DEL GUSTO
“Tra” intelletto e sensazione
PROLOGO
Secondo la scrittrice Amelie Nothomb piacere e intelligenza non sono affatto in antitesi. Anche se da troppo tempo esiste un’immensa setta di imbecilli che vorrebbero opporre sensualità a intelligenza. Ma si tratta di un circolo vizioso, rileva l’intellettuale belga: ci si priva della voluttà per esaltare le proprie capacità intellettuali, ottenendo come unico risultato quello di esserne impoveriti.
Diciamo che, dal punto di vista scientifico, il gusto potrebbe essere definito come l’insieme dei segnali sensoriali prodotti dalla percezione gustativa, da quella olfattiva e da quella tattile, che si attivano, in primis, durante la masticazione. Spesso, però, il “gusto” viene confuso con il “sapore” – che riguarda invece la sensazione che proviene dalle cellule gustative presenti nella bocca e vengono propriamente distinte in quattro tipologie elementari: salato, acido, dolce e amaro.
Un grande intellettuale francese, Jean-Baptiste Du Bos (vissuto tra il Sei e il Settecento, nonché autore di Riflessioni critiche sulla poesia e la pittura) sosteneva che, se il piacere legato al cibo può essere provato da tutti, allora quella resa possibile da quest’ultimo sarà una vera e propria esperienza di relazione.
Sempre per Du Bos, peraltro, solo il gusto sarebbe in grado di orientare l’uomo in una valutazione estetica finalizzata al riconoscimento del bello e del buono.
Come se, solo un tale percorso potesse davvero condurci ad esperire l’autenticità dell’essere; proprio in quanto scevro da conoscenze pregresse.
Kant, al contrario, riteneva che natura e cultura appartenessero a due sfere radicalmente differenti; perciò rivendicava una netta divisione tra godimento sensibile e piacere estetico. Anche solo per il fatto che il piacere fisico è individuale, mentre quello estetico rimanderebbe ad un sentimento umano comune e universale; fondato su una specifica facoltà definita appunto “capacità di giudizio” – di fatto estranea tanto alla sensibilità quanto all’intelletto.
Secondo Du Bos, comunque, il giudizio estetico o di gusto dipende da una sorta di sesto senso di cui saremmo dotati, pur non riuscendo a scorgerne gli organi; esso riguarderebbe cioè quella parte di noi che giudica l’impressione ricevuta, senza consultare la squadra e il compasso. Un giudizio la cui immediatezza sembra non renderlo confondibile con un dire astrattamente intellettualistico, per quanto capace di assicurare l’infallibilità del giudizio medesimo (del giudizio di gusto, appunto).
Egli sottolinea anche l’affinità tra il giudizio sull’opera d’arte e quello fondato sul palato, che ha essenzialmente a che fare con il cibo.
Se anche assaggiassimo il ragout senza conoscere le regole necessarie per prepararlo, sapremmo senz’altro dire se è buono. Chi potrebbe negarlo? Ecco, Du Bos ritiene che lo stesso avvenga per le opere di spirito e per i dipinti che sembrano fatti per commuoverci. Sì, proprio come avviene con il ragout.
Infatti, anche senza sapere se una determinata opera si sia attenuta o meno a determinate regole, sapremmo dire (grazie a un sentimento che si esprime propriamente nel gusto) se è bella o meno. Per Du Bos, insomma – a differenza di Kant –, giudizio estetico e giudizio di gusto (di fatto connesso al gusto alimentare) hanno entrambi una valenza conoscitiva, nonostante la loro comune immediatezza.
Anche se, sempre secondo il nostro, mentre la ragione è sempre soggetta all’errore, il giudizio di gusto non sbaglia mai!
Nell’Etica a Nicomaco, Aristotele squalificava nel modo più esplicito i piaceri legati al gusto. Convinto, com’era, del fatto che la temperanza e l’intemperanza riguardassero piaceri che, proprio in quanto provati anche da altri animali, non potranno che risultare servili e bestiali. Insomma, un giudizio non proprio lusinghiero nei confronti del tatto e del gusto!
Eppure, quello del gusto è il più comune tra i sensi; essendo connesso anche all’intemperanza, pur ritenuta il più biasimevole dei vizi – che non ci riguarderebbe in quanto esseri umani, ma solo in quanto animali. Godere di simili sensazioni, dunque, sempre secondo Aristotele, nonché amarle al di sopra di tutto, è cosa davvero biasimevole.
Gli unici piaceri da lui ammessi erano infatti quelli che nei ginnasi venivano procurati dal massaggio e dal conseguente riscaldamento, perché il piacere tattile dell’intemperante non riguarda mai l’intero corpo, ma sempre e solamente alcune parti di esso.
