Esaurita la forte spinta propulsiva, nelle crepe dell’avanguardismo si insinuarono vicende e pratiche diverse. Anticipazioni di quel che sarà il Postmoderno si hanno nella musica di Berio, quando ricorre a forme di canzoni e di danze (come nei Folk Songs) e quando supera il tabù del pensiero seriale e utilizza l’ottava e la ripetizione (Sinfonia è un pezzo esemplare del vagabondaggio nella storia della musica). Anche Castiglioni, con modalità del tutto differenti rispetto a quelle di Berio, recupera un senso tonale e l’uso della citazione, anticipando, in maniera intuitiva, molti gesti sonori della generazione successiva. Anche i cambi di rotta, durante gli anni Sessanta, di Stockhausen e di Pousseur, in altre parole di autori che avevano elaborato in maniera stringente e radicale il puntillismo sonoro, sono assai indicativi, su tutti l’impurità degli objets sonores trouvés di Hymnen, pezzo che si contrappone, in modo stridente, alla ricercata purezza del post-webernismo. Pure alcuni tratti dello svizzero Klaus Huber, come la narratività, il teatralizzare la citazione, dando a un tema musicale il carattere simbolico di personaggio, rientrano nella retorica del discorso che interesserà al Postmodern. Anche la parabola di Dieter Schnebel è assai emblematica, infatti il compositore passa da una sorta di metalinguaggio sperimentale a parafrasi su temi storici nello spirito della post-modernità (come in Beethoven Sonate del 1970).
Anticipi del cosiddetto “molteplice” (di cui tanto si è parlato negli ultimi trent’anni) si hanno nel montaggio di citazioni del tedesco Zimmermann, un assemblaggio che nega il principio di consequenzialità, così come in molti brani degli inglesi Maxwell Davies e Birtwistle. Altri elementi che saranno indicativi per lo stile degli anni successivi si trovano nel Minimalismo, ad iniziare dal famigerato pezzo di Terry Riley In C. Lo stesso jazz, da quello di Coltrane al free, fornisce non pochi tesori al bottino che gli ultimi tre decenni ruberanno alla modernità (la figura di Gaslini) è, non solo in Italia, indicativa a tal proposito). È la riscossa di Stravinskij, prima irriso in nome di una limpidezza linguistica astratta e assoluta. Proprio la rivalutazione del maestro russo è la spia di una mutazione critica.
Anche negli Stati Uniti, sul finire degli anni Sessanta, un gruppo di giovani compositori si ribellò a ciò che Babbit definiva “le attività complesse delle avanguardie”, fra questi David Del Tredici, Lukas Foss, Georg Crumb, William Bolcom e altri che adottarono un’orchestrazione simile a quella straussiana, usando citazioni riprese dalla musica barocca, classica e romantica, facendo tornare in auge la tonalità, scendendo sul terreno comune ai musicisti della vecchia tradizione, con la differenza però che questi ultimi avevano compiuto solo l’esperienza dello stile consolidato, mentre i giovani venivano dall’aver sperimentato gli stili del Moderno e questo attraversamento risultò fondamentale non solo per la maggior consapevolezza del proprio pensiero e prassi artistica ma anche per un più scaltro uso degli stilemi storici.
Lo studium è naturalmente importante che sia attento, sollecito, profondo e intenso, ma se non è colpito dal punctum diventa apatico, come se lo studio fosse un problema di educazione culturale. Come scrive Barthes il punctum è quella fatalità che, durante lo studio, mi punge e mi prende e mi permette di accedere a un infra-sapere, a un sapere esperiente diverso da quello dell’analisi razionale; è quel supplemento intrattabile dell’identità che ti permette di cogliere l’aria di un volto, la luce di uno sguardo, la scintilla dell’avventura, è quel quid che anima ogni riuscita opera d’arte che comunica la pienezza dell’Essere. In arte si parlava di “ispirazione”, parola proibita dai guardiani di una concezione iper-analitica, ma anche dagli ideologi della sociologia dell’arte per i quali l’operare doveva essere relazionato pressoché esclusivamente al contesto socio-politico e l’opera risultava essere un rispecchiamento del mondo ad essa circostante. Nella condizione postmoderna si può finalmente tornare a parlare di capacità creativa, di talento, di fervore, di estro e perché no? Di “genio”, ovviamente senza i contorni romantici ma intendendolo in maniera etimologica ossia come una vocazione, una dote insita nei fortunati, una grazia ch’è molto difficile da descrivere ma che si sente benissimo!
