“Generazione di passaggio non abbiamo il compito di dare risposte.
Il nostro compito è moltiplicare le domande”.
Eleonora Molisani, “Pronti per la ri-evoluzione”
Essere o non essere darwiniani? Credere che sopravvive solo chi si adatta e si fa piacere il cambiamento? Da queste domande si può partire per scoprire che cos’è Frattempi moderni (Il Margine Libri), antologia curata da Elisabetta Tiveron e Cristiano Dorigo, nella quale alcuni autori hanno accolto l’invito a raccontare la generazione di passaggio tra società analogica e digitale.
C’è chi, come Eleonora Molisani, afferma di non sentirsi “vittima degli eventi”, perché ha accolto e affrontato la rivoluzione digitale con curiosità e sete di conoscenza. Per lei rivoluzione “significa sempre evoluzione” e, così, ha coniato la parola ri-evoluzione.
Ripercorrendo la sua storia dall’epoca in cui “fogli e fogli di correzioni e riletture” sono stati “una grande scuola di scrittura, organizzazione del pensiero e logica” all’oggi in cui il computer e la rete riducono i tempi, con la conseguenza, però, di “sacrificare professionalità e posti di lavoro”, sottolinea che il giornalista non è più “scrivente”, ma “comunicatore a tutto tondo”.
Non ha senso chiedersi: meglio o peggio di prima? Ciò che importa davvero è se “la comunicazione è un posto dove ci piove dentro”, sull’esempio di Italo Calvino e le sue Lezioni americane, se la comunicazione digitale penetra in profondità o è “un temporale estivo che, una volta giunto, non lascia tracce nella nostra memoria”.
La memoria è il tema che più attraversa le storie di Frattempi moderni e accompagna il lettore fra comparse e scomparse di modi di comunicare, che hanno forgiato la realtà quotidiana e l’immaginario degli autori, persone fra i trenta e i sessant’anni.
Antonella Cilento, nel racconto Cielo provvisorio, rende protagoniste la macchina “coi tasti stondati” e quella elettrica con display. Esse “sono ancora qui”, mentre “tutti i computer cambiati non esistono più”.
Nella sua attività di docente si accorge “sempre se un materiale è passato prima per il quaderno: è meno ovvio, più complesso, spesso più corretto” e ritiene che la scrittura al computer riduca “la capacità di allargare lo schema del ragionamento” e il risparmio di tempo non sia “utile all’arte”, anche perché la memoria digitale si lascia cancellare.
Esiste, secondo lei, una responsabilità della generazione di passaggio? Sì, “non aver fatto crescere la generazione dei ventitre-trent’anni”, ricordando che “certe cose al computer non le puoi vedere né scrivere” ed è necessario “riprendersi il tempo e lo spazio fisico”, come quello del racconto scritto da Sandro Frizziero, Giorno libero, in cui la protagonista, nata negli anni Ottanta, rivede la propria vita, a seguito di una notizia ricevuta, che le regala del tempo inatteso. Ma come ha vissuto quello che le è stato dato finora? Attraverso fotogrammi esistenziali riflette sul fatto che, pur avendo avuto del tempo a disposizione, lo ha sprecato. “Non hai portato a termine nemmeno una delle tue vite potenziali” e l’unica stella fissa è la velocità di una notifica di Facebook.
Davvero la velocità della rete brucia la memoria non recente? Un certo Andrea, scritto da Federica Sgaggio, è un viaggio a ritroso dal 2020 al 2014, attraverso Google Maps e Airbnb, per vedere di nuovo in rete prima di ri-vedere fisicamente i luoghi di un amore.
Al computer noi diamo ordini, ma è possibile che ci consenta di mobilitare un sentimento? È quello che succede a Margherita, protagonista del racconto, che riavvolge il calendario dei viaggi con Andrea. Al ricordo “soffice, rosato”, che “era solo mio”, si sostituisce lo stupore fino al pianto, alla scoperta che l’immagine di una stanza d’albergo ora è di chiunque.
Anche Gustavo Antù Nascimbeni, protagonista del racconto di Ade Zeno, Il custode delle voci, avvolto nel suo “dimesso esistere”, crede di coltivare un’eredità esclusiva: preservare la memoria attraverso l’intercettazione delle voci, “diretta emanazione dello spirito”.
Il compito di conservarle in un archivio grazie a telegrafoni, magnetofoni fino ad apparecchi sempre più sofisticati era stato affidato alla madre. Ora tocca a lui: le voci “non sanno che le ascolto, eppure non chiedono altro che di essere ascoltate”. Una presenza che evoca l’eternità.
Invece, l’urto con la realtà risveglia e stupisce anche Nascimbeni, perché “le voci di oggi hanno dimenticato il senso del limite, hanno iniziato a registrarsi da sole (…) Nessuno sembra curarsi del silenzio, il vuoto che all’inizio occupava quelle lunghe pause è stato sostituito dall’esigenza di evitarlo per fare luogo ad altre parole”.
