Lo spunto per questo articolo me lo dà un testo di Alessandro D’Avenia, già scrittore oltre che insegnante di lettere al Collegio San Carlo di Milano, apparso sul Corriere della Sera lunedì 3 marzo 2025, per la rubrica Ultimo Banco e dal titolo Degli altri non mi frega niente. É qui che D’Avenia afferma che così gli scrive un ragazzo: «Frequento il terzo anno di università e ho finito la sessione di esami all’apice di una crisi che si protrae da mesi. Prima, durante e dopo l’esame mi sono sentito de-umanizzato, proprio come lei scrive in “Scissione” e “Diventare chi?”. Durante lo studio ero indifferente a ciò che imparavo, mentre ero interrogato non avevo alcuna voglia di mostrare ciò che avevo studiato, e dopo l’esame è emersa un’apatia totale. Non ero felice, triste, arrabbiato o nervoso: non ero nulla. Mi sono sentito un computer che ha raggiunto un risultato, schiavo di un sistema che ci dice di fare le cose entro un certo tempo e noi le facciamo, senza troppe domande e pensando: “Dai, che poi è finita”. Ma il problema non è il sistema o la facoltà, ma che, a 21 anni, mi sento inutile per me e gli altri. Più frequento corsi e supero esami, più mi sento fallito e in balia di eventi che mi trascinano. C’è però una nota positiva: è la prima volta che il mio stare male non si rivolge verso qualcuno o qualcosa, ma verso me e ciò che faccio. È la prima volta che mi chiedo cosa voglio davvero fare. Mi auguro di trovarlo».
Gli ultimi anni sono stati duri per tutti, ma soprattutto per i nostri ragazzi, come confermano le molte ricerche sul rapido aumento della solitudine, dell’ansia e della depressione tra i più giovani.
Secondo uno studio del Journal of Adolescence intitolato: “Aumento a livello mondiale della solitudine adolescenziale”, i bisogni di salute mentale degli adolescenti di tutto il mondo hanno iniziato ad aumentare dopo il 2012, in gran parte a causa dell’aumento dell’accesso agli smartphone e della crescita dell’uso di Internet.

In tutto il mondo, quasi il doppio degli adolescenti nel 2018 ha avuto livelli elevati di solitudine rispetto al 2012. E sfortunatamente, dopo la pandemia la solitudine dei ragazzi ha raggiunto livelli record. L’essere umano è un essere sociale e il suo cervello si è sviluppato nel corso dei millenni per interagire con altri esseri umani. Negli ultimi anni si è in certi periodi annullata o molto ridotta la possibilità vitale della connessione, soprattutto per gli adolescenti, in tanti modi.
Uno studio realizzato nel 2022 ha mostrato che “i tassi di sintomi depressivi sono aumentati notevolmente tra adolescenti e giovani adulti negli ultimi due anni” con il 38% di tutti i giovani di età compresa tra 14 e 22 anni che riportano sintomi di depressione da moderata a grave, rispetto al 25% nel 2018.
L’età della scuola superiore è probabilmente la fase di sviluppo più dura per i ragazzi, con la socializzazione al primo posto. È un periodo pieno di cambiamenti e nuovi inizi, in cui i ragazzi si sentono più adulti di quanto non siano in realtà, mentre si aggrappano ancora in modo forte al loro “bambino interiore”. Non solo stanno affrontando le pressioni di un aumento del carico di compiti e del dover tenere il passo con lo studio, ma ora devono superare le pressioni sociali, affrontare le delusioni di non essere invitati a ritrovi e feste, e probabilmente il più difficile di tutti: navigare nel mondo digitale dei social media.
Gli psicologi e gli esperti di sviluppo assicurano però che ci sono modi per individuare i problemi prima che diventino troppo seri.
I grandi cambiamenti sono difficili per chiunque, ma soprattutto per gli adolescenti che stanno già vivendo importanti cambiamenti evolutivi e neurologici.
Se un giovane si è recentemente trasferito in una nuova città o scuola, sta affrontando un livello significativo di cambiamento nella sua vita. Potrebbe essere preoccupato di fare nuove amicizie, trovare difficile fare qualcosa di apparentemente semplice, come arredare e decorare la sua nuova stanza in modo che rifletta la sua personalità.
