RIVISTA DI CULTURA MEDITERRANEA

Classici. Alle fonti della poesia con l’eccentrico Puškin, di Rosita Copioli

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Aleksandr Sergeevič Puškin (Pëtr Fëdorovič Sokolov, 1836)


Articolo pubblicato in Avvenire il 4 febbraio 2022, a cura di Rosita Copioli

 

Esce una nuova versione dell’“Onegin” e ritorna la traduzione di Landolfi delle liriche
del russo. Una musica lieve da cui emergono la varietà del mondo e il peso del fato

 

Di recente, ho voluto rileggere Aleksandr Puškin tutto intero, poemi, fiabe, leggende, drammi, romanzi, racconti, nelle traduzioni che avevo sottomano, così diverse nei tempi. Me ne ha dato l’occasione la ristampa in Adelphi di Poemi e liriche, a cura di Tommaso Landolfi (pagine 508, euro 30,00), mentre Giuseppe Ghini ha curato un nuovo Evgenij Onegin per Mondadori (pagine 480, euro 12,00). Puškin attrae come pochi. Ma mettendo così insieme tutte le impressioni da generi tanto vari, stupisce la naturalezza con cui piega l’immaginazione ad aderire a genere e soggetto, con stile e lingua adeguati; e contemporaneamente il genio di violarne le regole, senza temere di slanciarsi in qualcosa di completamente nuovo, capace di adoperare qualunque strumento utile: archivi di cronache minute o di zar, battute popolari, aneddoti, dicerie di balie, resoconti notarili, diari, genealogie familiari, reportages di guerra e geografici sul Caucaso (oltre a una notevole, prensile cultura letteraria aggiornata).

Tutto gioca su un paradosso di opposizioni: lo sprofondamento in ogni argomento e la sensibilità per la microstoria dei luoghi – signoreggiato da coesione, potenza, struttura – e insieme leggerezza, volo rapido, sguardo superiore. Qualità che convivono raramente, qui sempre, in un’armonia superiore, magica, i segni di un do-no: il medesimo della natura. A volte non orchestra. Va per frammenti, o interrompe. Non sempre per necessità, ma come se avesse ansia di andare oltre. Il suo primo passaggio alla prosa, intravisto nei poemi più lunghi, come l’Onjegin, Il conte Nulin, La casetta a Kolumna, è Il negro di Pietro il grande, storia del bisnonno materno africano, adottato dallo zar, per cui attinge dai documenti familiari; si snoda tra Francia e Russia con una spettacolare capacità di affreschi storici e descrizioni in dettaglio, attenzione a tutti i gradi della società, degli ambienti, dei costumi, delle menti, maggiore di un ritrattista olandese, e purtroppo resta incompiuto, dopo una veloce scrittura di pochi mesi, nel 1827. Si può leggere tradotto da Leone Ginzburg, nella raccolta curata da Angelo Maria Ripellino per Einaudi nel 1958, poi ripresa da Mondadori, dove l’altro traduttore è Agostino Villa, con Alfredo Polledro che volge La figlia del capitano; oppure nella raccolta più recente di Annelisa Alleva per Garzanti, (1990, 2011).

 


Non c’è una storia uguale all’altra, che pennelleggia in due tratti all’inizio, facendoti capire subito che è anche emblematica, da trarne serie una dopo l’altra, e che lui le sta inventando, anche se non le scriverà: nemmeno una è trascurabile, corta o lunga che sia. Nessuna parola inutile, tutto corrispondenza di senso, verità, immaginazione, intelligenza, bellezza, dolore e sogno, visione affondata nella realtà, scintillante nella fantasia diurna e notturna. In poesia, porta a noi l’inesauribile varietà del mondo, per mezzo di una eccentricità di aspetti che ci suonano come in arcani ricordi delle potenzialità della lingua, se li ascoltiamo nelle traduzioni ardite, sincroniche d’usi desueti e sintassi ultra-estrose, e totalmente inattuali – perciò per sempre – di Tommaso Landolfi, per cui andavo allora elencando le conversazioni delle belle Natalie, delle astute Parasce, delle vecchie balie russe piene di racconti; i cupi ardori degli eroi del Caucaso; i sospesi silenzi delle steppe; il sopito biancore delle nevi o il loro turbinare; lo scorrere dei ruscelli, il fragore delle cascate, lo scatenarsi dei flutti sugli scogli marini, lo sciabordare delle onde contro gli scafi nel mar di Crimea; gli incanti delle alcove; gli aromi voluttuosi e soffocanti degli harem; le architetture squillanti bianco rosate dell’italiana Pietroburgo, d’improvviso sommersa dalla Neva in un’alluvione che distrugge l’ordine e porta alla follia; i clangori della battaglia di Poltava, l’affresco storico dove serpeggia la passione demoniaca di Mazeppa; lo sciabolare secco dei duelli e la veloce obbedienza al Fato che domina il nostro poeta; i tonfi dei passi del convitato di pietra nel Don Juan; le canzoni selvagge degli zingari, simbolo di una libertà che segue la natura, e nessun’altra legge. Forse Leopardi non avrebbe apprezzato allitterazioni allappanti la lingua, quali «Laggiù dove l’Aragva corre tra rive ombrose», «Non egli alle istigazioni del Cane », «Traverso il fuoco dei trinceramenti rompono gli svedesi», o, in orecchio alle Odi barbare di Carducci: «Ho sotto il Caucaso. Solo nell’alto / Sto sulle nevi al limite dell’erta»; né riflussi dalle orde tartare dei Canti conviviali di Pascoli, dall’ispido Tommaseo dei canti serbo-illirici, né da stilemi dannunziani.


Ma come tradurre, se non offrendo infiniti preziosi prestiti italiani, ai suoi registri infiniti, di autentico vampiro della vita, della parola, e della loro musica? Con Landolfi, Puškin porta alle liquide fonti della poesia non solo attraverso l’aulico, il sublime, lo stravagante alto e tragico. Ma anche con i giochi lievi delle filastrocche, delle ripetizioni delle fiabe. Che meraviglia, nella favola dello zar Saltan e della principessa cigno, questo ritornello, che ricorre sempre variato: «Questo, udite, sì è un bel fatto:/ Un abeto, e uno scoiatto/ Che sott’esso canti canta/ E rosicchia noci intanto,/ Ma non già comuni: d’oro/ Fino invero è il guscio loro/ E smeraldo n’è il gheriglio;/ Questo, questo sì è prodigio ». Tutto il sapore della fiaba italiana nella nostra lingua si mescola con quello della fiaba russa e orientale. Il prodigio, come sempre, è quello di un’immaginazione a livello della Fiaba: più capriccio rispetto a Novalis o Nodier; d’arabesco e gioia, gioco e coup des dès, sperdimento nel destino. Schiacciato dallo stesso Fato onnipresente nella sua poesia, tracciato nell’Onegin, tramato dei giochi inesorabili della sorte ai quali non si sottrae, Puškin insegna la profondità e la leggerezza. La sua varietà, tutta insieme, è rimasta senza seguito. Lontano dal volgo, non dal ‘popolo’ è lo statuto dei suoi poeti non asserviti a calcoli né a moralistici diktat: «Non pel profitto, non per le battaglie,/ Noi siamo nati per l’ispirazione,/ Pei dolci suoni e le preghiere».

 

Immagine di copertina
Photograph: Bridgeman Art Library (The Guardian)

 

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