Crac, racconto di Gianluca Ferrari
(seconda parte)

tempo di lettura: 9 minuti

La ragazza si era accorta di essere l’oggetto del dibattito. Lo capiva sempre che gli uomini parlavano di lei quando era presente. Forse persino quando non c’era. Anzi, soprattutto quando non c’era.

La cosa l’annoiava.

Si alzò dal posto e vi appoggiò uno zaino che teneva sotto i piedi. Poi si diresse verso l’entrata giocherellando con un pacchetto di sigarette.

Portava dei cargo larghi e, nonostante ciò, Paolo non poteva ignorare la forma del suo fondoschiena e quelle anche così strette.

Marco gli allungò un pugno sulla spalla.

-Se non esci dico al capo che sei arrivato con un ritardo di due ore e ti faccio licenziare. Giuro.

I taxi stavano in fila, come il dorso di una zebra morta stecchita, alternando bianco e nero per decine di metri, e gli autisti appoggiati ai cofani freddi chiacchieravano con le occhiaie della notte.

-Hai una sigaretta?

E certo che ha una sigaretta, idiota. Sta fumando. E pure tu le hai. Questo è il meglio che sai fare?

-E poi?

Lei si stava divertendo, come non accadeva da molto tempo. L’imbarazzo di quel ragazzino, così timido a dispetto dei tatuaggi sul collo e sugli avambracci. Era un tirapugni quello che spuntava vicino al gomito? Era abbastanza sicura di sì.

-E poi?

La risata di lei fece voltare un paio di tassisti per un attimo, non abbastanza breve da spazzare via la nuvola di fumo azzurrognola che lei aveva soffiato.

-Poi?

-Sei autistico che ripeti cosa dico?

Non era sicuro di apprezzare il tono sarcastico che aveva.

-No, non sono autistico. Ma se ti rompo me ne vado, tranquilla.

-E la miseria! Che caratteraccio. Stavo solo scherzando un poco, non offenderti. Tieni -. Aveva le unghie smaltate di un rosso scarlatto.

-Lunga la notte, vero?

E tu che ne sai? Pensava.

-Sai, quando avevo la tua età facevo la cameriera in un bar a Tulum e quando arrivavano le 4, e non c’era più nessuno, solo qualche tiro di coca ci teneva svegli.
Rise come se avesse fatto la battuta più irresistibile di sempre e senza curarsi di abbassare il tono.

-Beh, qua la “bamba” non ce l’abbiamo.

Un colpo di tosse.

-Intendo che “io” non ne ho. Mi rincoglionisce e non mi piace avere gente intorno se pippo.

E poi con che soldi la paghi? Ti toccherebbe venderla come fa Alex. E come lui ci finiresti dentro con le narici, la gola e il portafoglio. E gli albanesi prima ti fanno credito, poi ti fanno esplodere la milza a suon di scarpate. No, grazie.

-Guarda che stavo scherzando. E se fossi un poliziotto? – chiese lei con cipiglio.

Poi tornò a ridere divertita dall’espressione di Paolo.

-Sei buffo. E non è una brutta cosa, se stai pensando il contrario. Ricorda, è meglio farla ridere una donna. Che di stronzi ce ne sono anche troppi in giro, – tossì sputando un pezzetto di tabacco.

-Lavori da molto? Qui, intendo.

-Qualche settimana. L’interinale è stato il massimo che è riuscita a trovarmi.

-Mmm. Non ce l’hai un diploma, eh?

Il ragazzo la fissò con gli occhi sgranati.

-E come lo sai?

-Perché non mi sembri uno studente. Tutto qua.

-E cosa ti sembro?

-Con quei tatuaggi e quei capelli decolorati? Direi un trapper, sai uno di quelli come Sfera o Tony Effe. Ecco.

-Non canto, non so rappare.

Non so fare un cazzo. Ecco.

-Be’, sei ancora giovane, hai tempo per fare cosa ti pare no?

-Ma se avrai la mia età…

-Se volevi farmi un complimento, grazie, però temo di avere qualche anno più di te.

-Dove vai?

-Perché? Chi ti dice che vado da qualche parte?

-Sei in un aeroporto, no? Qui partite tutti.

-Non tutti, non sempre. A volte qualcuno ritorna semplicemente da dove era partito, che poi è l’esito di ogni viaggio. Si va e si ritorna. L’unico viaggio a una sola andata lo facciamo un’unica volta, o così dicono. Non sono mai morta per confermarlo…

Muoveva le mani come dovesse spiegare un concetto importante, lo faceva sempre. Al contrario di Paolo che teneva una mano in tasca e con l’altra fumava. E ascoltava.

Quella ragazza, quella donna, aveva ragione. A sentirla parlare sembrava avere decine di anni più di lui.

Ovvio! pensava, è ricca lei. Non è come te. Quelle studiano, sanno parlare in italiano.

