scorrazzavano nel solaio con il terrore che si intrufolassero dentro di me attraverso le orecchie o il naso.
     Comunque è partendo proprio da là, da quella atroce condizione infantile, che ho preso a costruire i miei primi castelli di chimere. E ho poi proseguito da adulto, intuendo oscuramente che fantasticare avrebbe significato per me tenere gli occhi puntati nelle tenebre dell’infanzia. E nell’infamia del fascismo.

     Oddio, niente di epico, sia chiaro, semplici ricordi di miseria e di emigrazione dalle campagne del Polesine. Ma anche di infamia, ripeto, quella di certi crimini odiosi consumati al tempo della Resistenza. E il cui spettro aleggiava ancora quando io ero bambino: penso alla testa mozzata di Eolo Boccato (*) esposta nelle vetrine del Consorzio agrario di Adria, una testa che per molti divenne poi quella di un fantasma vendicatore; i quaranta giovani fucilati a Villamarzana dalle Brigate Nere; l’uccisione di Flavio Busonera, capo partigiano e medico condotto del mio paese… E potrei continuare a lungo nel descrivere quella guerra civile che fu la Resistenza nel Polesine dei grandi proprietari terrieri, gli stessi che vent’anni prima avevano fatto ammazzare Giacomo Matteotti.
     Ma in mezzo a simili fantasmi, che a volte ritornavano nei racconti dei miei nonni attorno al focolare, per fortuna io mi sentivo circondato e protetto dai quei Calabiani nominati nella “cronaca Baldi”, uomini e donne che vedevo e incontravo quotidianamente quando giocavo a nascondino oppure a lippa sulla strada di Ca’ Labia.

     

     Volti e i nomi di poveracci che faticavano a combinare il pranzo con la cena di cui, a distanza di mezzo secolo, m’è rimasto in mente a malapena qualche soprannome (El Balbo, oppure, El Soto) per via di una buffa balbuzie o il passo claudicante di chi era tornato dalla guerra senza un piede.
     Di tutti rammento comunque i pantaloni rattoppati e le mani callose per le fatiche di braccianti agricoli, manovali, carrettieri, muratori, venditori ambulanti, erbivendoli, mendicanti… E naturalmente non mancava qualche ladro o ladruncolo di galline, più che altro per fame, che in quei luoghi aveva radici antichissime.

     I Calabiani costituiscono dunque un esercito di ombre che popolano i cieli della mia infanzia; un’armata di fantasmi alla cui testa io stesso avanzo come un generale nel corso di certe sere quando – chiuse le finestre e la porta di casa – all’improvviso mi metto a cavalcioni di un cavallo a dondolo e dopo aver soffiato dentro una trombetta di cartapesta, suono la carica gridando a perdifiato: “à la guerre! à la guerre, miei prodi guerrieri!”.
     Peccato che il mio esercito sia piuttosto sgangherato e straccione (hanno tutti le pezze al culo, quei morti di fame!), forse perché io stesso non possiedo la tempra di un generale o di un capitano di ventura.
     Tuttavia per quanto malridotti e lunatici, sono anni che i Calabiani vengono di tanto in tanto a trovarmi di sera, appena chiudo gli occhi e mi addormento.
     Per poi ripartire lesti lesti al mattino, quasi temessero di venire scoperti e identificati. O magari catturati, che per dei guerrieri è forse peggio di morire in battaglia.
     Il che, secondo me, prima o poi dovrà inevitabilmente accadere, visto che anziché sfilare con passo marziale, i Calabiani si trascinano invece come quei  beoni che frequentano le osterie del Polesine. Non sono cioè dei veri soldati, spiace dirlo, ma degli inguaribili ubriaconi che irrompano in scena con dei calici di vino in mano per brindare a chissà quale vittoria e  poi, alla fin fine, si limitano a bofonchiare con la lingua impastata: “Hip… hip… urrà!”.
     Ma come richiamarle all’ordine, quella masnada di ombre, dal momento che ognuna di loro presenta delle orribili ferite che si ostinano ancora a sanguinare?

Una “tribù” di Calabiani davanti al fotografo.

 In prima fila tra Felicetto e Filomena, io tento inutilmente di mettere in posa quella discola
di mia cuginetta. La quale sta guardando da tutt’altra parte, dimostrando fin d’allora
un carattere alquanto anarchico e originale. Per la verità, neanche mia nonna
Assunta è in posa, dato che se ne sta tutta curva (A cuo busòn, diciamo noi)
a rimestare con le mani dentro un secchio d’acqua. 