Scrivere non consiste solo nel perfezionare forme e tecniche, ma la scrittura è l’approccio a quel punto in cui non si rivela che il suono in sé. Il tempo del suono è una con-temporaneità di essere stato, essere presente, essere immanente, essere futuro. Questo molteplice del tempo si ritrae nel suo dischiudersi. È proprio nel ritirarsi che sporge e comunica. Occorre consacrarsi all’opera: il fatto essenziale non è quello di costruire un’opera, ma di abitarla, di abbracciarla, di sentirsi chiamato da lei. Il suono possibile ritorna subito nel silenzio: è dove viene meno, come il Dio ebraico. Questo venir meno del suono, nel momento in cui si concede, è l’autenticità del dire. Troppi musicisti, compositori e interpreti, non sanno ascoltare il suono.
Alla cosiddetta avanguardia strutturalistica e cageana ha risposto ciò che è stato chiamato Postmoderno, il quale, proprio come aveva fatto la Neue Musik, riproduce al suo interno tutti quei meccanismi che portano all’omologazione del genere e al consolidamento di alcuni sotto-generi. Il termine Postmodern deriva dall’inglese e viene applicato alla critica letteraria fin dal 1971 (col libro di Ihab Hassan, stampato a New York, e intitolato Post-Modern Literature) e contemporaneamente è usato in sociologia e nell’architettura degli anni Settanta1 che ha, come caratteristica saliente, quella dell’utilizzazione pragmatica degli elementi storici, usati in toto e simultaneamente. Il saggio dell’architetto inglese Charles Jencks, The Language of Post-Modern Architecture, dichiara di affidarsi alla citazione di stilemi, quali la colonna, l’arco, il timpano etc., che il modernismo aveva rifiutato. Seguendo un nomadismo sempre più in superficie, si arriva al gusto del patchwork.
Elemento tipico del Postmoderno è la citazione, la quale viene spesso abusata e inserita a sproposito: citazione non vuol dire riproposizione minuta e compita delle tecniche del passato, in un compassato e tranquillizzante omaggio alla tradizione, ma è ripetizione differente, non c’è citazione senza presa di distanza; come dice Derrida, la citazione è un’operazione volta ad aprire il testo e a creare piani diversi. Secondo la terminologia, la radice verbale latina cieo vuol dire “chiamo fuori”, riprendo un elemento e lo porto a me, lo faccio mio, interiormente, contestualizzandolo, filtrandolo e riproponendolo seguendo il presente.
Il Postmodern s’impose prima negli Stati Uniti poi in Europa; il termine è piuttosto ambiguo e dà adito a varianti terminologiche e concettuali (come Modernismo tardivo, Transmodernità, Metamodernità, etc.) e ad accezioni differenti che comunque rimandano a un passaggio e a uno stratificato rapporto fra Modernità e post-modernità. Nel tragitto si perdono l’estetica della novità e lo storicismo legato alla concezione lineare del tempo, a favore di un pragmatismo eterogeneo e di una pluralità linguistica e stilistica che ingloba ogni sorta di citazioni (temporali e spaziali), nulla si butta e tutto viene ri-utilizzato. È la rivalsa del piacere, dell’amabilità e della fascinazione sonora, contro il duro impatto dello sperimentalismo, una piacevolezza costruita facendo ricorso agli elementi tradizionali della melodia, della consonanza, dell’armonia tonale, dell’andare e venire dalla storia.