Si tratta, dunque, di attribuire il giusto valore alla quantità di dati e informazioni che la tecnologia ci offre, come afferma Elisabetta Tiveron nella sua riflessione introduttiva dal titolo Il privilegio e la responsabilità.
Questo tempo si identifica, quindi, come un presente-ponte consapevole e responsabile nei confronti dei nostri figli, nativi digitali. Significa chiederci: e noi, adesso, chi siamo?
Massimo Cirri nel suo racconto E io, adesso, chi sono? si rivede bambino e adolescente in un mondo lento, racchiuso in poche centinaia di metri; quando il telefono compare a casa della zia, la lentezza non scompare, poiché all’autore serve tempo per andare a rispondere e quel tempo la zia lo occupa portando le uova in casa del nipote. Oggi Cirri si osserva, inondato di mail a tal punto che “a quelle più importanti non rispondo perché sono importanti e non posso rispondere alla svelta, ci vuole attenzione e l’attenzione richiede tempo”.
Perché Frattempi moderni? È Cristiano Dorigo nella sua introduzione dal titolo So di non sapere il mondo a chiarirne il significato. Frattempo è “un infinitesimale istante di pausa fra un pensiero e l’altro in cui si diventa consapevoli e inizia la comprensione”. Per far questo è indispensabile il dialogo col proprio corpo, con il nostro stare al mondo, laddove il nostro vivere in società necessita della presenza fisica.
Graficamente e concettualmente diverso dagli altri testi, Parti di Fabio Magnasciutti incastona parti di testo in parti di corpi disegnate in bianco e nero. Il lettore è accolto da impronte digitali che si toccano, non sono ancora codice alfanumerico. “Dammi i tuoi occhi”, abbracciati da un vortice di mani. “Non facciamo che mescolarci, rimodellando continuamente i vuoti intorno che ci plasmano”, anche con una foglia ridotta a brandello, che “qualcuno” dovrà pur raccogliere per sentirsi vivo, riviversi bambino che gioca e riavvolgere “il film in cui sono figurante”. Fino a uscire di scena.
Il corpo, lo stare al mondo o in un mondo è anche il tema dei racconti di Ginevra Lamberti (Magico mondo), Giovanni Montanaro (Casa mia) e Michela Fregona (La nuda verità).
Il trasferirsi dalla “grande città” alla “piccola città” a un posto “fuori città” fra il 1989 e il 1997 è racchiuso nel racconto di Ginevra Lamberti, in cui ogni anno è allietato da una nuova nascita-consapevolezza: dalla televisione al lettore cd, che non fanno uscire e alimentano il “magico mondo”, parallelo a quello che la protagonista non capisce, dentro e fuori casa. “La musica riproposta a piacimento è la cosa più bella che le sia capitata assieme alla televisione”.
La comparsa del telefono, invece, la aiuta a uscire e comunicare con qualcuno di reale: Laura, la compagna di banco. Ma l’uscire di casa può anche continuare ad alimentare il magico mondo, poiché rende possibile il non essere trovati.
Un mondo parallelo è il centro anche del racconto di Giovanni Montanaro, che inizia con il sogno del protagonista di essere rapito dai narcos, pur di fuggire dal presente e dal futuro che lo attende. Tornato alla casa d’origine, a causa della pandemia, in un flusso di coscienza che riflette l’angoscia di uno stato di necessità, in una torrenziale confessione di inettitudine e incapacità di adattamento, è roso dal sospetto di essere stato lui a contagiare la madre e averne causato la morte. Un ancestrale senso di colpa pervade la storia, accompagnando tutto ciò che il protagonista fa e sente: dalla vergogna di farsi vedere in pigiama a chi lo contatta, alla convinzione che l’essere andato via da casa lo abbia condotto a non riconoscere né l’appartamento dove è vissuto da solo né la casa d’origine come il suo posto nel mondo, di non aver “costruito niente”. L’unica via maestra è l’attesa che un domani “si farà ciò che sarebbe il caso di fare oggi”.
Michela Fregona racconta, invece, il fare oggi quello che si deve fare oggi: organizzare undici giorni lontano da casa, senza essere rintracciabile, in una spiaggia per nudisti. La protagonista cerca la libertà; esporre il proprio corpo è una forma di libertà o una gabbia? Una domanda che lei si pone in un’epoca precedente la rivoluzione digitale, eppure attuale in questo frattempo di esposizione costante del corpo. “Per essere liberi da se stessi”, conclude, “è necessario essere da soli con gli elementi naturali”, comprendere che “libertà non è fare perché lo fanno gli altri”.
Il timore di non poter fare a meno della tecnologia fino ad annullare la percezione e il godimento della bellezza e del reale è il tema della riflessione di Emanuele Pettener dal titolo L’ultimo uomo sulla Terra senza cellulare.