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*Eolo Boccato nasce il 20 agosto del 1918 a Lipari dove il padre, l’anarchico-libertario Amerigo, si trova al confino; l’anno dopo Amerigo torna al paese, Adria, dove lavora come fotografo.
Ben presto Eolo aderisce al Partito comunista impegnandosi nella diffusione della stampa clandestina e tenendo contatti con gli antifascisti di Cavarzere e di Ariano Polesine.
Rifiutandosi di “attendere gli eventi” – linea sostenuta dal CLN – entra nella brigata garibaldina e ne coordina l’ultimo dei cinque gruppi in cui è suddivisa. Partecipa a diverse azioni, appoggiato dalle persone più umili, specie dai braccianti che lo sfamano e lo nascondono nelle loro case e nei fienili.
L’avvenimento che cambia la sua esistenza è assistere alla morte precoce del fratello Espero per mano dei terribili “Pisani” di Adria. Da quel momento l’Eolo partigiano convive con l’Eolo vendicatore e si macchia di azioni violente come la strage della famiglia Gaffarelli, o il rapimento della figlia di Carlo Cacciatori, triumviro fascista di Contarina.
La taglia di centomila lire, posta sul suo capo, lo costringe a nascondersi e a spostarsi in continuazione. Nel suo ultimo rifugio, Piantamelon, alla periferia di Adria, sarà tradito da una delatrice e ucciso con un candelotto di dinamite il 4 febbraio 1945.
Un’uscita di scena di tale fatta parrebbe già abbastanza cruda e distruttiva, proporzionata al personaggio, ma i fascisti non se ne contentano e celebrano il trionfo imponendo a un medico di ricucire in qualche modo la testa per renderla riconoscibile.
Fatto questo, a mo’ di istruttivo finale di questa caccia all’uomo, le teste del terribile Eolo e del compagno perito con lui vengono tagliate, portate ad Adria e tenute per vari giorni esposte al pubblico come trofeo di guerra. Il corpo del ribelle trucidato fa da punto obbligato di visione in uno stillicidio di patiboli disseminati di paese in paese, per le strade di casa. Sono i monumenti di una diffusa pedagogia funeraria. Agiscono da richiamo per le ultime, forzose adunate di un popolo in gran parte in fuga, da se stesso e dal proprio passato”.
(Mario Isnenghi, L’esposizione della morte, in: Guerre fratricide. Le guerre civili in età contemporanea, a cura di Gabriele Ranzato, Torino, 1994)

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PASSEGGIATA SUL GARDA

     Ultimi giorni d’aprile dell’anno corrente: pur stanco e snervato, eccomi ancora qua – in questa fredda e piovosa primavera d’inizio millennio – a leggere e rileggere la prima versione  (la più laboriosa, la meno elaborata) del mio nuovo “romanzo”. Il quale, man mano che passa il tempo, sento che potrebbe sfuggirmi di mano per ridursi a una confusa e sfrenata babilonia linguistica; o meglio, a un arruffato e affollato campiello lacustre straripante di voci e confidenze le più incredibili e strampalate.

     Voci fantastiche e seducenti, che spesso vengono a me sul far della sera. Oppure in piena notte, sempre portate a filo d’acqua dai venti che soffiano tutto l’anno sopra le onde del Garda. Il quale, assieme al Polesine, in effetti fa da sfondo a ogni mio libro in guisa di sterminato campiello abitato da persone e personaggi che si esprimono nelle lingue e nei dialetti di mezzo mondo. Storie e destini che s’intrecciano e si dissolvono da secoli e secoli e che, ovviamente, io cerco di catturare vagabondando sulle sponde pettegole del lago nella speranza di cogliere almeno un’eco di quell’immenso mormorio umano che sempre sale – sempre uguale e diverso – da ogni angolo di questo microcosmo animato da chiassose comitive turistiche in estate. E da profondi e malinconici silenzi autunnali e invernali, quando i venti del Nord ripuliscono il cielo dall’afa e dai clamori estivi e il lago riacquista allora il suo respiro di piccolo mare incastonato tra le montagne e la pianura padana.