-Io domani potrei andare in carcere.

L’aveva detto così, senza pensarci. E infatti un attimo dopo le parole del suo vecchio erano ritornate. Non mostrare cosa pensi.

-Questa non sembra una frase a effetto. Tanto per dire. Dici sul serio?

-Mmm.

-Non sono mai stata in carcere.

Lo aveva detto con una nota di rimpianto, come se fosse stata l’ennesima meta da visitare e che per qualche motivo ancora le mancava.

-Neppure io. E a dirla tutta preferirei evitare di sapere com’è.

-Magari troverai un giudice comprensivo…- sussurrò lei.

-E non vuoi sapere perché? Voglio dire, potrei essere uno di quelli che ammazzano le mogli o le picchiano o uno stupratore…

-Stai cercando di spaventarmi? Comunque, non mi sembri uno che fa del male alle donne… quindi, magari sbaglio, ma direi, tirando a indovinare: spaccio?

-No, una rissa. – Lo aveva detto inspirando e gonfiando così il petto, e una certa parte di lui pareva compiaciuta nel dirlo. Come se tutto ciò che Paolo avesse da offrire a lei fosse la sua vita di strada, o almeno che ritenesse solo quello abbastanza interessante. A vent’anni non aveva viaggiato mai, non conosceva nulla che andasse fuori dal suo quartiere e non conosceva nulla neppure di Venezia, seppure vicina. Perché per lui il centro storico era a portata di mano quanto poteva esserlo New York o Parigi.

Lei si era fatta più guardinga al sentire la risposta del ragazzo. Come se la realtà avesse fatto capolino per la prima volta nella sua vita. La realtà che lei e gli altri come lei al massimo commentavano.

-Gli hai fatto molto male? Per rischiare il carcere…

-No… o meglio, non volevo fargli male, volevo solo – Paolo sospirò, – volevo solo farla finita. Le grida, le botte, non mi piacciono e volevo solo stenderlo. E così ho esagerato, ma non volevo ammazzarlo e per fortuna non l’ho fatto. Alla fine. Ma ne avevo combinate altre, quindi posso solo sperare che il giudice non mi tiri addosso troppo. E se sarà, amen!

-E se non sarà? Se così non dovesse essere? Se avessi una alternativa? Cosa vorresti essere? Se io fossi una specie di fata dei desideri, cosa mi chiederesti?
Paolino arrossì.

-A parte “quello” – sorrise lei, -Che diamine… un po’ di fantasia, ragazzo!

-Cosa ti chiederei? Soldi.

-Tutto qui?

-Tutto qui? – la scimmiottò. -Tutto qui? Mia mamma pulisce camere d’albergo dalle 5 alle 11 del mattino, per cinque euro all’ora, mio padre era un operaio ma le fabbriche hanno chiuso vent’anni fa, quando sono nato io, e da allora si arrangia con lavoretti. Quando va bene.

-E credi che i soldi cambierebbero la situazione? -Lei lo incalzava, incuriosita. Sembrava non comprendere tutto quel desiderio, come un sazio che non può capire la furia di un affamato.

-E che ne so? Non ne ho mai avuti, nessuno di noi in casa ne ha mai avuti. Siamo talmente “sfigati” che quando muore un parente è una tragedia, perché non ci sono eredità e i funerali costano, e allora ogni volta sento qualcuno bestemmiare perché ci tocca spendere per seppellirlo.

-Sì, ma i soldi finiscono… quindi se io potessi esaudire, mettiamo così, il tuo desiderio, cosa ti inventeresti per far sì che la tua condizione cambi davvero?

Era una domanda a cui non sapeva rispondere. A dirla tutta c’era stato Dario, in quartiere, che aveva vinto la lotteria qualche anno prima. E si era speso ogni centesimo in puttane e in vino. Non era neppure mai uscito dal quartiere, comprava un po’ di coca, si chiudeva in hotel con un po’ di escort, invitava i soliti amici e in un paio d’anni aveva finito tutto. Ma era una eventualità a cui Paolino non aveva semplicemente mai pensato. Lui non giocava. E pagare per il sesso gli sembrava stupido.

-Non lo so. Immagino che mi aprirei una mia attività. Anche se non saprei cosa.

-Vedi? Qui sta il problema. Non hai una visione, sei condannato a ripetere le scelte dei tuoi genitori e dei tuoi amici, senza una visione. Devi osare la fantasia.

Pensare cose che ti sembrano impossibili e poi capire come realizzarle.
Gli sembrava di sentire la sua professoressa.

-Ma vaffanculo! – sbottò Paolino, – E senza soldi cosa immagino? Siete proprio belli voialtri. La fate facile su tutto! Dio buono. A sentirvi, siamo noialtri, noi morti di fame, che siamo sbagliati e difettosi. Perché “basta volerlo”, dite. Col cazzo che basta volerlo. Credi che mi piaccia questo lavoro? Ma non so fare nulla, non ho studiato e tanto anche se lo avessi fatto non sarebbe cambiato nulla lo stesso.