Anche Hegel, dal canto suo, dopo essersi chiesto se tutti e cinque i sensi abbiano, secondo il loro concetto, la capacità di farsi organi per l’apprensione di opere d’arte, risponde che da tale ambito dell’esperienza vanno esclusi il tatto, il gusto e l’odorato.
Secondo lui, cioè, l’andar palpando le morbide membra marmoree delle idee, non appartiene né alla contemplazione né al godimento estetico. E per un motivo fondamentale: perché l’opera d’arte non è mai semplicemente sensibile, ma esprime, più in generale, lo “spirito”, pur manifestandolo in forma sempre e comunque sensibile.
D’altronde, non si può degustare un’opera d’arte come tale, perché il gusto non lascia mai l’oggetto libero di essere quel che è, ma vi si rapporta in modo inevitabilmente pratico, ossia dissolvendolo e consumandolo.
Questo pensa il filosofo di Stoccarda.
Certo, un’educazione e un affinamento del gusto, sempre secondo Hegel, sono comunque possibili, e si possono senz’altro richiedere in rapporto agli alimenti, alla loro preparazione e alla qualità chimica degli oggetti; ma solo l’oggetto dell’arte sembra lasciarsi intuire nella sua oggettività per sé autonoma – che è sì per il soggetto, ma solo in modo teoretico, intellettuale e mai pratico –, ossia senza riferimento alcuno agli appetiti e alla volontà.
Insomma, anche il padre dell’idealismo conferma il secolare pregiudizio relativo al primato assoluto della vista, considerato quale unico senso in grado di restituire la chiarezza e la distinzione necessarie a qualsivoglia forma di conoscenza. Ed è quanto mai chiaro, a questo proposito; non a caso afferma, senza alcuna titubanza, che solo la vista ha con gli oggetti un rapporto realmente teoretico per mezzo della luce – una materia per così dire immateriale, che da parte sua è costretta a lasciare gli oggetti liberi di sussistere per sé, facendoli sì vedere ed apparire, ma senza consumarli praticamente, come fanno invece l’aria e il fuoco, in modo di volta in volta inavvertibile o palese.
Insomma, alla vista priva di desiderio si offre tutto ciò che esiste materialmente nello spazio in esteriorità reciproca, ma che, pur rimanendo intatto nella sua integrità, si palesa solo come forma e colore. Perciò si offre alla vista e all’udito, da Hegel ricondotti, insieme al suono da quest’ultimo percepito, a un’analoga nobiltà di natura.
Mentre Isidoro di Siviglia, già nel Dodicesimo secolo, riteneva che il sapiente venisse chiamato così proprio a partire dal sapore (sapiens dictus a sapore) – infatti, come il gusto è vocato alla distinzione del sapore dei cibi, così il sapiente è dotato della capacità di conoscere le cose e le loro cause. In quanto, tutto ciò ch’egli conosce, lo distingue secondo un criterio di verità.
Un’analoga considerazione sarebbe stata svolta, alla fine del Diciannovesimo secolo, anche da Nietzsche, secondo cui, anche etimologicamente, la parola “saggio” rinvierebbe alla famiglia di ‘sapio’ – ossia, gustare.
Sapiens, dunque, sarebbe il gustante. Saphes: percepibile al gusto. Perciò Nietzsche ritiene che si parli di gusto anche nel contesto dell’esperienza estetica; anzi, per i Greci, sempre secondo il filosofo dell’eterno ritorno, l’immagine del gusto era forse ancora più estesa.
E poi, è proprio nel dizionario etimologico della lingua italiana che si precisa come il talento mentale vada considerato alla stregua di quello relativo al gusto; il quale, quando è squisito, diventa capace di cogliere finanche le più piccole differenze tra i suoi oggetti. Sia il talento mentale che il senso del gusto, insomma, sarebbero ugualmente acuti tanto nell’apprendere quanto nel sottoporre a scrutinio i propri oggetti.
Lo sapeva bene anche Montesquieu, secondo cui quella relativa al “sapore” è davvero un’altra forma di sapere; sì, un sapere che forse non potrà mai rendere ragione delle conoscenze da esso medesimo rese possibili, ma sicuramente potrà goderne.
Insomma, cosa sa, da ultimo, questo sapere del sapore? Sa distinguere, anzitutto. Ad esempio, sa distinguere i sapori, anche quelli più simili.
E non è proprio questo che fa il ‘sapere’ nel senso più classico del termine? Non è proprio questo che accade, quando vengono distinti gli objecta del conoscere nel modo più “chiaro e distinto” possibile (per dirla con Descartes)?