     Naturalmente nel corso dei miei vagabondaggi – da consumato e disincantato flàneur – ho anch’io delle mete preferite. Sono, diciamo così, i miei luoghi dell’anima che variano a seconda delle stagioni ma, soprattutto, a seconda di quanto sto scrivendo in quel determinato momento. In pratica a ogni angolo del Garda corrisponde uno spunto narrativo, sia esso una piazza, un castello, un golfo, una limonaia, un vicolo. Tutto insomma mi ispira in tale ambiente, nel quale ormai vivo (e scrivo) da quarant’anni. E dal quale peraltro non ho alcuna intenzione di andarmene, visto che qualunque distacco dalla mia quotidiana “ronda” lacustre mi crea soltanto un vago senso di spaesamento misto a scontento e irritazione.

      Sì, lo ammetto, io sono essenzialmente un animale da tana. Da tana gardesana.
In un’epoca in cui, caduti i confini e le frontiere nazionali, tutti corrono dappertutto – e gli scaffali dei libri di viaggio aumentano a dismisura – ebbene, proprio per questo io detesto viaggiare, sissignori, in quanto gli unici viaggi che mi appassionano sono quelli tra le pareti della mia mente. E nella mia mente, grazie allo specchio del Garda, si rispecchia il mondo intero.
     Un mondo purtroppo sempre più minacciato – e oltraggiato – da quelle orde di sciamannati vacanzieri che rappresentano un serio ostacolo ai miei silenziosi e laboriosi vagabondaggi “letterari”, i quali si snodano abitualmente secondo le seguenti tappe:
Una rapida visita mattutina (molto presto, al sorgere del sole) nel porticciolo di Rivoltella. Sopra il quale si staglia Villa Brunati, sede di quella Biblioteca Civica in cui – in veste di bibliotecario – ho passato forse i miei anni migliori.
P
oi breve sosta a Sirmione, nei pressi del castello scaligero, per una rapida colazione nella penisola di Catullo e di Maria Callas.
     Indi rotta verso Peschiera, superata la quale dopo un po’ si arriva al golfo di San Vigilio, uno degli angoli più belli della riva veronese, con vista su Villa Guarienti e il suo parco rinascimentale.
     Una volta tornato sulla Gardesana e fatto qualche chilometro, di solito mi fermo a prendere un caffè a Malcesine, di cui Goethe parla con rimpianto e ammirazione nel suo Viaggio in Italia. Uscito dal paese, via senza indugio verso Riva del Garda, nel cui golfo Kafka ambientò un suo celebre racconto, Il cacciatore Gracco.  

     Superata Riva, che è una splendida cittadina dall’aria vagamente austro-ungarica,  imbocco la Gardesana bresciana per andare a pranzo in qualche trattoria nei borghi collinari di Tremosine o di Tignale: non dovrei rivelarlo, ma la mia meta prediletta è Pieve, una frazione di Tremosine, da cui si gode una vista panoramica su tutto il Garda.
Sulla via del ritorno, un’ultima sosta. La meno nota e reclamizzata. E per questo a me più cara. Non è infatti una terrazza mozzafiato o un porticciolo da sogno, e neppure uno di quei golfi incantevoli come quelli di Salò o Gargnano.
     No, si tratta semplicemente di una strada. Una sinuosa stradina collinare, poco più larga di un sentiero, che nel corso degli anni ha finito per diventare nel mio immaginario una specie di proustiana “strada di Swann”. È difatti così che io chiamo la strada di San Michele, quel tragitto a mezzacosta che si snoda tra Salò e Gardone Riviera percorrendo il quale, inevitabilmente, ti vieni a trovare in una situazione del genere: con l’azzurro del lago che risplende ai tuoi piedi e la testa (e la mente) tra il verde dei prati e degli ulivi. Mentre il vento intanto ti scompiglia i pensieri e ti fa dimenticare gli amori passati e gli amici perduti. (aprile 2019)

 

Per offrire un profilo artistico e letterario dello scrittore Francesco Permunian
più ampio e pregnante, vi proponiamo l’intervista del giornalista e critico
letterario Nino Dolfo all’autore veneto, uscita ne Il Corriere della Sera
in occasione della pubblicazione
del romanzo Ultima favola (Il Saggiatore, 2015)

