1 Se la distinzione tra Oriente ed Occidente sorge con la nascita della storiografia greca ad opera di Erodoto (V sec. a.C.), quest’ultimo identificava il secondo ad Eyrope e il primo ad Asie e collocava il confine tra i due “mondi” nell’Ellesponto, quella lingua di mare che collega il Mar di Tracia con l’Egeo mediterraneo. Con l’eponimo Asie, Erodoto e i greci designavano, in particolare, l’antica Lidia, i cui territori si estendevano immediatamente ad est della Ionia. L’Oriente greco coincideva, pertanto, con l’area mediterraneo-micrasiatica. Posto che ogni confine, in quanto limite, così come può separare, ancor prima lega e mantiene in contatto, se diamo ascolto ad Esiodo (VII sec. a. C.), Eyrope kai Asie, per il mito, erano sorelle, figlie di Oceano e Teti. Una tale fratellanza sarà ristabilita, sul piano geopolitico, dalle imprese di Alessandro Magno, che inaugurarono quella cultura ellenistica, grazie alla quale la divisione erodotea tra Ellenes e barbaroi viene subito superata, con effetti e ricadute, che si ripercuoteranno per lungo tempo, se teniamo conto del fatto che uno dei più significativi prodotti della grecità post-classica come la filosofia dello stoicismo – così vicina a molti aspetti delle sapienze del più lontano oriente – costituì il pensiero dominante a Roma sino ai primi secoli dell’età imperiale. Il fatto è che la filosofia medesima nasce nelle aree grecizzate contigue all’Ellesponto, presso le coste dell’Egeo e della penisola anatolica (Talete, Anassimandro ed Anassimene erano di Mileto; Eraclito di Efeso; Pitagora di Samo e Ferecide di Siro, nelle Cicladi) e presso le colonie italiche della Magna Graecia occidentale, per spostarsi solo successivamente ad Atene (nel V sec. a.C.). Tutto ciò testimonia come quella sottile striscia di mare, che i greci avevano denominato Ellesponto e che si insinua nella parte orientale del Mediterraneo, non ha mai agito veramente quale linea di separazione, bensì come limite, il quale appartiene ugualmente ad entrambi i limitati, rendendo impossibile la loro reciproca estraneità.
2 La separazione erodotea riguardava la lingua – ad oriente della Ionia si tendeva a “balbettare” stentatamente la lingua greca, da cui l’origine del termine barbaros – e la concezione politica: da
una parte lo Stato quale universalità territoriale, dall’altra la polis identificata alla totalità determinata e chiusa dei suoi cittadini. Vi è una decisiva ragione teorico-culturale, che spiega perché Erodoto non avrebbe potuto che trasformare il limite dell’Ellesponto in un segno di separazione. E sta nel fatto che a lui si deve la fondazione dell’istorie, ovvero di un resoconto storiografico, che si differenzia nettamente dalle narrazioni orientali, per il suo carattere logicamente analitico, nonché rigorosamente articolato secondo categorie e connessioni di tipo causale. Un tale modello si fonda su una logica razionalistica di tipo dicotomico, oppositivo ed escludente, secondo la quale: se è greco non è barbaro, se è ateniese non è spartano, se è uomo libero non è schiavo e tertium non datur. Si tratta di quella logica dell’identità / differenza (nel senso che pone immediatamente il differire come relazione reciprocamente escludente tra identità determinatamente altre), la quale, se assunta al di là della sua valenza formale, costituisce la radice di ogni dispositivo e di ogni atteggiamento discriminatori e immunitaristici.1 Va anche rilevato che, come ha messo in luce lo storico Santo Mazzarino: “La istorie come ricerca è un tentativo di sfuggire al fatto intendendolo, nella sua genesi come atto”.2 Il resoconto storiografico inaugurato da Erodoto, sfugge