Il fatto è che la frattura confermata a vari livelli e in vari modi dalla cultura occidentale sembra destinata a ribadire l’incompossibilità di questi due modi di rapportarsi al mondo. Perciò, anche nei casi migliori, si è assolutamente convinti del fatto che solo la scienza abbia accesso alla verità, per quanto non ne possa godere. Mentre il gusto godrebbe sì della bellezza, ma non saprebbe renderne in alcun modo ragione.
Ma, stanno proprio così le cose?
È vero, sembra proprio si possa godere solo di ciò di cui non si riesce a rendere ragione, e a rendere ragione solo delle cose di cui non sia dato godere.
Eppure, non è così. Non è forse vero, infatti, che si gode anche nel sapere, così come si conosce nel godere?
Kant, ad esempio, nella Critica del Giudizio afferma sì che il gusto estetico (quello che si manifesta nel giudizio riflettente) non ci fa conoscere nulla, ma nello stesso tempo dice che, sebbene non contribuiscano per nulla alla conoscenza delle cose, questi giudizi appartengono nondimeno alla facoltà di conoscere e rivelano un’immediata relazione di questa col sentimento del piacere… e che proprio in questa relazione andrebbe riconosciuto il cuore enigmatico della facoltà del giudizio.
Per Étienne Bonnot de Condillac, invece, non vi sarebbero percezioni di cui l’anima non sia a conoscenza. Per questo la percezione e la coscienza andrebbero a configurarsi come un’unica operazione, solo… detta con nomi diversi.
E aggiunge, sempre nel medesimo “Saggio sull’origine delle conoscenze umane”, che le cose attirano la nostra attenzione dal lato per cui stabiliscono un più stretto rapporto col nostro temperamento, le nostre passioni e il nostro stato… e sono lodevoli solo in quanto hanno attirato la nostra attenzione provocando una certa nostra soddisfazione.
DEL GUSTO E DELLE SUE CERTEZZE
Per parafrasare Hume, riteniamo comunque necessario, anche in rapporto al cibo, stabilire quale rapporto vi sia tra l’omogeneità dei modi con cui facciamo esperienza sensibile del mondo e la differenza delle oggettualità specifiche a cui questi modi di volta in volta si riferiscono.
Per dirla in maniera ancora più chiara, la nostra analisi dovrà muovere da una doppia consapevolezza: ché se, da un lato, è vero che tutti proviamo piacere o dispiacere, e che a tutti certe cose sembrano belle e buone, e altre invece brutte e cattive – se è vero, cioè, che, a tutti, le cose del mondo, ma anche le situazioni connesse alle medesime, possono generare tanto un senso di repulsione quanto uno di attrazione (nei confronti delle cose del mondo, infatti, nessuno di noi potrà mai dirsi neutrale, ché ad esse ci lega un rapporto mai statico e tanto meno puramente contemplativo – come potrebbe anche sembrare là dove ci si limitasse a tematizzare la differenza, in astratto, tra soggetto e oggetto –, perché ogni objectum, proprio in quanto gettato di contro a noi, può venire accolto con piacere o schivato in quanto assai poco gradevole) –, dall’altro lato va anche riconosciuto che quel che provoca piacere all’uno potrà, del tutto ingiustificatamente, essere percepito con dispiacere da un altro.
Si tratta di una situazione quanto mai problematica. Che, guarda caso, mentre accettiamo senza problemi in rapporto al cibo, difficilmente riusciamo a tollerare in rapporto alle opere d’arte e alla bellezza – che, non a caso, i filosofi avrebbero incessantemente cercato di sottrarre all’arbitrio che tanto naturalmente ci verrebbe invece spontaneo accettare in rapporto al cibo.
Non è un caso che, solo in rapporto alla bellezza artistica, Hume si chiedesse se vi fossero delle costanti, dei ‘principi generali’ anche in materia di gusto (così come accade nell’ambito della conoscenza), che potessero aiutarci a individuare il metodo più adeguato per contemplare un’opera d’arte; un metodo che quei principi ci consentisse di ricavare al fine di formulare, in conformità ai medesimi, dei giudizi finalmente oggettivi.
Mentre, in rapporto al cibo, le nostre valutazioni, il nostro eventuale apprezzamento, sembrano davvero e irrimediabilmente ingiustificati – forse anche perché mai, come in rapporto al gusto (l’avrebbe ribadito anche Kant), ci si trova tanto spesso in disaccordo, e si cerca, anche se con pochissime speranze, di convincere l’altro di qualcosa che sembra non aver davvero nulla a che fare con la facoltà intellettiva – quella cioè predisposta alla conoscenza del mondo.
Ci si trova così di fronte a un compito probabilmente inadempibile; rispetto al quale, cioè, ogni speranza di convincere l’altro (che magari la pensa diversamente da noi) sembra irrimediabilmente destinata a fallire. Insomma, sembra un’impresa davvero disperata quella che ci spinge a guadagnare un accordo universale intorno al gusto.