Nino Dolfo

1)  Come mai la scelta di Herlitzka, attore che ha una sua “distinzione” nel panorama teatrale e soprattutto un volto che è già una maschera?
2)  Questo testo tu lo tenevi nel cassetto. Che storia ha? A me sembra che sia uno dei più intimi e segreti. Mai come in questo parli del vulnus che hai dentro (la perdita di tua moglie).
3)  Melanconia e melomania (Callas), peraltro una stessa radice etimologica; lirismo e tragedia, i due versanti in cui si colloca il tuo universo poetico. I tuoi libri hanno una carica morale e nel contempo sono eretici. Possono stare insieme le due cose? A me sembra di sì, e che ne pensi?
4)  Il bestiario della tua provincia a me ricorda il delirio visionario di un pittore come Bosch. Nulla in contrario?
5)  Non mi ricordo più come venivi classificato da Cordelli nella sua ripartizione. Me la puoi ricordare tu? Se non erro anche Cortellessa ti censisce…

Francesco Permunian 

Risposta alla domanda n. 3 (in cui l’autore risponde anche alle altre domande)

     Possono stare assieme due personalità quali furono Mario Giacomelli e Sergio Quinzio, l’uno fotografo e l’altro pensatore religioso? Apparentemente no, eppure per me sono stati i miei veri maestri segreti perché entrambi furono dei visionari. E soprattutto entrambi furono segnati, come me, da uno stigma famigliare che incise a fondo e in maniera indelebile nelle loro vite.
     Mario Giacomelli, rimasto orfano di padre a 11 anni, dovette abbandonare gli studi e mettersi a lavorare andando a fare il garzone. A Sergio Quinzio invece non morì il padre, bensì la moglie, l’amatissima Stefania di cui ci lasciò un ritratto struggente in un diario oggi introvabile, L’incoronazione. Lettera a Stefania,  uscito nel 1981 per le edizioni Armando.

 

Mario Giacomelli

     Nella breve nota d’introduzione Quinzio spiegava, tra l’altro: “Il lettore ha perfettamente diritto di leggere a suo modo le pagine che ho scritto. Lo prego però di ricordare che, scrivendole, non ho inteso esaltare i buoni sentimenti e compiere opera edificante, ma, all’opposto o quasi all’opposto, testimoniare e gridare a Dio l’orrore di un mondo, proclamato redento, in cui ciò che è buono e pieno di tenerezza non può che essere crocifisso e calpestato”.
     Questo, dunque, fu il libro che Quinzio mi donò quando ci incontrammo la prima volta (ero andato fino a Roma, mi ricordo, proprio per chiedergli se lui credeva per davvero alla resurrezione dei morti!) e difatti la mia copia reca questa dedica di Sergio: A Francesco, in una vera comunione che va oltre le parole. (Roma. 14.5.1993).
     Aggiungo che ho sempre letto e tuttora insisto a leggere la Bibbia – ci tengo a precisarlo – non perché parla di Dio o dell’inferno, a cui non credo e non ho mai creduto, ma unicamente perché è un grande libro di avventure. Per motivi “letterari” insomma, non certo per ragioni di ordine religioso che, in una persona quale il sottoscritto, risulterebbero francamente improbabili. E poi, vedi, io sono per natura un gran pettegolo e quindi mi piace spigolare tra le pagine della Bibbia a caccia di dettagli insoliti, come per esempio questa faccenda delle emorroidi di cui c’è traccia in una lettera di Quinzio a Massimo Cacciari datata 2 dicembre 1981 (oggi sta nel carteggio Quinzio-Ceronetti intitolato Un tentativo di colmare l’abisso. Lettere 1968 – 1996  Adelphi, 2014):

Caro Massimo,

io non sono in grado di leggere un testo biblico in ebraico. Ho imparato appena, quando avevo quasi cinquant’anni, a leggere sillabando, e al massimo sono giunto a seguire qualche salmo con l’aiuto di una traduzione interlineare, necessariamente piatta e sciatta. La prima volta che ho letto la Bibbia l’ho letta in una vecchia versione francese, piuttosto orripilante, ed ero ragazzo: le piaghe con le quali venivano colpiti i nemici di Israele erano invariabilmente le emorroidi: ‘et Dieu les frappa par les hémoroides’ …

     Insomma, ecco il punto: sacro e profano, celestiale ed escrementizio (vale a dire tragico e comico, paradiso e inferno… ) risultano sempre ai miei occhi di laico indissolubilmente legati, tanto è vero che nella mia camera da letto – appesa al muro al posto del Crocifisso – c’è stata per molto tempo una piccola targa d’ottone sulla quale campeggiava questo motto  di Giorgio Manganelli: “Oscillare fino sull’orlo del tragico e distrarsene in tempo per conseguire il rapido lembo del ridicolo – o del risibile”.
     Le ho sempre considerate, quelle parole, a mo’ di stemma gentilizio personale, una sorta di canone estetico da osservare scrupolosamente ogni qualvolta mettevo in cantiere un mio nuovo lavoro letterario.