Durante queste transizioni, è importante che i genitori comprendano se un figlio si sente solo. Questo potrebbe significare che sia più introverso o evitante, più “appiccicoso” o persino regredire o comportarsi come un bambino piccolo. Invece di essere infastiditi o frustrati da questo cambiamento di comportamento, è importante che i genitori si rendano conto che esiste una causa di questo cambiamento e si attivino per aiutare il ragazzo.

Si sentono tagliati fuori o vogliono avere più amici
Gli amici sono di fondamentale importanza negli anni delle scuole superiori. Anche il ragazzo più socialmente indipendente desidera essere in relazione con gli altri. Se si sente il proprio figlio desiderare più amici o parlare di come è stato escluso da qualcosa, non bisogna sottovalutarlo. Bensì, chiedere, capire. Gran parte del suo cervello in via di sviluppo e del senso di sé è radicato in forti legami familiari e amicali. Gli adulti devono saper insegnare a interagire e crescere, infondendo fiducia nelle relazioni che un giovane sta cercando di formare al di fuori della famiglia.
Anche il ragazzo apparentemente più socievole che ha infiniti amici può ancora provare un senso di solitudine. Si può essere soli e non sentirsi soli, e si può invece sentirsi soli senza esserlo davvero. Le implicazioni negative della solitudine derivano dalla percezione di sentirsi isolati o ostracizzati e non semplicemente dall’essere soli.
È quindi importante considerare con attenzione anche quei giovani che sembrano avere una vita sociale attiva per assicurarsi che non si sentano soli, nonostante siano circondati da amici.
Sembrano essere in una “dimensione diversa” rispetto ai loro coetanei
Nel corso degli anni della scuola superiore lo sviluppo socio-emotivo dei ragazzi può variare ampiamente. Per molti questo potrebbe significare che non si relazionano più con i loro coetanei come una volta. Come genitori, ad esempio, conoscendo bene il proprio figlio, si sa che intellettualmente magari è più avanti degli altri, ma la sua intelligenza emotiva potrebbe essere in ritardo. Questo potrebbe portare a difficoltà a socializzare con determinati gruppi di amici e alla conseguente solitudine.
Se non trovano compagni con cui entrare in contatto a scuola, si può spingerli a frequentare attività pomeridiane di gruppo, secondo i loro interessi. A volte, metterli in una situazione diversa con giovani al di fuori della loro situazione scolastica può rafforzarli e incoraggiarli a stabilire nuove relazioni.

Potrebbero essere vittime di bullismo
È difficile immaginare per quale motivo qualcuno possa essere cattivo con un figlio, ma questo succede più spesso di quanto ci si renda conto. In uno studio sul cyberbullismo i ricercatori hanno scoperto che l’80% degli adolescenti è stato vittima di bullismo in qualche forma, a scuola o online. Lo studio ha rilevato che il bullismo ha avuto un effetto negativo su molte aree della loro vita, dal sentirsi male con sé stessi, al bullismo che colpisce le loro amicizie e persino la loro salute fisica e i compiti scolastici.
Se si nota la tendenza verso l’isolamento nella vita di un figlio, questo potrebbe derivare dal bullismo a scuola o online, e occorre parlarne. Potrebbe inizialmente non voler aprirsi perché potrebbe sentirsi imbarazzato o vergognarsi. Potrebbe anche sentirsi colpevole o addirittura preoccupato che un genitore si immischi e peggiori la situazione. La cosa migliore che si può fare è far sentire un ragazzo ascoltato e al sicuro e fargli sapere che si risolverà insieme il problema.
Mostrano segni di tristezza o disconnessione sociale
È importante cercare segni di tristezza o di disconnessione sociale. Piuttosto che non avere amici, potrebbero non voler più stare con i loro amici o fare le cose che prima piacevano.
Se questo è il caso, potrebbe essere un segno di depressione o ansia che richiede un’ulteriore valutazione. Come genitori si è la risorsa più importante, ma a volte è bene rivolgersi a un esperto di salute mentale.
Essere nel mezzo dell’adolescenza, come studenti delle superiori è difficile in questo momento, ma insegnanti, educatori e genitori possono fare del loro meglio per identificare i segnali della solitudine. Solo dimostrando concretamente che si tiene a loro e che si vuole entrare in contatto, li si porta a rendersi conto che non sono così soli come pensano.