L’unica cosa che sembra realmente possibile fare – la stessa già tentata da Hume – è dunque cercare di capire come si siano formati i gusti dominanti. Quelli che caratterizzato le diverse epoche nella storia dell’umanità. Quali siano, cioè, i modelli che in determinati periodi storici sarebbero riusciti a disegnare una norma riconosciuta come tale dalla maggior parte delle persone.
Ferma restando l’irriducibile soggettività del modo in cui ognuno reagisce all’incontro con il mondo. E dunque anche con il cibo.
Una cosa è certa: solo in rapporto al “gusto”, il mondo ci attrae o ci respinge. Facendoci prendere una certa direzione oppure un’altra, magari completamente diversa. Forse è solo grazie al gusto che ci interessiamo di questo o quell’aspetto del mondo medesimo.
E che magari ci sforziamo di conoscere nel miglior modo possibile quello che sembra averci in qualche modo (per un qualche motivo, spesso del tutto sconosciuto) attratto.
Il problema è che “definire la ragione per cui qualcosa ci attrae” (e dunque risulta gradevole) è sostanzialmente impossibile.
E per un motivo ben preciso: perché le ragioni di un’eventuale sensazione di piacere, proprio in quanto “ragioni”, dovrebbero valere universalmente per tutti gli esseri dotati di ragione – mentre, lo sappiamo bene che il gusto ha ogni volta a che fare con un’esperienza di fatto e sostanzialmente incomunicabile, se non per quel che riguarda l’eventuale descrizione del piacere che determinati oggetti sembrano in grado di procurarci.
In ogni caso, cioè, possiamo solo dire che quella cosa ci piace, ma le ragioni che potremmo anche ritenere in grado di giustificare tale sensazione, non avranno di fatto alcun potere di convinzione. Ossia, non procureranno di certo piacere in chi, rispetto a quelle medesime oggettualità, prima di conoscere le nostre ragioni, abbia provato invece una sensazione di totale sgradevolezza.
Ma lo lasceranno solo, a confrontarsi con una esperienza rispetto a cui qualsivoglia ragione sembrerà toto caelo impotente.
Certo, potremmo rilevare che anche la conoscenza è mossa dal piacere che proviamo verso le cose o gli argomenti che ci interessano (e per questo vogliamo conoscere), ma in nessun caso essa potrà rendere ragione di quel medesimo piacere; ossia del piacere che l’avrà, magari anche casualmente, messa in moto.
Quel piacere sembra infatti condannato a rimanere l’unica esperienza rispetto a cui qualsivoglia ragione sembra destinata a lasciarci del tutto insoddisfatti; mai potendo, la nostra inestinguibile sete di conoscenza (quella stessa che non si ferma di fronte a nulla, e che nulla vorrebbe lasciare di intentato), afferrare quel che, solo, può averla fatta essere quel che è. Non potendo la medesima mai comprendere il proprio inizio. Per quanto si tratti della cosa che, più di ogni altra, forse, vorremmo realmente afferrare – perché è la sola che potrebbe forse pacificarci con noi stessi. Anche se… a condizione di spegnere il nostro inconsumabile afflato conoscitivo; perché è proprio il mistero costituito da tale origine (e dalla passione che sembra averla generata) ad alimentare, in quanto sconosciuto e inattingibile, la nostra corsa senza fine. A consentire cioè che sempre “altro” vi sia da conoscere; ma non tanto altre cose o altre oggettualità (comunque “altre” rispetto a quelle in qualche modo già decifrate), quanto piuttosto qualcosa che rimarrà inconoscibile “proprio in quanto mai esperibile come oggetto da conoscere”; perché operante “a monte” di ogni anelito conoscitivo, quale condizione di possibilità del suo stesso svolgimento.
Esso, infatti, potrebbe venire conosciuto solo là dove ce lo rappresentassimo di contro a noi – peccato che il medesimo sia destinato a trovarsi alle nostre spalle.
Ma è ancora un’altra, forse, la questione con cui dovremmo a questo punto fare davvero i conti: chiedendoci quale possa mai essere la natura di tale sensazione, e della reazione (di piacere o dispiacere) che sempre viene provocata dalle cose del mondo.
Certo, noi sentiamo il mondo per il tramite della vista, per il tramite dell’udito, ma anche dell’olfatto, del tatto e delle papille gustative.
Eppure, la parola ‘gusto’, a volerla dire tutta, indica un uso in qualche modo improprio (in quanto ampliato) di un concetto che, a dire il vero, dovremmo limitarci ad utilizzare in relazione al cibo e alle bevande di cui ci nutriamo.