Da sinistra, Sergio Quinzio e Guido Ceronetti

      E così è stato anche quando ho iniziato L’ultima favola, la cui prima stesura risale al settembre del 2003 e che non aveva il titolo attuale, bensì quello di Prigioniero dei tartari.
     Con quel titolo si alludeva a una crudele usanza dei tartari, i quali erano soliti legare i prigionieri ai cadaveri, viso contro viso, bocca contro bocca, finché il morto divorava il vivo: che, appunto, è ciò che accadeva al protagonista del mio racconto, il quale giorno dopo giorno veniva sempre più irretito e infine divorato dai fantasmi del suo passato.
     Dico “racconto”, ma la versione originale era strutturata più che altro sotto forma di diario, se non addirittura di zibaldone: erano frammenti di ricordi, che si mescolavano ad appunti del presente e a considerazioni di ordine generale (morali, religiose, letterarie, ecc.…).
     Ero, insomma, ancora fortemente influenzato, a mia insaputa, da certi modelli diaristici classici, in particolare dallo Zibaldone del Leopardi. Ciò di cui ero alla ricerca era infatti una struttura narrativa volutamente aperta e rabdomantica, in grado di accogliere e convogliare ogni aspetto della vita, dal più turpe al più sublime. Volevo cioè costruire nel mio cantiere di scrittore visionario una nave da carico che accogliesse il mondo intero nelle sue stive, tale da affrontare impavida e invincibile le mille insidie che si nascondono nel mare magnum della letteratura. Questo fu il rovello che mi attanagliò per diversi anni, rischiando di cadere in una tela di Penelope senza fine…
     Fu però l’incontro con il Pontormo, il grande pittore visionario del Cinquecento, che impresse la svolta decisiva al mio lavoro, tirandomi fuori dalle secche in cui era finito, e convincendomi a sottoporre il testo a una riscrittura (l’ennesima!) radicale e definitiva.
     Cosa accadde? Successe che un bel giorno mi capitò tra le mani L’orologio di Pontormo pubblicato a cura di Salvatore Silvano Nigro, un’opera strana e straniante che riportava in appendice Il libro mio, ossia il diario minimo tenuto dal Pontormo negli ultimi anni della sua vita. Ne fui molto incuriosito, oltre che turbato. E di lì a un po’, dopo il libro, ebbi la fortuna di conoscere anche il curatore, vale a dire il prof. Nigro, con il quale nacque e in breve si cementò un rapporto di stima reciproca.

Jacopo da Pontormo, Autoritratto, particolare della Deposizione, 1526-1528, Firenze, Chiesa di Santa Felicita, Cappella Capponi

     Alla fine mi feci coraggio e gli mandai il manoscritto a cui stavo attendendo da anni. Nigro lo lesse e mi diede alcuni consigli, molto utili, soprattutto di imprimere al testo un andamento narrativo da romanzo e non da diario, altrimenti sarebbe risultato impubblicabile. Il che ovviamente mi obbligò a riscriverlo di nuovo, quel benedetto testo, fino a giungere infine alla forma e al titolo attuale che è L’ultima favola.
      È un libro certamente intimo e segreto, come dici bene tu. Che richiede pertanto una particolare attenzione se e quando verrà pubblicato: l’unica speranza è che capiti nelle mani di qualche editor ancora sensibile ai valori della letteratura, una circostanza abbastanza rara al giorno d’oggi… In caso contrario, è meglio che esso continui a rimanere nel cassetto in cui si trova da più di dieci anni.
     Elegia e tragedia, dunque. Toni lirici alternati a squarci grotteschi, tragedia e commedia unite in un connubio scandaloso di riso e pianto, ecco, così si presenta oggi al lettore L’ultima favola, e in tutti questi anni di scrittura e riscrittura, sai qual è stata la cosa che più ho temuto? Mica il cosiddetto blocco narrativo, anzi, grazie a dio io possiedo una fantasia sfrenata e pressoché illimitata, no, la paura più sottile e insidiosa è stata invece quella di scadere nel patetico, ovverossia nel kitsch. Visto l’argomento di cui scrivevo (il male di vivere di un uomo che ha perso la donna amata), beh, quello era come un nemico sempre in agguato, credimi, una lama che mi pendeva sulla testa ad ogni riga che scrivevo…
     Alla fine ho fatto così: ho incollato sopra al mio pc, a mo’ di quotidiano ammonimento, le seguenti parole di Thomas Bernhard tratte da Elisabetta II: “Spesso chi soffre diventa poetico e si abbandona senza ritegno al kitsch come fosse un giardino incantato”. E come non bastasse, ogni giorno me la ripetevo – quella frase – cercando di imitare il modo in cui l’aveva pronunciata a teatro Roberto Herlitzka, di cui sono sempre stato un grande ammiratore.
    È lui infatti, Herlitzka, l’interprete ideale di Bernhard perché sa dosare a meraviglia vari registri, da quello ironico a quello grottesco, passando a volte attraverso toni di una  disperazione raggelata e irridente. L’ideale insomma per me e la mia Ultima favola.

