David Bowie 1947-2016
di Giovanni Di Vincenzo
E così è passato un anno, il primo di chissà quanti altri senza di lui. Dalle stelle alle stalle, in 48 ore: la trepidazione e l’entusiasmo dell’8; e poi, la mattina del 10, la pioggia battente, una telefonata, una voce rotta dal pianto che balbetta un’assurdità, l’auto che sbanda sull’asfalto ormai fradicio della carreggiata, una giornata scolastica catatonica superata col pilota automatico, Wikipedia che con burocratica efficienza aggiorna in tempo reale “is” in “was”. Dal giorno dopo, the next day, lo sforzo di raccapezzarsi, di riannodare l’intricatissima trama di una storia d’amore lunga trent’anni.
D’altronde lui è fatto così: ti spiazza. Sempre. Un uomo irripetibile e smisurato in senso etimologico.
Perché lui non conosce misure, soprattutto le mezze: una stella nera su fondo bianco. Vita e morte; volto e maschera; natura e artificio; l’uno e il molteplice; spirito e materia; dire no e intendere sì. Bowie è complesso: rivela la paradossale reciprocità degli opposti.
Pensate alle circostanze della dipartita. Quand’era vivo, sembrava morto: un imprendibile anacoreta; dopo il fatidico 10 gennaio, non uno dei successivi 355 giorni necessari per sbarazzarci di questo sciagurato 2016 è trascorso senza che un tweet, una ristampa, una mostra, un tributo, una biografia, un convegno, una targa, un altarino, una recensione, un documentario, una registrazione postuma, una saetta presentificassero la traumatica voragine della sua assenza. Lo aveva già bisbigliato con le prove generali di “The Next Day”, che il modo migliore di esserci era sparire. E “Blackstar”, allora, come in gergo oncologico si declina il carcinoma epatico che lo devasta, è la nerissima cronaca che lo affligge personalmente con cui lui plasma e sigilla la propria leggenda e scrive, al contempo, un altro capitolo di Storia. Incastonando la propria, di storia, nel libro mastro del XXI secolo.
Io per conto mio non gli sarò mai sufficientemente grato per avermi risparmiato l’eutanasia artistica del disco di carole natalizie, quello con la London Symphony Orchestra che sdilinquisce “Life on Mars?” o, peggio di tutto, l’album di duetti con cariatidi più decrepite di lui.
Invece, un’uscita di scena da par suo, spericolata e pirotecnica, magistrale, a testa altissima, con un uppercut di vitalità creativa e dignità umana che ad ogni ascolto riapre una ferita, rinnova un rimpianto e afferma al contempo l’ennesimo ma perentorio paradosso: quello di un artista sessantanovenne morto nel fiore degli anni e al culmine dell’ispirazione. Perché un uomo capace di “Blackstar”, si chiami David Bowie o Vsevolod Gorshwerkijn (non esiste, me lo sono appena inventato), fa terra bruciata. Punto. Pensiamoci un attimo, al 2015 del signor Jones. Divorato dal cancro, non segna mica il passo. Invece abita il presente con visionaria pervicacia, dominato da una bulimia creativa terminale. Prova anche a curarsi, nei ritagli di tempo. Ma la torre di controllo parla chiaro: il countdown è iniziato e il tempo per conquistarsi un posto al sole tra gli immortali stringe, e quindi lui galoppa. Bazzica fumiganti jazz-club e scova il Donny McCaslin Quartet; applaude l’hip pop bastardo di Kendrick Lamar; a quanto pare fiuta qualcosa di stimolante persino nei Death Grips, avamposto più oltranzista dell’estremismo sonico. Intanto scrive, scrive, scrive. E lavora con un accanimento (terapeutico) sfrenato ad un testamento artistico debordante e abbacinante, capace di irradiare la luce della sua stella (nera) per anni.