Non è certo un caso che “assaggiare del cibo e del vino” si dica de-gustare. Un po’ meno comune è invece l’utilizzo di questa espressione in rapporto alle cosiddette “esperienze estetiche” – quelle che di norma riteniamo provocate da un incontro con qualcosa di “visibile” o “udibile”.
Difficile, infatti, che l’espressione “degustare” venga utilizzata in rapporto a un quadro di Matisse o a una sinfonia di Mozart.
Eppure, è ormai invalso l’uso – riscontrabile già nei trattati di estetica del Settecento – del termine “gusto”, anche in rapporto alle attitudini estetiche proprie di un’epoca, di una civiltà o di una persona in particolare.
Insomma, una cosa, almeno, è sicuramente interessante: il fatto che, per riferirsi al bello, tanto in pittura quanto in poesia, si finisca per evocare, in ogni caso, il concetto di “gusto” (anche se in riferimento all’“estetico”).
E neppure può essere un caso il fatto che l’utilizzo di questo termine cominci a diffondersi in un clima già fondamentalmente empiristico. Là dove si comincia a pensare alla dimensione estetica (facendolo con sempre maggior convinzione) come ad una dimensione fondata in primis sulla percezione “sensibile” del mondo. Una dimensione fondata, cioè, sul modo in cui funzionano i nostri cosiddetti cinque sensi. Sul modo in cui i cinque sensi, e solo loro, sembrano metterci in rapporto con la realtà.
In riferimento, sempre e comunque, alla gradevolezza o meno che l’incontro con il mondo avrà determinato, anzitutto in rapporto ai sensi – quelli in relazione a cui, solamente, una determinata realtà può esserci data.
Certo, se offerta alla vista (come visibile, per l’appunto) si tratterà di arte visiva (pittura, scultura, ma anche poesia); se offerta all’udito, si parlerà di musica o di poesia – sì, perché la poesia viene percepita, nello stesso tempo, dalla vista e dall’udito… se non altro là dove venga letta a voce alta.
Ma – cosa non meno interessante – nessun altro senso sembra chiamato in causa da quegli oggetti che, in quanto artistici, riteniamo possano darcisi solo per il tramite della vista o dell’udito.
Mai, infatti, ci si rapporta all’opera “in quanto fatto artistico” per il tramite del tatto, e neppure per il tramite dell’olfatto; e ancor meno attraverso la bocca.
Eppure, anche là dove ci si ritrovi a fare i conti con una delle classiche esperienze estetiche (di quelle che riteniamo praticabili solo con il supporto della vista o dell’udito) accade qualcosa di simile a quanto accade là dove ci si trovi a degustare del cibo.
Altrimenti non si spiegherebbe l’uso di una medesima espressione. Quella che, anche di un quadro, ci fa dire – proprio come di un cibo – che “ci piace o non ci piace”.
Il fatto è che anche l’esperienza estetica (come ci si sarebbe resi conto soprattutto nel diciottesimo secolo) sembra connotata in modo eminentemente ‘soggettivo’. Insomma, anche in questo caso si tratta di provare o meno una sensazione di piacere; come quando si mangia o si beve. Anche di fronte all’opera d’arte, cioè, proveremmo anzitutto ‘piacere’ o ‘dispiacere’.
Certo, poi ci riteniamo autorizzati a cercare di capire quali siano le tecniche utilizzate per la sua produzione e quale il contenuto o il messaggio dell’opera. E di capire come mai in quel periodo si dipingesse o si componesse musica in quel modo, usando quei determinati criteri costruttivi.
Insomma, ci sentiamo autorizzati a fare, di quel piacere, qualcosa di più pregnante o (come si suol dire) di ‘culturalmente’ più significativo per il nostro ‘spirito’. Cioè, per la nostra anima. Per questo si è in vari modi e per molto tempo cercato di sottrarre l’esperienza estetica all’arbitrarietà e alla soggettività che accettiamo senza colpo ferire, invece, quando ci si riferisce al cibo e al vino.
Perché nessuno, almeno nel campo dell’estetica, accetterebbe che la grandezza di Michelangelo dipendesse esclusivamente dal piacere che può essere generato dalla vista delle ‘cosiddette’ sue opere.
Anzi, tutti ritengono di poter affermare che Michelangelo “è” un grande artista – diciamo così –, indipendentemente o a prescindere dal piacere che le sue opere possono generare quando ci si trovi ad ammirarle de visu.
Certo, oggi anche il mondo del cibo sta assumendo connotati simili a quelli che siamo soliti riconoscere al cosiddetto mondo dell’arte. Anche di un certo chef si dice, infatti, e si accetta che possa venire considerato un “grande” chef – quasi a prescindere dal fatto che a me o a te le sue pietanze piacciano più di quelle che ci prepariamo a casa, magari con particolare e appassionata dedizione.