all’evento, trasponendolo preventivamente in puro significato perfettamente assoggettabile, quindi, alla logica identitaria e causalistica, alla quale, invece, l’evento in quanto tale non è mai assoggettabile. E tuttavia, il grande poeta greco Pindaro aveva ammonito: “Ciechi sono i pensieri degli uomini, quando cercano la via con gli artifici dell’intelligenza, ma senza le Muse”. E Parmenide di Elea (colonia greca sulle coste tirreniche a sud di Napoli) definito da Platone “il padre della filosofia”, nel suo poema descrive la natura dei mortali come quella di: “uomini dalla doppia testa (dikranoi), giacché è l’incapacità di usare ogni mezzo (amechanie), che indirizza, nei petti, la loro mente in perenne conflitto (…)”
Dall’Ellesponto. L’esperienza mediterranea del senso del limite (fr.6, vv. 5-6). L’incapacità di stare e il perpetuo oscillare degli uomini dalla “doppia testa” – alla ricerca di un’armonia, che secondo Eraclito può instaurarsi solo “tra divergenti” (fr.8) – sono dovuti al fatto che essi sono costitutivamente incapaci di usare esclusivamente ed unilateralmente i pur efficaci strumenti logico-analitici, che li elevano al di sopra di qualsiasi altro essere vivente. Se la vocazione dei mortali è quella di ricercare e di sperimentare, in ciò gli uomini dalla “doppia testa” non possono affidarsi solo agli strumenti dell’intelligenza, perché così il loro imparare si esprimerebbe solo in un fastidioso gracchiare simile a quello di “corvi turbolenti”(come scrive ancora Pindaro nelle Olimpiche). Proprio per questo, essi non possono stare sempre e solo da una parte rispetto al limite, in quanto si collocano nel tra del limite stesso, non potendo che oscillare continuamente, pendolarmente, al di qua e al di là di esso.
In tale prospettiva, l’oriente e l’occidente costituiscono un symbolon, ovvero, secondo quanto Platone scrive nel Simposio (il dialogo dedicato alla demoniaca potenza di Eros), ‘uno-di-due’ o ‘due-che-è-uno’.3 Nella vita quotidiana degli antichi greci, il symbolon era un pezzo di coccio, il quale testimoniava l’indissolubile legame tra due amanti. Esso appariva come una unità segnata da una linea, la quale non spezzava affatto, però, l’intero in due parti. Anzi, l’eventuale spezzarsi in due ne avrebbe provocato la distruzione stessa. Etimologicamente, la parola è il corrispettivo sostantivale di un verbo, che indicava, alla diatesi attiva, un tenere assieme senza giungere alla fusione, né alla perfetta sintesi e, alla diatesi media, un ri-flettersi tale per cui la dualità così generata, nel suo rimbalzare di sé con sé, non desse luogo né ad una assimilazione o con-fusione, né ad una separazione. Da questo punto di vista, il Mediterraneo è ideale crogiolo di esperienze in tal senso simballiche, per quanto, di fatto, tale vocazione sia andata incontro a continui corsi e ricorsi, nella storia antica e recente d’Europa. E ogniqualvolta la dinamica circolarità del symbolon è stata infranta, ciò è accaduto come conseguenza dell’assolutizzazione unilaterale, sui piani culturale e politico-sociale, della mentalità di origine istorico-razionalistica, nell’ostinazione dei mortali a ragionare con un testa sola: con i soli artifici dell’intelligenza, ma senza i doni di Eros e delle Muse. Con tutte le derive discriminanti e immunitaristiche, sino alla xenofobia, al razzismo e all’intolleranza religiosa, che ciò comporta. Finendo per rendere il Mediterraneo non più il “mare di mezzo” per antonomasia, bensì il luogo delle esclusioni, delle barriere e, infine, dell’impossibilità di fare autentica esperienza (come fu denunciato da Walter Benjamin nel 1933).4