Sono allora diversi i ragazzi che precipitano in questa sorta di “apatia” generalizzata. Come uscirne? Come scrive D’Avenia nel testo sopracitato, la risposta è già nelle parole del ragazzo: sa che per la prima volta il suo dolore non si proietta fuori ma diventa convers(az)ione interiore, origine dei cambiamenti reali e duraturi nella nostra vita. Diventare apatici, cioè “senza pathos”, senza passione, parola che in italiano indica sia l’amare sia il patire, significa aver perso ciò per cui vale la pena vivere: l’anima non cresce. Apatico è chi alla domanda per chi o cosa saresti disposto a morire risponde: nulla. Con “morire per” non intendo nulla di retorico, ma il “dare la vita per” che, essendo la vita “tempo incarnato”, significa “dare tempo a”. Non sapere o non potere dare la vita è l’origine dell’apatia di tanti ragazzi (altri reagiscono con la rabbia, polo opposto dell’apatia): il vedersi vivere anziché sentirsi vivi. I pensieri suicidi, tipici della psicologia adolescenziale, scaturiscono proprio dal sentire che la propria vita è superflua, il contrario di ciò che affermava Nietzsche: “Chi trova un perché può affrontare qualsiasi come”.
Ma proprio questo sentimento (auto)distruttivo si impone come sentimento di sé (finalmente si sperimenta la propria precarietà dopo l’ebbrezza inconsapevole dell’onnipotenza infantile), e diventa, in ragazzi non abbandonati a sé stessi, passione (amore e pena) per la vita: se esisto una e una sola volta allora vale la pena diventare ciò che sono, farsi un’anima, un sentimento di sé autentico e gioioso. Ecco il viaggio che da dentro poi porta verso il mondo, un partorirsi che rende capaci di partorire, così come in adolescenza si diventa capaci di generare: per chi o cosa vale la pena che io sia qui? Chi ha bisogno di me? In fin dei conti: chi e cosa io amo? La domanda del ragazzo: “che cosa voglio davvero fare” significa “che cosa voglio davvero fare di me”. L’ambiente culturale in cui siamo immersi, in cui le immagini della povertà del mondo vanno in onda nello stesso minuto in cui vengo invitato a comprare ciò che non mi serve, ci ripete ossessivamente che cosa ci manca: e come può dare la vita chi si convince di non avere niente da dare, ma solo da prendere? Per uscire da questo inganno consumistico occorre un esercizio quotidiano di sguardo: come posso dare oggi la vita, anche solo per qualcosa di piccolissimo?

Quando Cristo dice che gli ultimi saranno i primi non propone, come sostiene Nietzsche, la morale degli schiavi, la rinuncia alla vita qui e ora in attesa di quella dopo, ma descrive proprio la paradossale struttura della vita qui e ora: solo chi si mette al servizio del bisogno di chi gli sta accanto (fosse anche annaffiare una pianta) libera il super potere bloccato dall’ego, creare nuova vita.
Chi dà la vita la trova, chi la tiene per sé la perde. Paradosso che per Dostoevskij, nei taccuini dei Demoni, diventa consapevolezza che la via dei cambiamenti sociali è “essere tutti Cristi”: “Se immaginassimo di essere tutti Cristi potrebbe forse esserci la povertà? Nel cristianesimo perfino la mancanza di cibo e di combustibili porterebbe alla salvezza (uno può non lasciar morire un bambino e morire lui stesso per il suo fratello)… Ecco perché, allora, chi non se frega niente degli altri, non se ne frega niente dell’Altro, che è fondamento dell’alterità in sé! Come non citare allora qui Emmanuel Lévinas, secondo cui ciò che caratterizza l’uomo è la sua “inevitabile possibilità” di rapportarsi all’Altro, che non può essere ricondotto all’io, perché resta sempre esteriore alla coscienza, situato al di là di essa. E l’epifania, e dunque la manifestazione dell’Altro, avviene nel dialogo, nel “faccia a faccia! Solo la presenza dell’Altro mi si rivela come traccia dell’Eterno. Di fronte al volto, si apre un varco ad una ricerca interiore, ad una contemplazione di fronte qualcosa che resta per me misterioso, impenetrabile.
Andare verso l’Altro, sentendolo come “altro da sé “
In questo senso l’altro è mistero, è traccia dell’Infinito che si rende presente nel volto.
L’impossibilità di penetrare nell’animo dell’altro, di cogliere fino in fondo l’espressività di uno sguardo, fanno risorgere il desiderio metafisico. Un desiderio che è animato da una tensione verso una dimensione che oltrepassa la capacità umana di farne esperienza.