La cifra peculiare di molti compositori postmoderni sta sotto il segno della dimenticanza del passato prossimo, i conti si fanno con i musicisti del tardo Ottocento e primo Novecento, saltando le avanguardie. Si assiste a un impoverimento della ricerca che fa essere l’arte più immediata, basata su un’ampollosità del raccontare e del descrivere. S’è parlato di “parola innamorata” per la letteratura2, similarmente potremmo dire per la musica di un suono innamorato del suo autore, di un suono ben pettinato, al quale non interessa instaurare una credibile comunicazione, ma vuole piacere per come si presenta. Il vestito fa il monaco, eccome!
Il 1976 potrebbe essere considerato – simbolicamente – l’anno di nascita della post-modernità in musica: a Darmstadt si esegue la Sonata per violino solo dell’allora giovane von Bose. Le prime affermazioni di questo nuovo stile musicale trovano la loro consacrazione, nel 1979, quando la Rivista «Neue Zeitschrift fur Musik» pubblica un numero dedicato a un movimento che prende il nome di Nuova Semplicità e che ha caratteristiche tecniche molto vicine a quelle del poema sinfonico straussiano. Si tratta di un gruppo di compositori, come Rihm, Trojan, von Bose, che proclamano la finis avanguardie, recuperando immagini orfiche e narcisistiche, attraverso l’uso della citazione, dove il temps perdu è quello della soddisfazione, secondo il detto terribile che soltanto i paradisi perduti sono veri paradisi.
Durante gli anni Ottanta, certi atteggiamenti stilistici decisamente legati all’affermazione del Postmodern si incrociano con quelli di autori che gravitano su poli differenti, per esempio certe opere di Rihm scritte alla fine del decennio (come Achtes Streichquartett) o certe di Louis Andriessen sono sì distanti, ma anche complementari a quelle dell’ultimo Nono, o dell’ultimo Boulez o di Ligeti o del Lachenmann di Accanto o del Kagel di Nord-Ovest, di Pärt, di Gorecki, di Sciarrino, creando una sorta di koiné ai minimi termini, un esperanto ridotto, un piccolo dizionario di suoni minimali o nascenti, di silenzi e riverberi, di micro-intonazioni e soffi, di leggeri rumori e gesti raccolti, di rinnovata attenzione allo spirituale e allo stile meditativo; si tratta di un lessico musicale che è il risultato di un enigmatico incontro fra esperienze differenti che, nel crogiolo delle difformità trovano uno spazio/tempo comune per convergere su alcuni aspetti, figure e fogge, che costituiscono un patrimonio complessivo che può essere preso a punto di riferimento di una nuova e(ste)tica musicale alla quale molti faranno riferimento durante il decennio successivo. (fine seconda parte)
Renzo Cresti
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Note
1 L’architettura degli anni settanta è molto indicativa: sempre meno legata ai grandi racconti e sempre più all’utilizzo del computer nella progettazione, un’utilizzazione che delega a programmi pre-formati la risoluzione meccanica del progetto, cosa che porta a una sorta di accademia globale, nella quale la ricerca della personificazione lascia il posto a un’accozzaglia di stilemi i più disparati, cosa che fa dire ad Arthur Danto che l’arte è finita, intendendo, in realtà, la fine dell’estetica, poiché non vi sono più regole vincolanti a indicare cosa debba essere un’opera d’arte, da qui l’esigenza che l’estetica si contragga in etica.
2 Come dimostrano le antologie Il pubblico della poesia, curata nel 1971 da Berardinelli e Cordelli, La parola innamorata pubblicata nel 1978 da Pontiggia e da Di Mauro, Poesia italiana degli anni Settanta, a cura di Porta, uscita nel 1979, Lo sparviero sul pugno di Lanuzza del 1987: in molti dei testi pubblicati si nota la presa di distanza dallo sperimentalismo per approdare a quelle Poesie scritte col lapis dell’allora giovane Moretti (alle quali si aggiunse “da cancellare con la gomma”). Altro che neo-romantici, questi col vero romanticismo nulla hanno a che fare, ribellione e dolore, sofferenze e ansie, pessimismo e ossessioni non le troviamo proprio, sono state sostituite da una placida accettazione dell’esistente.
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