Roberto Herlitzka

     La fortuna ha voluto che Roberto Herlitzka, nell’autunno scorso, leggesse un mio libro (La Casa del Sollievo Mentale) e ne restasse colpito: da lì è cominciato il nostro rapporto di collaborazione per una lettura pubblica de L’ultima favola, da lui stesso definita in una sua lettera a me inviata “… è un romanzo scritto con il lasciapassare della follia (e dei sogni) che rende possibile e vera ogni cosa, anche la più proibita che ci accade di immaginare”.
     Tu accenni infine a Bosch, ed hai perfettamente ragione. Ma io penso anche al Pontormo e ai suoi colori straniti e vagamente allucinati… oppure a certi pittori “maledetti” e laterali quali ad esempio Varlin, per arrivare alle creazioni odierne e perturbanti dei fratelli Chapman.
     Quanto alla musica e a Maria Callas, che ha una parte così importante nel mio romanzo in quanto ha la funzione di salvare il protagonista, credo bastino – sì, ancora una volta lui! – queste parole di Bernhard da Antichi maestri: “Grazie alla musica salvarsi ogni giorno di nuovo, tirarsi fuori da tutte le nefandezze e le cose disgustose, è questo il trucco, disse, ritrovare ogni giorno la salvezza grazie alla musica”.

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Note

1. A la guerre! A la guerre! è tratto da La polvere dell’infanzia e altri affanni di gioventù (Nutrimenti, 2015)
2. La foto di copertina e quelle relative al racconto A la guerre! A la guerre! sono di © Duilio Avezzù
3. Passeggiata sul Garda è un testo di Francesco Permunian contenuto nel libro In certi luoghi dell’anima di Pino Mongiello (Grafo Edizioni, 2020). Le foto a corredo di Passeggiata sul Garda sono di © Pino Mongiello
4. L’elaborazione grafica del ritratto di Francesco Permunian su foto di Pino Mongiello è di © Mimma Rapicano
5. La foto che apre le Note Bio–Bibliografiche è di © Pino Mongiello

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Francesco Permunian, nato a Cavarzere nel 1951, l’anno della grande alluvione del Polesine, vive da tempo a Desenzano sul lago di Garda.
Ha pubblicato diversi libri, tra cui 
Il principio della malinconia (2005), La Casa del Sollievo Mentale (2011), Il gabinetto del dottor Kafka (2013), Sillabario dell’amor crudele (2019), Il rapido lembo del ridicolo (2020).
Delle sue opere hanno scritto i maggiori critici, tra i quali Maria Corti, Pietro Gibellini, Salvatore Silvano Nigro, Emanuele Trevi.
Inoltre, Franco Cordelli lo ha incluso fra i settanta autori che rappresentano la letteratura italiana, Andrea Cortellessa lo ha inserito nell’antologia
La terra della prosa. Narratori italiani degli anni Zero (2014), Andrea Caterini gli ha riservato un “ritratto” nel saggio antologico Ritratti e paesaggi. Il romanzo moderno (2019) e infine Giulio Ferroni gli ha dedicato ampio spazio nel suo libro L’Italia di Dante. Viaggio nel Paese della “Commedia” (2020).
Il prossimo autunno 2021 uscirà per Ponte alle Grazie il romanzo intitolato 
Giorni di collera.


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