“Guardate, ora vi mostro come muore un artista”, sogghigna sornione tra una chemio e l’altra. E scodella un singolo da suicidio, dieci minuti tondi di apocalisse che, affastellando simbolismi e autocitazioni spaziali, si dipana maestoso tra grandeur wagneriana e grevità gregoriana, prodigando pure scudisciate free jazz e spasmi elettronici. Un’opera d’arte totale. E che custodisce oltretutto, nel bellissimo mezzo, una distensione catchy molto autoironica e straniante delle sue (con tanto di sculettamenti e maramao alla Grande Meretrice), giusto per ribadire che ok, se proprio insistete so fare Scott Walker meglio di Scott Walker, ma che diamine!, sono David Bowie, ho duettato con Tina Turner! E poi “Lazarus”, piano elettrico trafitto da chitarra Cure, che inarca la drammatica necessità di una catarsi con uno straziante solo di sax; e ancora la micidiale doppietta art-rock di “’This a Pity, She Was a Whore” e “Sue”, che sbuffano di accelerazioni industrial e impazienza drum&bass; infine la distensione cogitabonda di “Dollar Days”, acustica elegia d’infinita dolcezza sul congedo dalle umane cose che fluisce nell’epilogo, epico e struggente insieme, di “I Cant’ Give Everything Away”, che apre citando l’armonica di “A New Career In A New Town” e chiude sei minuti dopo con un formidabile assolo liquido di Ben Monder. E allora si può anche piangere. Quando il disco dell’anno esce l’8 gennaio, più o meno lo hai già capito come andrà a finire. Tanto che qualche spiritosone chiosa con sagace cattivo gusto che Bowie ha lanciato l’ultimo trend: morire. Non escludo che a lui la battuta non sarebbe neanche dispiaciuta.
Che poi, beninteso, lui indicava la luna, e tanti, troppi stavano lì a contemplare il suo dito affusolato. Per carità, i messaggi si lasciano alle segreterie telefoniche, ma se mi si concede un inciso polemico è un fatto che il 90% dei suoi adoratori, come anche quest’anno di morbosa necrofilia ha confermato, lo abbia frainteso e continui imperterrito a crogiolarsi nel nostalgico e un po’ nevrotico (si può azzardare anche patetico?) amarcord dei bei tempi andati, come dentro una gigantesca cornucopia warholiana, trastullandosi con i santini ormai “cheguevarizzati” – sempre quelli – di Marc Bolan e Ian Curtis, Lou&Iggy, i Bauhaus che rifanno “Ziggy Stardust” ed eccetera eccetera.
E dire che secondo molti detrattori – soprattutto italioti seguaci di una presunta autenticità rockettara spiaggiata sulla retorica, avvilente macchietta del macho in canotta sudata – era un ambiguo furbacchione, un novello Fregoli sempre a rimorchio dell’ultima baracconata. E poi l’epiteto di camaleonte, appioppato con dozzinale pigrizia intellettuale anche da numerosi estimatori, è metafora riduttiva e fuorviante: il camaleonte si mimetizza per nascondersi; Bowie no, il suo trasformismo coltiva l’alterità, anela al riconoscimento stilistico, afferma un’identità (sempre mutevole e cangiante, è vero, ma un puzzle si compone così); soprattutto aborre e disprezza l’indifferenza.
Invece e soprattutto: un parafulmine. Carismatico. Magnetico. Nessuno come lui ha saputo polarizzare un consenso così democratico e plebiscitario, dalla teenager infoiata al più scafato cultore di astrusità sperimentali. Nessuno come lui ha saputo calamitare e aggregare una galassia altrettanto vasta e proteiforme di impulsi culturali. Avvicinare Bowie significa vedersela con un secolo e mezzo di immaginario, squadernato nella sua accezione quintessenzialmente postmoderna, e rimuovere ogni soluzione di continuità che intercorre tra Little Richard e i Devo, Frank Sinatra e Steve Reich, Nina Simone e LCD Soundsystem, Jacques Brel e i Kraftwerk, Scott Walker e i Neu!, Cher e Eno, Stooges e Terry Riley, Mick Jagger e Goldie, Catherine Deneuve e Marlene Dietrich, Susan Sarandon e Lady Gaga, Madonna e Marylin Manson, T. Rex e Arcade Fire, John Lennon e Roni Size, Velvet Underground e Placebo, Bing Crosby e Trent Reznor, Twiggy e Liz Taylor, Elvis e Aphex Twin, Luther Vandross e Nile Rodgers, Robert Fripp e Stevie Ray Vaughan, Rick Wakeman e Tom Verlaine, Pete Townshend e Adrian Belew, Tina Turner e Philip Glass, Queen e David Lynch, Moroder e Pat Metheny, Moby e i Pet Shop Boys, i lieder di Strauss e la Nona di Beethoven. Più che un uomo: un prisma.