La coscienza che a suscitare il desiderio metafisico sia l’irriducibile alterità dell’altro, porta ad una percezione profonda del valore di questa esistenza.
All’origine di ogni riflessione, vi sono i rapporti tra esseri umani; sono un momento essenziale del sorgere di quel desiderio ingenerato dall’assoluta alterità dell’altro, dall’impossibilità di comprenderlo.
Oltre lo sguardo dell’uomo che mi è di fronte, intravedo una traccia della presenza dell’Eterno nel mondo.

Lévinas ritiene che l’uomo di oggi ha bisogno di ritrovarsi, di sapere chi è.
Una delle cause della disperazione in cui è caduta l’umanità, è la mancanza di senso, per cui deve ritrovare il coraggio di mettersi in esodo verso nuovi sentieri, che hanno come punto di riferimento la scoperta del volto dell’altro.
Al mito di Ulisse che ritorna ad Itaca, Lévinas vorrebbe contrapporre la storia di Abramo, che lascia per sempre la sua patria per una terra sconosciuta.
Ulisse è il simbolo dell’uomo che ricerca sé stesso, che ha dei progetti ben delimitati e chiari, che pone la sua fiducia solo nelle sue forze. Abramo, invece, è il simbolo dell’uomo che esce da sé, che si fida dell’Altro, che interpreta la vita come un continuo “esodo”, nell’ottica della responsabilità.
Pur tra tante difficoltà e rischi, Ulisse sa che alla fine c’è una patria, Itaca, che lo accoglie. L’avventura di Abramo, invece, è molto più dura, piena di incertezze. Abramo non sa dove andare, conosce solo quello che lascia. Il suo futuro non è a casa, ma altrove.
Per Lévinas, Ulisse ed Abramo sono i simboli delle due culture che stanno alla base della storia occidentale. E il fallimento e la crisi d’Europa, secondo Lévinas sono dovute essenzialmente al sopravvento della figura di Ulisse su quella di Abramo, che rappresenta, invece, il simbolo di un’autentica svolta verso una nuova antropologia.
Il prendersi cura dell’altro diventa un’alternativa radicale, che può far riscoprire la ricchezza, la preziosità di ognuno, l’urgenza del rispetto e della valorizzazione dell’altro e la riscoperta di nuovi valori e di nuovi significati dell’esistenza.
L’incontro con l’Altro
Il prevalere del pensiero dell’essere, nella cultura greco-classica, ha portato a un’esaltazione della ragione e a un soggettivismo esasperato. Da Platone ad Hegel, in tutte le culture occidentali si è sviluppata quella filosofia dell’identico, che incentrata sul principio di identità, pensa l’altro sempre a partire da sé, considerandolo come un prolungamento dell’io, annullandolo nella sua differenza. L’io fa sì che tutto esiste per lui, in direzione di lui. In questo modo, l’io perde sé stesso, infatti, non riconoscendo la diversità dell’altro, non comprende neanche sé stesso. Da questo pensiero, deriva un atteggiamento di possesso e di dominio, che è alla radice delle forme di ingiustizia che hanno contrassegnato la nostra civiltà. All’umanesimo dell’essere, Lévinas invece contrappone l’umanesimo “dell’altro uomo”. L’uomo nuovo rinascerà dall’incontro con il volto dell’Altro.
Il confronto con il volto, costringe l’uomo a ripensare i fondamenti della sua cultura. Bisogna passare, dal principio di identità al principio di alterità, dal primato dell’io al primato dell’altro.

Posso comprendere me stesso solo se comprendo l’estraneità dell’altro. Comprendo chi sono, quando l’altro instaura una relazione con me. Allora scopro che il fondamento della mia soggettività è eticità. In quest’ottica, il rapporto etico diventa il fondamento di ogni conoscenza. L’uomo vince il suo egoismo, nel momento stesso in cui va verso l’altro. L’etica nasce come scoperta dell’alterità. La dimensione etica dell’esistenza prende avvio dalla rinuncia all’assolutezza dell’io e dalla risposta a un appello che viene dall’altro.
La centralità dell’altro impone una relazione di responsabilità. Il rapporto con l’altro diventa vero non quando si cerca di conoscerlo, ma quando si vive la responsabilità verso di lui. La vera responsabilità lascia intatta la diversità e conduce a un’adesione all’altro nella sua alterità.