Ma rimane pur sempre vero che neppure ai cibi che vengono preparati dai grandi chef si riconosce una dignità equivalente a quella posseduta dalle sinfonie di Beethoven o dalle opere di Caravaggio.
E una ragione ci dovrà pur essere.
Torniamo, dunque, a quanto si rilevava poco sopra. Al fatto, cioè, che l’elemento soggettivo, pur presente nell’esperienza estetica, sia sempre stato vissuto come ‘inciampo’ rispetto a quella che viene solitamente considerata la natura propria dell’oggetto artistico.
Per questo si è in molti modi cercato di assoggettare la produzione di quest’ultimo a regole universali e valide per tutti – sia pur con molta fatica, e a prezzo di non poche contraddizioni. Forse perché si è sempre creduto che in determinate opere fosse custodito un “significato” sempre anche conoscitivo; che avrebbe potuto aiutarci a capire meglio il mondo, e che ci avrebbe fatto capire meglio finanche la storia degli esseri umani.
Che anche il cibo abbia queste proprietà, invece, si è cominciato a pensarlo solo di recente; ma soprattutto ci si è sentiti legittimati, per ben che andasse, a ritenere che nei cibi e nella loro preparazione si dicesse molto del modo in cui vivevano gli umani in questa o quella epoca.
Ma assai raramente si è ritenuto che il cibo potesse dirci qualcosa di rilevante in rapporto alla natura dell’uomo in quanto tale.
Se “crudo” (avrebbe detto Levi-Strauss), sembra destinato a testimoniare di un’umanità ancora non civilizzata, mentre, in quanto “cotto”, saprebbe farsi espressione di un ben preciso libello di civilizzazione.
I cibi cosiddetti mediterranei ci parlano di un’umanità abituata ad un certo clima e a determinate colture; ma non sembrano in grado di esibire differenze essenziali atte a caratterizzare l’essere umano in quanto tale.
Si ritiene, cioè, che, pur essendo vero che in certe zone della terra si mangia in un certo modo, nel mangiare “in quanto tale” venga di fatto a confluire un insieme di caratteristiche che riguarderebbero anzitutto la nostra parte propriamente animale. E non quella destinata a farci – per dirla con Aristotele – animali dotati di logos.
E infatti, solo in quanto animali razionali, per dirla in forma più semplice, saremmo in grado di svolgere attività che non riguardano il semplice sostentamento; attività che possono anche sembrare inutili (ammesso che utile sia anzitutto quel che serve a sostentarci), ma che pur tuttavia (come si è soliti dire) sembrano le sole in grado di nutrire l’anima. O meglio, di soddisfare quella sete di conoscenza che ci caratterizza proprio in quanto (animali) dotati di logos.
Eppure, la nostra psiche non è solo raziocinio e contemplazione intellettuale; la nostra psiche (o anima) è “una”; ed è la stessa che risponde ai cibi che ingurgitiamo, mostrandosi di volta in volta attratta o respinta dai medesimi. Ma soprattutto risponde alle istanze del sentire “giudicando” – proprio come fa il logos predisposto a farci conoscere il mondo.
Sì, perché, anche quando mangiamo, giudichiamo. Si ricordi a questo proposito che conoscere (come insegnava Kant) significa anzitutto “giudicare”.
Nessun discorso, infatti, sarebbe possibile se non come “giudizio” intorno al mondo e alla sua forma specifica. Ed ogni giudizio, in quanto tale, de-termina; come ci insegna ancora una volta Kant.
Certo, Kant distingue un “giudizio determinante” da uno “riflettente” – ma consegna l’indeterminatezza caratterizzante il secondo alla semplice ‘sentimentalità’ del bello.
Il fatto è che, però, anche quello riflettente dice qualcosa del mondo, o di quella parte di mondo che, di volta in volta, proprio giudicando, finiamo in ogni caso per de-terminare. Anche là dove ci si limiti a considerarla “bella” o “buona”. Sì da distinguere e definire, comunque, la cosa in questione; definendola quanto meno in rapporto a quel che sarebbe in qualche modo altro da essa e che, in quanto tale, definiremmo brutto e cattivo.
Non a caso, quando vogliamo rendere testimonianza del piacere che qualcosa avrebbe provocato al gusto, (tanto per fare un esempio), diciamo che “è buono”. E, proprio in questo modo, lo definiamo.
Ci troviamo cioè impegnati in un’operazione sorprendentemente analoga a quella che compiano quando misuriamo un terreno – riuscendo magari a definire con la massima precisione la sua estensione.