3 Che cosa comporta, per l’Europa mediterranea, corrispondere al suo destino, quello di assecondare la natura dikranos dei mortali alla ricerca di un’armonia, che mai sta, ma si mette all’opera nella perenne tensione, che Eraclito aveva paragonato a “quella dell’arco e della lira”(fr. 51), la quale continuamente “ritorna da un estremo all’altro estremo”(ivi)? Prima di tutto, l’assunzione di un habitus, che sia dedito all’oltrepassamento di ogni apparente soluzione data. Perché come è vero che gli atteggiamenti di chiusura identitaria e monoculturale rappresentano la più esasperata espressione dell’atteggiamento monocranico, è altrettanto vero che: a) l’orientalismo costituisce solo l’altra faccia speculare del medesimo atteggiamento;
b) il pluralismo si limita all’applicazione del concetto liberal/illuministico di tolleranza, la quale implica un’evidente asimmetria di fondo tra il tollerante e i tollerati; c) il multiculturalismo tende a considerare ognuna delle diversità culturali nella sua immutabilità e immodificabilità, valorizzando sì le differenze, ma nel senso di una ricchezza del tutto astratta. E non è nemmeno semplicemente una questione di dialogo, dal momento che ogni dia-logos presuppone la relazione tra un Io e un Tu e, come hanno messo in luce gli studi semiotico-linguistici di E. Benveniste,5 il soggetto identitario, la cui figura ha dominato la civiltà moderna occidentale – per poi contagiare le civiltà orientali nel contemporaneo – trova la sua originaria condizione di possibilità proprio nella misura in cui il linguaggio viene articolato a partire dai pronomi personali di prima e seconda persona. In modo tale che il soggetto afferma la sua identità autocentrata proprio nel dire “io” rivolto ad un “tu”. Se, allora, come ha scritto G. Pasqualotto, ogni cultura è “intercultura”, in quanto rete di reti elastica e porosa, frutto di incontri, rifiuti, incroci, contaminazioni e continuamente soggetta a modificazioni nell’interscambio dentro/ fuori tra i suoi orienti e i suoi occidenti, i differenti apporti culturali vanno sperimentati, in una sorta di laboratorio permanente, facendoli interagire all’opera – con intelligenza, amore e arte – nella misura in cui essi sono sempre in corso d’opera. Valutando criticamente gli effetti, di volta in volta scaturiti, senza pregiudizi e mai personalisticamente, bensì sempre alla “terza persona”(che, per Benveniste, esprime la non-persona, nel deporsi di ogni identità soggettivistica). Scrisse J.W. Goethe, nel Divano occidentale-orientale: “Con sensi arcani fra i due mondi/ cullarsi è cosa che mi giova!/Così tra Oriente e Occidente/ fare la spola, sia pel meglio!”.
1 A proposito del senso dell’immunitas, il rinvio è a R. Esposito, Immunitas. Protezione e negazione della vita, Einaudi, Torino 2002; Terza persona. Politica della vita e filosofia dell’impersonale, Einaudi, Torino 2007.
2 S. Mazzarino, Tra oriente e occidente. Ricerche di storia greca arcaica, Rizzoli, Milano 1989 (1947), p.291.
3 Per una valorizzazione complessiva di tale prospettiva simbolica rinviamo al nostro
R. Gasparotti, Filosofia dell’eros. L’uomo, l’animale erotico, Bollati-Boringhieri, Torino 2007.
4 Cfr. W.Benjamin, Esperienza e povertà (1933), ora in W. Benjamin, AURA E CHOC. Saggi sulla teoria dei media, a cura di A. Pinotti e A. Somaini, Einaudi, Torino 2012, pp. 364-369.
5 Cfr. E. Benveniste, Problemi di linguistica generale,tr. it. il Saggiatore, Milano 1971.
6 Cfr. G.Pasqualotto, Tra oriente e occidente, Mimesis, Milano 2010 e Filosofia e globalizzazione. Intercultura e identità tra oriente e occidente, Mimesis, Milano 2011.
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