Solo musica, cinema e, insomma, industria dello spettacolo, quindi? Macché, la musica stessa è un tassello del puzzle. Questo ha cortocircuitato la storia del costume, reindirizzato il Novecento, coniato nuovi paradigmi. Scrivi “Bowie” e leggi “trascendimento del limite”, o il paradosso dei paradossi, l’inimmaginabile: come un Picasso, che sottomette alla propria visione immaginifica la banalità ottusa del reale, un occhio (blu) di fronte e l’altro (verde) di profilo; come un Bruce Springsteen che scrive “Essere e tempo” di Heidegger. Unico punto di fuga possibile di due rette parallele, vaso conduttore di uno scibile vertiginoso, caleidoscopio rutilante di forme, segni, linguaggi. Bowie sprigionava una forza centrifuga propulsiva, dirompente. The Music Is Outside, non a caso. La quantità di stimoli che s’incrociano indirettamente, solo ed esclusivamente grazie a lui, è incalcolabile. Citando in ordine sparso e secondo combinazioni casuali, come piacerebbe a lui: Il mimo e il pierrot, la moda e il musical, il cristianesimo e il buddismo, Vivienne Westwood e Lauren Bacall, l’I-Ching e il Libro tibetano dei morti, Siddharta e Gurdjeff, Oscar Wilde e Oskar Kokoschka, Brion Gysin e William Gibson, Jack Kerouac e John Coltrane, Egon Schiele e il Bauhaus, Andy Warhol e Jackson Pollock, Friedrich Nietzsche e i due Freud (Sigmund e Lucien), Edward Hopper e Tintoretto, Bertolt Brecht e Francis Bacon, Lindsay Kemp e Khalil Gibran, Die Brücke e il Bauhaus, William Burroughs e Basquiat, Nicolas Roeg e Chris Nolan, la Swinging London e Bali, la mitologia classica (il minotauro) e il cyberpunk, Stanley Kubrick e Marte, Vladimir Nabokov e Ruyichi Sakamoto, Thomas Mann e James Joyce, Jean Baudrillard e Thomas de Quincey, George Orwell e Anthony Burgess, Nagisa Oshima e Philip Johnson, Don De Lillo e Kansai Yamamoto, Thomas Pynchon e Masayoshi Sukita, il mainstream e l’underground, l’esistenzialismo e Camus, Dostoevskij e Philip K. Dick, l’astrofisica e gli haiku, la motown e il Giappone, Ingmar Bergman e Andrej Tarkovskij, Karlheinz Stockhausen e il kabuki, Los Angeles e Berlino, Jim Henson ed Helmut Newton, la cabala e la cocaina, la pittura e la fotografia, Sergej Prokofiev e Walter/Wendy Carlos, Hermann Nitsch e Damien Hirst, New York e i libri, l’Africa e le Alpi Svizzere, BowieNet e Bowie Bond, le minchiate nazi-fasciste e la moglie somala, la promiscuità più assatanata e la quiete del focolare.
Abitare la complessità contraddittoria del presente, questo è Bowie. Uno schizofrenico compulsivo che in tre decadi diventa, nell’ordine: acerbo e imbronciato pioniere beat; gracile e squattrinato menestrello folk biondo-crinito sedotto dalla psichedelia; androgino furetto en travesti; arrembante ed emancipata icona glam; dandy cocainomane e scrupoloso filologo del Philly Sound; severo alchimista di algide innovazioni teutoniche; polistrumentista intuitivo e autodidatta; taumaturgico defibrillatore di rocker semi-rottamati; riverito padrino della new wave; luciferino ed esangue profeta dark; popstar generalista lampadata e ossigenata, comunque multimiliardaria; bellimbusto in blue jeans formato FM, juke-box vivente ed erogatore automatico di tormentoni da top10; animale da stadio; ringalluzzito hard-rocker quarantenne, barbuto e in doppiopetto; spiritato tecnocrate cinquantenne galvanizzato dai nuovi suoni, tra neopaganesimo e body art; paladino entusiasta della jungle; profeta apocalittico e iconoclasta del disincanto post 11 settembre; crooner attempato.