-Un poco auto commiserevole.

-Non so cosa significa ma non mi piace, il tono. Senti, me ne torno a lavorare.

-Tra due ore parte il mio volo.

E lui ancora non mi ha riconosciuta. Pensava lei.

-Bene per te. – aveva tagliato corto.

Poi si era infilato le cuffie ed era tornato a svuotare i cestini. Intanto una sottile linea arancione faceva capolino all’orizzonte.

Ripensava alle parole della donna, però. Forse, aveva ragione lei, in fondo quando mai ci aveva provato davvero? E sì che stava per farsi la patente nautica… magari quello avrebbe cambiato qualcosa. E invece si era riempito di canne con Alex il giorno dell’esame. Si domandava se geneticamente ci fosse qualcosa che non andava nella sua famiglia, tutti falliti. Ovviamente Paolo ignorava cosa fosse la genetica ma si arrovellava lo stesso sul tema, in un reel su tik tok ne aveva sentito parlare una volta.

Un piccione era riuscito ad entrare nella sala dell’aeroporto e in quel momento tubava, appoggiato al corrimano delle scale mobili; poi si era alzato in volo e aveva cagato in aria. Un poliziotto assonnato aveva evitato la deiezione, con un poco di rammarico da parte di Paolo.

La luce del giorno ormai avanzava e qualche commessa iniziava a muoversi dentro i negozi.

Un Marcone ancora più esagitato lo aveva sorpreso alle spalle, avvolgendolo in una morsa da orso polare. Paolino avrebbe giurato di aver sentito una costola incrinarsi.

-Allora? Hai il suo numero? Cosa ti ha detto? Ma soprattutto… ci scopi?

-Ma che vuoi, – si era schernito, appena offeso ma in fondo orgoglioso, sebbene ignorasse di cosa – abbiamo parlato e basta. Nulla di che, le solite cose che si dicono tanto per passare il tempo.

-Paolino! Porcoddio, non sarai mica un po’ finocchio, vero? Intendiamoci, nulla di male, ma basta dirlo. Quella, quella… – Marco si era incartato cercando le parole, – ti approccia e tu perdi una occasione così?
Avrebbe voluto dirgli che intanto lei non lo aveva approcciato. Anzi, a dirla tutta, Paolino si era sentito osservato come un animale in uno zoo. Non del tutto compreso, ma con l’attenzione dello spettatore nei confronti del suo semplice essere.

E poi lo aveva infastidito, con tutte quelle storie da reel. Gli pareva una di quelle influencer che spiegavano a tutti come la vita fosse bella, bellissima, bastava volerlo invece di accontentarsi.

-Non c’era nessuna occasione. – Aveva chiuso secco la conversazione.

Non c’è mai stata nessuna occasione. Aveva pensato. Nessun bacio, nessun contatto telefonico. Nulla.

Un urlo squarciato nella notte lo aveva destato dal sonno. Alla fine ci era riuscito, a dormire. Nella stanza c’era un odore di stantio e di marcio, probabilmente arrivava dal tizio che dormiva nella branda sotto di lui.

Intanto le urla continuavano. Spaventose, continue, implacabili. Paolino era rabbrividito. La luce arrivava fioca, non avevano chiuso del tutto il “blindo” la sera prima. Nel corridoio poteva udire il rumore di passi, pesante, come di più persone che corrono una vicina all’altra. E poi anche dalle altre celle la gente aveva iniziato a strillare, a battere sulle inferriate, nell’aria si spandeva un acre odore di bruciato, di qualcosa che bruciava.

-Si sarà impiccato un altro…- aveva sentenziato una voce roca da sotto.

Paolo aveva fissato oltre la punta dei suoi piedi un campanile che lontano faceva capolino spezzandosi in tanti blocchi tra le sbarre, con la luna che sembrava infilzata come un frutto. E oltre ancora ci doveva essere il mare. Poteva sentirne il profumo.

E pensava che sarebbe stato bello incontrare una sconosciuta come quella ragazza, parlarci, e che forse se l’avesse rivista nei sogni se la sarebbe ricordata per bene. Un giorno sarebbe uscito, entro un anno… e chissà, forse per lui c’era davvero una così. In giro.

Mi piacerebbe si chiamasse Speranza, alla fine è un bel nome. Almeno in spagnolo. Pensò.

Poi l’allarme iniziò a suonare nel carcere e dalle finestre iniziarono a piovere stracci incendiati. E la porta della cella si aprì. Vide un manganello. Poi il buio tornò ad accoglierlo.

Crac.

Gianluca Ferrari


Foto di Davide Carraro

Autore