Rapporto è la parola che più di ogni altra descrive il senso di questa nuova iniziativa di Tobia Scarpa, Luciano Benetton e la Fondazione per la città di Treviso; perché la parola “rapporto” viene e fuoriesce incessantemente dalle relazioni, dalle parole, dalle idee e dalle immagini, nonché dalla storia, dal contesto urbano in cui il progetto va ad insistere e, quindi, dal progetto stesso.
Innanzitutto, si va a ricucire il rapporto con la storia del complesso di S. Maria Nova, così accidentata e lunga, da confondersi a volte con quella del confinante monastero di Ognissanti; e in effetti, dopo il Decreto Napoleonico del 1806 che sopprimeva gli istituti religiosi a favore dello Stato, il loro destino divenne unico ed insieme vennero trasformati prima in ospedale militare, poi in caserma e, infine – oramai dopo la Seconda Guerra Mondiale e quindi dallo Stato Italiano – in sede provinciale dell’Intendenza di Finanza, che ha avuto in uso il complesso fino alla cessione nel 2009 alla Edizione Property, soggetto della famiglia Benetton e della Fondazione omonima.
Immergersi nella storia del monastero cistercense di S. Maria Nova, strettamente intrecciata a quella di tutta l’area urbana, che nell’età medievale andava dalla Porta dei SS. Quaranta (ricollocata nel Cinquecento in una posizione diversa) a quella di S. Teonisto (oggi non più esistente), significa entrare in relazione con un vissuto cittadino che, nel corso del Trecento – il periodo in cui si sono faticosamente sviluppate molte pie istituzioni trevigiane –, è intriso di guerre e scontri pressoché continui fin quasi alla fine del secolo. E tutta l’area a ridosso e, soprattutto, fuori dalle mura – come appunto gli originari complessi sia di Ognissanti che di S. Maria Nova – era spesso sottoposta ai cosiddetti “guasti”, cioè a demolizioni strategiche operate per aiutare la difesa della città, liberando il terreno e che ne facevano, ogni volta, un’area “nuova”, da riformare e plasmare continuamente, in quanto zona allora periferica e di confine.
Per cui le monache, dopo un lungo peregrinare da una sede all’altra, decisero con ragione di preservarsi stabilendosi in un nuovo complesso che edificarono in Contrada Panciera, all’interno delle mura. E in un’area retrostante, offerta dal vescovo, finì per stabilirsi anche il monastero benedettino di Ognissanti (1396). Le due istituzioni, quindi, nate dallo stesso ceppo – l’Ospedale di Ognissanti sorto appena fuori dalla Porta di S. Teonisto per offrire il suo servizio ai più poveri e ai viandanti – ma divise fin dal 1229, con la nascita quindi di due diverse istituzioni religiose, si ritrovarono a condividere gli stessi spazi, poste una vicina all’altra, per poi vedersi fondere insieme, ancora una volta, per volere napoleonico all’inizio del XIX° secolo.
L’intero complesso, quindi, è stato adeguato alle esigenze dell’esercito prima napoleonico, poi austriaco, per essere successivamente ristrutturato sia nell’immediato dopoguerra, a causa degli effetti di un bombardamento del 1944, sia soprattutto nel 1982, per poter ospitare l’archivio cartaceo provinciale dell’Intendenza di Finanza, occupando per intero anche il volume della chiesa. È infatti in questa occasione che è stata inserita al suo interno una struttura in acciaio di tre piani, e tale struttura era rimasta in sede anche dopo la compravendita del 2009.
Ecco, allora, riemergere la parola “rapporto” nelle decisioni che quasi subito vengono prese da Tobia Scarpa quando, sul finire del 2018, riceve l’incarico di redigere un progetto per l’intera area, che sorge appena al di là della roggia presso la quale aveva da poco terminato il lavoro di restauro e riutilizzo dell’ex-tribunale e delle prigioni, trasformati rispettivamente in sede della Fondazione Benetton e luogo espositivo dedicato alla collezione Imago Mundi di Luciano Benetton.
È certamente un mistero come un’istituzione duecentesca – quella di Ognissanti – divisa, smembratasi e poi ricomposta per il solo caso di sorgere su aree contigue, sia ritornata dopo otto secoli nelle fattezze di un nuovo ed unico soggetto, anch’esso attivo al servizio della città.