E ancora, nelle almeno altrettante mille e una vite che si dispiegano lateralmente a quelle musicali: baronetto mancato per scelta, chiassoso e sgargiante ossesso gay, decadente e pensoso esteta post-vittoriano, talentuoso pittore, attore fascinoso, prezzemolino glamour da gran gala, inossidabile tombeur de femmes, cinico nichilista, opinionista tuttologo, pioniere ipertecnologico, ballerino e boxeur, tossico e salutista, compassato intellettuale, collezionista compulsivo, raffinato intenditore d’arte, erudito bibliofilo, arguto maître à penser, umorista irriverente, mentore generoso, lungimirante talent scout, affabile oratore, mordace caricaturista, discreto filantropo, scaltro investitore, morigerato pater familias, scostante eremita ossessionato dall’anonimato.
Soprattutto: un antidoto alla mediocrità, alla pigrizia intellettuale, alla catalessi spirituale, all’autismo emotivo. Nemico giurato di dogmi, di retoriche, di sentimentalismi d’accatto. Un contraccettivo per la banalità. Un monito vivente alla vigilanza dello spirito critico, alla libertà di pensiero e ad un incoercibile diritto all’autodeterminazione. Un Voltaire 2.0 mitigato da un irriducibile afflato spiritualistico. E poi la voce, quella voce, capace di modulare una gamma inesauribile di registri, dal falsetto sguaiato della checca isterica al più plumbeo baritono. Tutto e il contrario di tutto, sempre.
Ci sono stati, soprattutto, quei dieci anni dal 1970 al 1980, davvero pionieristici e mitopoietici, lungo i quali ogni spasmo di quest’uomo avveniristico costruiva senso. Una supernova in combustione, tra la più dionisiaca e autolesionistica dissolutezza e una maniacale, superomistica affermazione di autodisciplina. Volontà di controllo, soprattutto. Pensiamoci. “Aladdin Sane”, “Diamond Dogs”, “Station to Station”: cose di una densità e di una prodigalità generativa praticamente illimitata, dove ogni singolo brano spalancava scenari, fecondava immaginari, instaurava significanti. E poi la trilogia tedesca, una cosa che a tutt’oggi proviene dal futuro, un Eldorado di start up stilistici così eccessivo e straripante che al confronto i Radiohead diventano un coretto parrocchiale. Ad ogni crocevia, una svolta secca che rinnegava la direzione precedente e ne additava di nuove ad una pletora di emuli idolatri, tutti smaniosi di appecorinarsi sull’ultimo trend, quando lui stava già tre passi avanti. Perché l’unica forma di coerenza commisurabile alla vastità di quest’uomo è proprio la contraddizione. Che poi i luoghi comuni li demoliva da di dentro, rigirandoseli da par suo, immergendovisi fino al collo con un entusiasmo mimetico spettacolare per poi tradirli con un plateale voltafaccia stilistico un istante dopo. Riflettiamo. Il glam degenera nell’autoparodia carnevalesca dell’esibizionismo più kitsch, sgangherato e pacchiano? Dio gliene scampi, lui è già oltre oceano a masticare plastic soul, con le antenne puntate su James Brown e Sly Stone. La new wave declina nel new romantic, tutta cotonature arancioni e fondotinta blu, e nel gothic/dark, che immiserisce le sue intuizioni nel vittimismo isolazionista più ombelicale e sottoculturale? Lui vola ai Caraibi, fa surf e sculetta, dominando le classifiche con motivetti solari e danzerecci più appiccicosi di una Big Bubble. Siamo tutti ultramodernisti adepti di Nathan Adler e delle claustrofobiche, millenaristiche, asfissianti paranoie distopiche che veleggiano su frequenze da cardiopalma? Macché: lui ormai è pantofolato in salotto, che ravviva il fuoco nel caminetto, sorseggia un brandy, culla una neonata e si spiana le rughe canticchiando “Thursday’s Child”. Consultiamo con apprensione le news paventando d’imbatterci, dopo dieci anni di silenzio tombale, in un trafiletto che riporta l’infausta, irreparabile notizia? “La nota rockstar, ritiratasi dalle scene nel 2004, all’indomani di un delicato intervento al cuore…”. Lui, pazzesca araba fenice che non era altro, spariglia le carte un’altra volta e sbalordisce tutti mitragliando una novità dietro l’altra, per due