DYLAN E IL NOBEL: il discorso del re di Alessandro Carrera
Sappiamo che Dylan non andrà a Stoccolma a ricevere il Premio Nobel per la Letteratura dalle mani del Re di Svezia. Sappiamo, così ha detto, che ha impegni improrogabili. Conoscendo un poco Dylan, o presumendo di conoscerlo, ci viene da pensare che magari proprio quel giorno ha affittato uno studio di registrazione perché vuole incidere una certa canzone con un certo chitarrista che è libero solo in quelle ore e se c’è una sovrapposizione di date, ebbene, tanto peggio per il Nobel. La notizia di ieri è che Dylan ha inviato un suo testo e una lettera di ringraziamento agli accademici di Svezia che saranno letti il prossimo 10 dicembre e che, in assenza di Bob, sarà Patti Smith a cantare “A Hard Rain’s A Gonna-Fall”.
Il discorso, dunque. A Dylan non piace fare discorsi, non gli è mai piaciuto e non gli sono mai venuti bene, fin da quando ha pronunciato il primo della sua vita, il 13 dicembre del 1963, poche settimane dopo l’assassinio di J. F. Kennedy, quando ricevette il primo dei suoi premi, conferitogli a New York dall’Emergency Civil Liberties Committee. Un discorso disastroso.
Voleva parlare di Lee Oswald, voleva far capire che la violenza che Lee Oswald aveva espresso uccidendo il presidente circolava nell’America, tutti ne erano contagiati, forse perfino lui stesso. Ma per il nervosismo si era quasi ubriacato, riuscì soltanto a scandalizzare i presenti e a far fallire la raccolta dei fondi per l’organizzazione. Dylan si ricorda certamente di quando ha ricevuto il Polar Prize per la musica, un premio prestigiosissimo consegnato proprio a Stoccolma nel 2000, insieme al violinista Yehudi Menuhin. Non doveva pronunciare un discorso, ma sbagliò il protocollo, prese il premio dalle mani della regina senza aspettare che fosse il re a consegnarglielo, insomma fece una brutta figura e la sera non andò nemmeno alla cena con il re. Con queste premesse, non è difficile immaginare che la ragione della sua reticenza nei confronti del Nobel sia proprio il suo terrore di doversi mettere in marsina, seguire il protocollo e fare un discorso a nome di… Ecco, a nome di che cosa, esattamente? È qui dove dobbiamo far intervenire la fantasia. Che discorso invierà a Stoccolma? Proviamo a immaginarlo.
Signore e signori dell’Accademia, loro altezze reali, vi sono molto grato per la vostra considerazione, ma devo anche confessare che mi avete messo in grave imbarazzo con i miei amici. Mick Jagger e Keith Richard mi stanno ancora prendendo in giro, Neil Young e Paul McCartney ridono sotto i baffi, Joni Mitchell è furiosa e Joan Baez non riesce a consolarla, Van Morrison è contento solo perché una volta che non era molto sobrio aveva scommesso su di me e adesso può reclamare le sue vincite. Insomma, grazie alla vostra istituzione sono in un bel guaio. Dovete capire che noi, e intendo le persone che vi ho appena ricordato, ma potrei fare molti altri nomi, siamo nati contro la scuola, contro l’accademia, contro i premi e i musei. Era tutto underground quando abbiamo cominciato, nessuno si interessava di noi e noi non avevamo interesse per nessuno. C’è stato un periodo in cui non sapevamo che cosa stavamo facendo, lo facevamo e basta. Ed è grazie al fatto che nessuno di voi badava a noi e che noi non badavamo a nessuno di voi che siamo riusciti a cambiare qualcosa.
Ma poi, ci siamo riusciti davvero, o il merito non è forse di chi era venuto prima? Quasi vent’anni fa, nel 1997, ho inciso “My Blue-Eyed Jane”, una bella canzone country di Jimmie Rodgers, e quando mi hanno chiesto di dire qualcosa su di lui ho dichiarato che è uno dei fari del ventesimo secolo. Vi stupisce? Lo so, vi stupisce, perché voi pensate, anzi no, voi sapete, perché voi siete l’Accademia, che i fari del Novecento si chiamano Stravinsky, Picasso e James Joyce, anche se a lui il premio non l’avete dato. Ma se poi girate per le strade e sfogliate la storia di quello che la gente ascolta e delle parole che si ricorda, vedrete che Jimmie Rodgers e Elvis Presley hanno cambiato la musica del Novecento tanto quanto Stravinsky, e forse, ebbene sì anche la poesia. Non la poesia che si scrive. Dico la poesia che si parla e che si canta. Quella che riesce a entrare anche sotto la pelle di chi non legge poesia. Di chi non legge niente. Ma poi che importa se è scritta oppure no? La poesia importante è quella che ci ricordiamo. Ed è importante ricordarla, perché alla fine sarà l’unica che resterà.