È certamente uno di quei misteri che solo la Storia è capace di offrirci, ma che spiegano ancora una volta come le vicende umane siano un continuo intreccio di legami, che si sciolgono e poi si riannodano con il risultato che la città, anche nel suo aspetto fisico, assume una nuova forma, conforme ai quei legami, che in definitiva non sono che un altro modo di dire “rapporto”, “relazione”, e quindi “comunità”.
Consapevole della necessità di stringere un nuovo “nodo” con il passato materiale del complesso e della chiesa di S. Maria Nova, Tobia ha preso la decisione di mantenere in posizione quella struttura in acciaio e quindi di riutilizzarla nell’allestimento dello spazio espositivo previsto per quel fabbricato.
Ora, è interessante notare come inizialmente l’idea della Fondazione fosse quella di realizzare un museo della lana e solo successivamente, a progettazione già largamente avviata, la destinazione è cambiata in un luogo che parlasse alla città e al mondo dell’opera di Carlo e Tobia Scarpa, così ben rappresentati in tutto il territorio trevigiano e dintorni. E il cambio di destinazione – a dimostrazione che i legami che l’uomo crea vanno ben al di là della contingenza, trovando la loro vera ragione nel confronto sincero e serrato con le persone, la storia e la presenza attuale di quel manufatto – non ha mutato la sua impostazione né strategica né operativa.
La struttura in acciaio, quindi, è stata mantenuta e ricalibrata allo scopo non solo di realizzare i piani espositivi, ma anche per definire la giusta distanza tra l’involucro originario della chiesa e il lavoro di assemblaggio che Tobia ha descritto e finalizzato in tutti i suoi numerosi dettagli, perché fosse chiaro che la sua struttura non è un semplice “rovescio” di un diritto già dato, in quanto quel rovescio, come ci insegna Lacan, è oramai diventato altra cosa, e tra loro non può darsi che un rapporto nuovamente e precisamente costituito.
Ed è curioso, quasi al limite del divertimento – e lo faremo in un successivo testo in modo più esteso –, passare in rassegna tutti i dettagli e cogliere i punti laddove egli ha operato delle trasformazioni, fatto delle modifiche, aggiustato o riarrangiato questo o quel particolare in un imperterrito e impegnativo lavoro di definizione – che significa anche appropriazione –, non solo dell’intero invaso della chiesa, ma precisamente di questa parte in acciaio, che non è stata tenuta per semplice comodità, ma assunta come sfida:
ovvero, la volontà di rendere quella struttura meramente funzionale un corpo finalmente compreso nella sua capacità di espressione e di definizione dello spazio, che scava via dall’interno la pesantezza delle mura (verrebbe quasi da dire la solitudine di quelle pareti lasciate spoglie, perché non più chiesa e quindi private dei segni tradizionali di devozione) e dello stesso metallo per instaurare un gioco di linee, rapporti, dimensioni, materiali, vuoti e distanze che misurano lo spazio in modo sempre diverso, eppure ordinato.
Ma non basta, perché esiste anche – e questa possibilità è stata data proprio da ciò che restava in forma di rottame dentro la scatola muraria – un punto di ulteriore precisione nel trattare l’ultima campata verso l’ingresso, svuotata della precedente struttura, e che vede ora muoversi al suo interno il corpo crescente della scala.
Se ci affacciamo all’ultimo piano, lungo il parapetto, vediamo le aste che si protendono verso la parete di fondo fino a chiudersi nel giunto d’angolo; si rinserrano, lasciando così quell’intervallo aperto alla vista di alcuni dei principi fondamentali dell’architettura: il muro, il telaio e, appena sopra, la capriata.
È la bellezza che si fa semplice materia e che porta a compimento quel senso di affrancamento dal predominio di un principio sull’altro e che lascia lo spazio protagonista nel suo dispiegarsi attraverso di essi secondo un ritmo – altra variazione della parola “rapporto” – non sempre facile da inventare.