anni rotondi, preparandosi uno scintillante Gran Finale, melodrammatico e trionfale, da teatro d’opera. Eclettismo, quindi. Uno spregiudicato calcolatore, allora? Metamorfismo burocratico? Trasformismo impiegatizio? Ma neanche poi tanto, e anzi, più naif che altro se ragioniamo sul fatto che questa irrequietezza indomabile, questo “essere qui e voler andare di là”, questo nomadismo culturale è piuttosto il portato di una curiosità vorace e viscerale, più di pancia che di testa, di un ardore conoscitivo onnivoro, ecumenico, totalizzante. E quindi anche il vecchio, più lusinghiero adagio del “grande artista concettuale” a mio avviso va riveduto e corretto. Bowie era innanzitutto un entusiasta, uno facile agli innamoramenti. S’imbarcava anima e corpo in progetti titanici e a questi si consacrava con una dedizione maniacale, una convinzione trascinante e una forza seduttiva che dribblavano non soltanto le logiche mortifere della premeditazione commerciale e della speculazione imprenditoriale, ma anche quelle di una pianificazione strettamente intellettuale. La forza della sua proposta, semmai – e ritorniamo alla conciliazione tra gli opposti –, è sempre stata quella di riuscire a disciplinare questa irruenza, questa esuberanza pulsionale con l’ausilio di una solida, vastissima griglia di contenimento culturale. Un modus operandi che, nella misura in cui espone con evidenza determinati riferimenti, offre un po’ a tutti – ammiratori e detrattori – la sponda rassicurante di una razionalizzazione. E poi era anche tremendamente volubile. Pensiamo a quante ne ha tradite, di promesse, fatte in primis a se stesso. E, tanto per tagliare la testa al toro, pensiamo anche che gli sarebbe bastato rifare “Life on Mars?” tutta la vita per svangare una vecchiaia dorata come Elton John.
Un glaciale geroglifico, parafrasando Fossati. Indecifrabile. Inespugnabile. Eppure, al tempo stesso, sempre caldo, comunicativo, eloquente. Fino alla fine, quando con un lapidario quadrato bianco ha obliterato la più iconica effige del proprio stesso mito, rimpiazzandola con uno spazio neutro di possibilità illimitate, aperture ulteriori. Se n’è andato così, questo incredibile fantasista rinascimentale (ma anche manierista, barocco, romantico, postmoderno). Di punto in bianco e senza avvisare, dopo mezzo secolo secco di incommensurabili prodigi, rintanandosi dentro un armadio con la sua tutina stellare. Ma a passo di gambero e scattoso come una marionetta, quasi risucchiato verso l’abisso da un innaturale, malevolo ubi maior. Mentre lo sguardo – lucido, fiero, spietato – rimaneva puntato in avanti, i suoi incredibili occhi diversi spalancati sino all’ultimo istante su quel futuro che non avrebbe vissuto, ma che aveva nondimeno presagito e, in massima parte, già pianificato e delineato. Rilasciando un’ultima immagine proprio l’8 gennaio del suo 69° genetliaco – a due giorni dalla fine e appena una settimana prima di diventare un pugno di cenere sparsa al largo di Bali -, dov’è ritratto raggiante nel suo impeccabile gessato grigio, ma davanti ad una sibillina saracinesca chiusa. “Ok, gente, vi ho fottuto un’altra volta”, dice quell’espressione di radiosa vitalità, invero un po’ tirata. Perché cos’è, “Blackstar”, se non lo straziante, rabbioso balzo quantico nel futuro di un demiurgo con le ore contate che si protende in avanti e dissolve nella sua opera, eternandosi nell’arte, transustanziandosi definitivamente nel simbolo? “Mi volete? Cercatemi qui dentro”, sussurra lui con l’ultimo, geniale artwork di Barnbrook, dove il suo nome compare in filigrana ad un nuovo, iniziatico alfabeto composto da una sequenza di astri frantumati. Polvere di stelle, giustappunto.
Eccolo qui, IL disco dell’anno. Senza se. Senza ma. Mettiamola così, allora: Dylan avrà anche attaccato la spina; tutto il resto, prima di staccare la sua, lo ha fatto lui.
Where Are You Now? Lunga vita, maestro. O, Yassassin, s’il vous plais. David Bowie IS.
Giovanni Di Vincenzo
(c) riproduzione riservata
Devi effettuare l'accesso per postare un commento.