Immaginate allora, continua D’Avenia, che tutti siano Cristi, sarebbero mai possibili tutti gli scombussolamenti odierni, i disagi, la povertà? Chi non capisce questo non capisce niente del cristianesimo e non è cristiano”. Pier Paolo Pasolini definiva dostoevskiano il suo romanzo Ragazzi di vita (lo completava proprio 70 anni fa), che infatti inizia quasi con la stessa frase di Delitto e Castigo; anche lui era ossessionato dalla ricerca di ciò che salva l’uomo dalla violenza sull’altro uomo e sulle cose. E lo fa raccontando la vita amorale dei ragazzi delle borgate romane nel dopo guerra, che riassumeva con un episodio che gli era capitato: «Un ragazzo a cui osservavo che non era educato sputare per terra in una pizzeria, alzando le spalle, con la sua faccia bionda di bebè Caino, mi fece: “Io fo’ la vita mia: dell’altri nun me frega niente”» (Il gergo a Roma).

Ma proprio nella scena chiave del primo capitolo del romanzo alcuni di questi ragazzi, privi di qualsiasi senso dell’altro, in barca sul Tevere vedono una rondine che, per bere, sfiorando la superficie, finisce in acqua e non riesce più a spiccare il volo. Uno di loro, il Riccetto, pur rischiando la vita per la corrente, si butta in acqua per salvarla. Quando i compagni lo raggiungono: «Il Riccetto li aspettava seduto sull’erba sporca della riva, con la rondine tra le mani. “E che l’hai sarvata a ffa – gli disse Marcello – era così bello vederla che se moriva”. Il Riccetto non gli rispose subito, “È tutta fraccica – disse dopo un po’ – aspettamo che s’asciughi”. Ci volle poco perché s’asciugasse: dopo cinque minuti rivolava tra le compagne sopra il Tevere, e il Riccetto ormai non la distingueva più dalle altre». In queste due reazioni al bisogno altrui c’è l’arco intero delle rivoluzioni mancate o possibili: chi preferisce guardare l’altro morire e chi si impegna a farlo vivere. Marcello trova “bello” il “veder morire” la rondine (“odia il prossimo tuo come te stesso”), invece il Riccetto trova in sé un po’ di amore per il mondo (“ama il prossimo tuo come te stesso”), un amore che alla fine del romanzo perderà, non soccorrendo un amico che sta annegando.
Lo scrittore lottava nei suoi scritti contro lo sguardo consumistico ed egoistico sul mondo, per recuperarne uno creaturale e sacro: l’io e la realtà non sono prodotti di consumo, ma l’indisponibile e irripetibile miracolo della vita. Per Pasolini, che fu professore, il fine della scuola, e dell’educazione in generale, era infatti aiutare un ragazzo a raggiungere la “passione autosufficiente”, cosa che accade quando “le cose eterne non sono quelle imparate a memoria, ma quelle che più somigliano alle vocazioni che sono in lui (per esempio, quelle che gli si presentano mentre gioca): la passione a creare, la curiosità, l’impulso a impadronirsi”. (Scuola senza feticci). Questa passione autosufficiente, cioè che si alimenta di continuo nell’incontro più o meno prevedibile e fecondo con il mondo, è il frutto delle proprie vocazioni (chiamate a salvare anziché guardar morire, a generare anziché de-generare), è ciò che auguro al ragazzo della lettera, così conclude D’Avenia, perché ogni cosa salvata è rivoluzione: “Solo l’amare, solo il conoscere/ conta, non l’aver amato,/ non l’aver conosciuto. Dà angoscia/ il vivere di un consumato/ amore. L’anima non cresce più”, come scrive Pasolini nel Pianto della scavatrice. L’anima, cioè il sentimento gioioso di sé, cresce solo al presente, conoscendo e amando, cioè dando la vita.
Raffaele Vertucci, filosofo e docente
Bibliografia
- E. Lévinas, Totalità e Infinito. Saggio sull’esteriorità, Jaka Book, Milano 1996
- E. Lévinas, Il Tempo e l’Altro, a cura di F.P. Ciglia, Il Melangolo,1997
- E. Lévinas, Etica e Infinito, Città Nuova, Roma 1984
- E. Lévinas, Difficile libertà. Saggi sul giudaismo, La Scuola, Brescia 1986
- E. Lévinas, La traccia dell’Altro, Pironti, Napoli 1979
- E. Lévinas, Il Pensiero dell’altro, Lavoro, Roma 1999
Immagine di copertina
Solitudine (Keenan Constance – Pexels)
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