I libri si sfarinano, i dischi si rompono, le cassette si smagnetizzano, i CD si incrinano, i file si rovinano, i computer che usiamo sono obsoleti dopo pochi anni. Se tre lustri fa avete salvato su un dischetto tutto quello che avevate, oggi non siete più in grado di aprirlo. Ma tutto ciò che va da una bocca a un orecchio, e dall’orecchio alla bocca, è una catena aurea che non si fermerà mai. Vedete, non sono venuto a dirvi che dovete cambiare la vostra scala di valori. A dirvi che sul trono dove sta seduto T.S. Eliot adesso dovete mettere anche Skip James. I troni, senza offesa per il re e la regina qui presenti, non m’interessano. Quello che voglio farvi capire è che la poesia di T.S. Eliot è grande, ma la poesia di Skip James è perfetta. Forse Eliot avrebbe potuto scrivere ancora meglio di come ha scritto. Anch’io, se mi ci metto. Skip James no. Non poteva che cantare quello che ha cantato. Non poteva cambiare una parola.
Io spero che sappiate chi è Skip James. Nel 1931 ha preso un treno che l’ha portato dal Mississippi al Wisconsin a incidere diciotto canzoni per le quali non ha mai preso un centesimo. Trent’anni dopo, e ancora nessuno sapeva chi fosse, è stato ricoverato in un ospedale di Washington e ha composto “Washington D.C. Hospital Center Blues”. Ecco, quando Skip James canta: «Mi avete preso come un brav’uomo, sapevate che ero un pover’uomo, l’avevate capito. Sapevate che ero un brav’uomo, ma sono un pover’uomo, lo capite», non può usare altre parole da quelle che usa, non ha scelta. È per questo che la sua poesia è perfetta. Io rubo i suoi versi perché ho bisogno di lui. Lui a me non ruberebbe niente perché non ne avrebbe bisogno, non gli servirebbero in ogni caso. Io faccio poesia «nel solco della grande tradizione della canzone americana», avete detto voi. Lui ha solo detto le cose come stavano. Il solco l’ha tracciato lui.
Una volta, in una canzone che si chiamava “The Times They Are A-Changin’”, ho scritto che gli ultimi saranno i primi. Ma io, anche se sono qui stasera, non sono il primo perché non sono mai stato un ultimo. Degli ultimi non si sa nemmeno il nome. Hanno inventato tutto prima ancora che ci fosse un magnetofono per registrare la loro voce. È a loro che dobbiamo tutto. Vi vedo un po’ a disagio sulle vostre poltrone, forse dovreste uscire a prendere un po’ d’aria. Qui a Stoccolma fa freddo, anche se non così freddo come nel Minnesota dove sono nato io. Ma voi vivete in Svezia, lo sapete cosa succede quando il termometro arriva a meno quaranta. C’è come una mano che ti afferra la spina dorsale e non te la lascia più. Io l’ho sentita molte volte, la sento anche adesso, qui in questa sala riscaldata. Quando scende quel freddo bisogna camminare in fretta per scaldarsi, e cantare è una fatica perché ti si gela l’aria che esce dalla bocca. Ma cantare bisogna, altrimenti non si trova la forza di arrivare a casa.
Molti anni fa avete dato il premio Nobel a Ernest Hemingway, e nemmeno lui è venuto a prenderlo. Non stava bene e non se la sentiva di affrontare il viaggio. Io non ho questa scusa. Però quando Hemingway ha ricevuto la notizia del premio gli è venuto da dire che c’erano altri che lo meritavano forse più di lui, e ha fatto il nome di Karen Blixen. Per potermi congedare da voi con un po’ di magnanimità, e anche, senza offesa, per potermene andare il più presto possibile a preparare il mio prossimo concerto, vi dirò questo: ormai che Woody Guthrie, Jimmie Rodgers, Charley Patton e Skip James non ci sono più, almeno potevate dare il Nobel a Leonard Cohen. Lui sì che sarebbe stato impeccabile. Lui sì che avrebbe fatto un discorso degno di questa occasione. Io? Io vengo dai boschi.
Alessandro Carrera
* Questo articolo è apparso su L’Unità il 6 dicembre scorso. Lo pubblichiamo in Finnegans edizione online per gentile concessione dell’autore.
*Alessandro Carrera è uno scrittore, saggista, traduttore e cantautore italiano. Negli Usa dirige dal 2001 il programma di italiano presso l’Università di Houston (Texas). Ha scritto per Feltrinelli nel 2001 il libro-culto: “La voce di Bob Dylan – Una spiegazione dell’America”.
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