È possibile una vita senza cellulare? Cosa ci ha tolto la tecnologia? “Lo stare con noi stessi, la ragione, il senso del ridicolo” per dare spazio e tempo a “vanità, stupidità, prepotenza, violenza, invidia”.
Ricollegandoci alla riflessione di Eleonora Molisani, possiamo leggere in Pettener l’altro lato della medaglia: quanto ci costano i vantaggi della tecnologia a livello umano? Come praticare solidarietà, indipendenza intellettuale, analisi critica, capacità di assorbire bellezza, che pretendono tempo, lentezza, concentrazione, silenzio?
“La bellezza condivisa sfiorisce” afferma provocatoriamente. “Stai fotografando e filmando prima di vedere”.
È, dunque, possibile vivere senza cellulare, perché “essere irrintracciabile, percepire la bellezza è un’euforica sensazione di libertà” e allontana la paura di diventare quel codice alfanumerico, utente qualunque, “vivente a vanvera”, scelto da Francesco Maino. Dall’inizio del tempo è un parossistico gioco linguistico, all’interno del quale l’autore racconta il Veneto che continua a lavorare con la bocca cucita, a chiamare con un altro nome quello che non ha cambiato la sua essenza; decostruisce il racconto dell’abitudine al falso cambiamento che ha generato solitudini: “Lasciamo stare, dottore, lasci stare, me la caverò da solo, come sempre”.
Quali sono i frattempi delle nostre città, fatte di solitudini? Quali pratiche abbiamo la responsabilità di diffondere e lasciare in eredità? Qual è stato lo spartiacque tra la società analogica e quella digitale? Lo abbiamo davvero già vissuto nei primi anni Duemila o lo stiamo vivendo ora?
Nella sua riflessione dal titolo Frattempi di una città, frattempi di noi cittadini Lala Hu individua lo spartiacque nella pandemia da Covid-19, dopo la quale l’era digitale non sarà più quella paventata alla comparsa dei social media, polarizzati fra le fake news globali e le echo chambers. Gli eventi pandemici, a suo avviso, “impegnano a riflessioni non più posticipabili”.
L’autrice parte da uno sguardo sulla città di Milano, “che lascia poco alla creazione di nuovi immaginari, alla costruzione di nuovi modi di concepire la città”, per allargare la sua riflessione alle pratiche per essere nuovi cittadini “in una società più equa e più unita”.
È doveroso, quindi, rielaborare i frattempi moderni vissuti dalla generazione di passaggio, perché diventino “testimonianza concreta da lasciare alle prossime generazioni”.
Come scrive Eleonora Molisani, “siamo novelli Ulisse: da un lato ci sono le irresistibili sirene, dall’altro il richiamo della terra e degli affetti antichi. L’onda ci porta avanti, ci riporta indietro”.
Titolo: Frattempi moderni
Curatori: Elisabetta Tiveron e Cristiano Dorigo
Testi di: Antonella Cilento, Massimo Cirri, Michela Fregona, Sandro Frizziero, Lala Hu, Ginevra Lamberti, Fabio Magnasciutti, Francesco Maino, Eleonora Molisani, Giovanni Montanaro, Emanuele Pettener, Federica Sgaggio, Ade Zeno
Casa Editrice: Il Margine
Anno di pubblicazione: 2021
Pagine: 184 – 16,50 euro
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Elisabetta Tiveron
Di formazione storica, opera nel campo editoriale come autrice, curatrice, comunicatrice. Ha pubblicato un considerevole numero di libri per varie case editrici, occupandosi di cibo, letteratura, storia sociale.
Cristiano Dorigo
Operatore sociale, si occupa di scrittura come autore e curatore. Ha pubblicato diversi libri. Suoi scritti sono stati inseriti in opere collettive, nonché riviste, giornali e blog italiani e statunitensi. È co-ideatore e co-sceneggiatore del pluripremiato cortometraggio El mostro (Studio Liz).
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Insieme hanno ideato e curato le antologie Porto Marghera. Cento anni di storia (1917-2017), La Venezia che vorrei. Parole e pratiche per una città felice, Lettere da nordest (Helvetia Editrice).
Annarosa Maria Tonin è nata a Vittorio Veneto nel 1969. Laureata in Lettere moderne all’Università Ca’ Foscari di Venezia con una tesi sugli inviati veneti alla corte di Rodolfo II d’Asburgo, è stata docente di Materie Letterarie e Storia dell’Arte nelle scuole medie e superiori. Curatrice di eventi culturali, collabora con la rivista trimestrale Digressioni e la libreria Tralerighe di Conegliano. Autrice di racconti, romanzi e saggi, ha pubblicato per Digressioni editore la raccolta di saggi “L’uomo nell’ombra. Storie d’arte, potere e società” (2019) e il romanzo “Anatolia” (2020).
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