In verità, anche quando diciamo che qualcosa ci piace, “giudichiamo”; non giudichiamo, e dunque non conosciamo solo quando ci sforziamo di capire quali siano i principi costruttivi di un affresco di Piero della Francesca. Questo, il fatto. Ed anche quando lo giudichiamo bello per il semplice fatto che ci piace. Quando, cioè, lo troviamo gradevole alla vista.
Così come troviamo gradevole il cibo preparato da questo o quello chef.
E lo giudichiamo, per l’appunto, “bello” e “buono”. Buono, anzitutto, perché ci piace; perché risulta gradevole alle papille gustative, così come l’affresco di Piero della Francesca può risultare gradevole alla vista.
D’altronde, anche in relazione all’esperienza che facciamo tramite l’olfatto, il tatto o il gusto, “giudichiamo”. Operando con la medesima parte dell’anima che viene chiamata in causa dalle attività propriamente intellettive (Nous).
Insomma, non v’è cibo che non sia giudicato; anche perché è solo grazie al giudizio che riusciamo a testimoniare il piacere o il dispiacere che il medesimo sarà riuscito a procurarci.
Non v’è, cioè (come, purtroppo, talvolta si è anche creduto), prima il sentire e poi il giudicare; se è vero che provare piacere non significa altro che “giudicare positivamente” quel che ci avrebbe procurato una sensazione tanto intensa.
Il piacere, insomma, non è se non “nel” giudizio che, solo, può spingerci a chiedere un’altra porzione del cibo che ci sarà così tanto piaciuto.
Anche il sorriso che può illuminarci il volto dopo aver degustato una determinata porzione di cibo (che avremo giudicato buona) può insomma venire considerato immediata espressione di un “giudizio” – che, verbalmente, ci decideremo ad esprimere solo dopo aver assaporato il cibo che ci avranno fatto assaggiare.
Il fatto è che la sensazione si manifesta sempre insieme a un giudizio, facendosi da ultimo indistinguibile dal medesimo. Insomma, non v’è sensazione che, in senso proprio, “attenda” di venire giudicata; essendo il sentire, sic et simplicter, ossia, immediatamente, un “giudicare”.
Come a dire che, ogni volta che degustiamo, ascoltiamo o guardiamo… stiamo già giudicando. Altrimenti non si spiegherebbe la nostra sempre possibile voglia di mangiarne ancora, di quel cibo; ciò che non di rado ci trattiene dal restituire il piatto al cameriere. Insomma, nell’ingerire una determinata pietanza, l’anima è già in azione; è cioè sempre la psiche a “sentire”, anzi a sentire giudicando. E a giudicare sentendo.
Ché, non potremmo giudicare se non nell’atto in virtù del quale sentiamo qualcosa; nessun atto senziente essendo neutrale; in quanto sempre accompagnato da gradimento o rifiuto. Sempre… perché sin da subito giudicato. E dunque conosciuto – se non altro in relazione alla sua bontà o alla sua sgradevolezza.
Il fatto è che anche il gradire o il disprezzare sono “giudizi”; e si palesano o come giudizio di assenso o di dissenso.
Allo stesso modo in cui il giudicare, anch’esso sempre connaturato a una sensazione (che ci fa giudicare, oltre che nel disegnarsi di una proposizione conoscitiva e definitoria, anche nella forma di un assenso o un dissenso, un’accettazione o un rifiuto, un gradimento o una disapprovazione), accade ogni volta (anche se spesso solo implicitamente) nel riconoscimento della gradevolezza o meno di quel che ci fossimo riproposti di definire… magari cercando l’essenza o in relazione a determinati suoi attributi.
Insomma, ogni volta sappiamo se qualcosa ci piace o meno; e lo diciamo (esplicitamente o implicitamente a noi stessi). Anzi, ogni volta ce lo diciamo; e dunque possiamo tranquillamente riconoscerlo, che l’anima è sempre operante, anche nella forma del “conoscere” – di un conoscere che, peraltro, potrà sentirsi operante sempre anche nel ri-conoscimento del piacere o del dispiacere provocato da una certa pietanza.
Perciò, mangiando, anche “ragioniamo”.
D’altro canto, anche quando conosciamo qualcosa, esprimendoci intorno alla sua essenza o alle sue caratteristiche quantitative, ci esprimiamo (giudicando) intorno a una qualità. Ci riferiamo cioè a qualcosa che, proprio in quanto determinazione qualitativa, sarà sempre più o meno piacevole.
Non è un caso che, anche dei concetti matematici – lo si dice da tempo –, ci si senta ormai autorizzati a dire che sono “belli”; e che piacciono. Come potrebbero più o meno piacerci determinate dimostrazioni geometriche o determinati calcoli (non a caso da qualche tempo si ama scrivere di “bellezza della matematica”; gli scienziati, in questo senso, non disdegnano più di parlare di eleganza di una dimostrazione, di bellezza di un calcolo, quasi si trattasse di pietanze da degustare o di opere da contemplare).