I dettagli che definiscono questa opera di assemblaggio sono, come dicevamo, numerosi: innanzitutto la nuova scala, su cui si sono concentrati i primi pensieri dell’architetto, sia nello sviluppo che nella sua posizione, spostata successivamente verso l’ingresso e appesa con i suoi minimi spessori alla struttura in acciaio;
e poi il ruolo e la forma dell’abside, così evidenti nello spazio sacro di una chiesa, ma oscuro e quindi da definire in uno espositivo, tuttavia sapientemente quanto pragmaticamente risolto come invaso destinato alla macchina impiantistica e al volume dell’ascensore, secondo un lavoro di cesello che, rispondendo anche alle preoccupazioni della Soprintendenza, ha saputo delineare un profilo che corre in parte parallelo a quello dell’abside antica, ma con colori e materiali dalla consistenza ben diversa, che creano una vibrazione immaginifica nel momento in cui si percorre quello stretto passaggio, posto veramente tra un passato antico e un futuro ancora tutto da formare; la bussola d’ingresso e il varco laterale, come punti di accesso da mettere in relazione ai movimenti pensati per lo spostamento interno e quindi alla fruizione degli oggetti esposti. Solo così si spiega il lungo lavoro necessario per forgiare il telaio dell’ingresso, arrivando a studiare anche i modi di fissaggio delle lastre di vetro e formare così un punto di vista privilegiato “ad onore” dell’eleganza della scala e dell’opera di controfacciata;
gli stessi elementi strutturali, quali le piattaforme in acciaio, di cui sono stati definiti tutti gli elementi di contorno: parapetti, tagli, profili alle pareti ecc., o le capriate, liberate dal controsoffitto e ridisegnate nelle testate,
oppure ancora le due grandi colonne in pietra, estese a tutta altezza ad interrompere la continuità dei piani di appoggio e solo avviluppate in un recinto di metallo che ne arricchisce il senso, e infine i due grandi canali di distribuzione, usati e mostrati anche come elementi d’”arredo”, e quindi di organizzazione visiva dello spazio; la controfacciata, un tema dal sapore antico ma sempre affrontato con grande impegno dagli architetti del passato, proprio perché “l’altra” faccia, quella visibile dall’interno e che Tobia arricchisce con una composizione di luci spezzate e diversamente disposte, che finisce con lo spezzare pure la rigidità dei telai in acciaio; in ultimo, l’illuminazione e la progettazione delle lampade, in cui la forma sposa la flessibilità d’impiego, fondamentale per tutta l’area espositiva.
Si può quindi notare come, pur partendo da più elementi preesistenti, Tobia abbia offerto di quel fabbricato e di quegli elementi – e dunque di quello spazio – una lettura chiara e precisa, ricca ma di una ricchezza viva e pulsante, che sembra avvicinare quel “rovescio” alla sua essenza – o perlomeno ci fa immaginare che ce ne possa essere una, prossima magari all’anima del suo artefice –.
Un ulteriore segno dell’assemblaggio operato da Tobia lo si ritrova nei telai che egli ha disegnato per mettere in mostra le fotografie in grandissimo formato del Premio Internazionale Carlo Scarpa per il Giardino e dedicato quest’anno ai paesaggi scavati nella roccia della Cappadocia, in Turchia.
E quegli stessi telai verranno poi riutilizzati per le fotografie che entreranno a far parte dell’esposizione dedicata ai due Scarpa, Carlo e Tobia; padre e figlio riuniti insieme, perché nelle vicissitudini della vita è un legame imprescindibile e il rapporto continuo tra di loro è anche il racconto della loro vita, come un diritto e un rovescio che, come abbiamo detto, non si corrispondono, ma sono tuttavia in continuo contatto, in un dialogo fittissimo che qui si rincorre in moltissimi dettagli che non cercano una risoluzione di quel rapporto, ma di viverlo secondo una nuova esperienza; questa volta non solo intima e personale, bensì rivolta al pubblico. E quindi quello di Tobia è un inizio; semplicemente, ma meravigliosamente un inizio, uno stimolo, che spetterà poi a noi tutti saper cogliere e diffondere negli anni che verranno.
E forse è proprio nell’attrazione per questo futuro di là da venire e di cui lui è stato il soggetto promotore – il principio dell’azione – che si nasconde l’enigma la cui soluzione non è data né qui né ora, ma solo nella gittata lunga del tempo.
Cossa ghe xé, pare mio, al de là de’ sto çiel? Çiel, fio.
E al de’ là?
(Caparbiosta/Tobia Scarpa su invenzione di Gigi Cerantola).
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Foto di copertina
Ca’ Scarpa a tutta altezza nella nuova struttura, fotografia di Marco Zanta
J.K. Mauro Pierconti, storico dell’architettura (Waseda University, Tōkyō)
Le sue ricerche più recenti, alcune delle quali ancora in corso di svolgimento, si riferiscono all’opera di vari architetti: Richard Rogers, Zaha Hadid, Itō Tōyo, Fujimori Terunobu, Kenzō Tange, Shirai Seiichi, Carlo Scarpa, F.L. Wright, Otto Wagner, Tobia Scarpa e una monografia sul Santuario di Ise.
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