Insomma, come negare che, se tutto accade nell’anima – o quanto meno in relazione all’anima, anche il gusto avrà a che fare con il medesimo ambito di realtà (e non con un altro, distinto da quello frequentato dalle cosiddette scienze forti)?
Il fatto è che, sempre e comunque, nel darsi come oggetto d’esperienza, tutto quel che si offre in questo modo sarà sempre più o meno gradito, più o meno bello, più o meno buono… in relazione al piacere o al dispiacere comunque connaturati al suo venire percepito dalla nostra anima. Da un’anima (psiche) che, peraltro, avrà sempre affetto per quel che gli sarà toccato di conoscere; in quanto sempre e comunque affetta (in positivo o in negativo) dal “conosciuto”. Perciò la nostra è un’anima che, in ogni caso, ragiona e conosce – che ragiona e conosce, cioè, anche quando mangia.
E che, a rigor di logica, sbaglia solo quando (come spesso ancora si ritiene di poter fare) si propone di passare dall’ambito del gusto a quello del conoscibile, dal piacere alla verità – quasi si trattasse di approdare a un’altra dimensione ontologica.
L’anima erra, cioè, quando ritiene che suo compito sia anzitutto quello di “elevarsi” (come avrebbe voluto Platone) dall’ambito del meramente sensibile e volare verso quello del meramente intelligibile.
Mentre si è nel giusto solo là dove ci si renda conto che, se il mangiare è sempre anche un ragionare, per lo stesso motivo ogni ragionamento, pur anelando a una persuasività universale (ossia, a un vero e proprio consenso universale) – anche solo in quanto fatto di concetti di per se stessi universali –, si scontrerà sempre e comunque con la medesima e irrimediabile gratuità connessa al fatto che, anche quel che saremo riusciti a conoscere, sarà comunque affidato al modo sempre unico e irripetibile con cui il mondo si offre quale oggetto di conoscenza ad ognuno di noi; ossia, alla quantità di piacere o dispiacere che, in relazione ad ogni anima, apparirà dotato di un’intensità assolutamente unica ed irripetibile, anzitutto in quanto affidata all’ingiustificabile e imprevedibile reazione che il palesarsi del mondo (o meglio, il nostro incontro con il mondo) sempre torna a scatenare. In quanto manifesto anzitutto come “qualità” (ogni “che cosa” indica infatti, anzitutto, una qualità) – e, in quanto tale, definibile come bella, buona, gradevole, insopportabile, disgustosa o irresistibile.
Foto di copertina
Michelangelo Merisi, detto Caravaggio, Bacco, 1596-98, olio su tela, 95 x 85 cm (part). Galleria degli Uffizi, Firenze
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Nota
Il testo “DEL GUSTO” di Massimo Donà è tratto da Pantagruel n.1 “La filosofia del cibo e del vino”, rivista curata e diretta da Elisabetta Sgarbi.
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Massimo Donà, filosofo e musicista jazz, è nato a Venezia il 29 ottobre 1957. Si è laureato a Venezia con Emanuele Severino nel 1981. Ora è docente ordinario di Filosofia Teoretica presso la Facoltà di Filosofia dell’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano, dove insegna Ontologia dell’arte e Metafisica. Tra le sue ultime pubblicazioni, ricordiamo Filosofia dell’errore. Le forme dell’inciampo (Bompiani 2012), EROTICAmente. Per una filosofia della sessualità (il prato 2013), Misterio grande. Filosofia di Giacomo Leopardi (Bompiani, 2013), Parole sonanti. Filosofia e forme dell’immaginazione (Morettti & Vitali, 2014), Teomorfica. Sistema di estetica (Bompiani, 2015), Senso e origine della domanda filosofica (Mimesis, 2015), Supremazia del bene. Dalla fiducia alla fede, tra misura e dismisura (Orthotes, 2015) e La filosofia di Miles Davis (Mimesis, 2015), Dire l’anima. Sulla natura della conoscenza (Rosenberg & Sellier,Torino 2016), Tutto per nulla. La filosofia di William Shakespeare (Bompiani, 2016), Pensieri bacchici. Vino tra filosofia, letteratura, arte e politica (Saletta dell’Uva, 2016), In principio. “philosophia sive theologia”: meditazioni teologiche e trinitarie (Mimesis 2017).
Da poco è uscito in Francia: Habiter le seuil. Cinéma et philosophie (Editions Mimésis).
Ha al suo attivo anche sette cd come leader di un proprio gruppo jazz.
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