In Italia il dibattito sulla musica postmoderna iniziò negli anni 1980-81; in questo periodo vennero organizzate diverse manifestazioni dedicate alla musica dei giovani compositori di allora: nell’autunno del 1980 a Reggio Emilia, nella primavera del 1981 a Venezia e nell’estate di questo stesso anno a Certaldo3. Un contributo venne fornito dai primi numeri della rivista «Musica/Realtà» che propose interviste a coloro che si auto-battezzano “neo-romantici”; si può citare, a titolo esemplificativo della posizione ideologica, ciò che scrive Marco Tutino: «noi neo-romantici nutriamo un’avversione atavica e giurata per il linguaggio preciso e scientifico […] O sentimenti! O passioni! […] L’unica maniera di essere capiti è strettamente legata all’unica maniera di essere graditi.» Fa da spalla a questa posizione Carlo Galante che vede nella piacevolezza il modo «per ritrovare un rapporto positivo con il pubblico», mentre Giampaolo Testoni vuole «riacquistare il senso e l’aspirazione alla bellezza». Fra coloro che, pur nelle diversità individuali, si sono riconosciuti in questa impostazione vanno citati anche Lorenzo Ferrero, Carlo Pedini, Paolo Ugoletti, Luca Mosca e altri.
A parte che la problematica sulla bellezza è annosa e complessa, il rifarsi alla piacevolezza è tipico del pensiero debole, nell’ottica ludica non si riesce neanche a esprimere il piacere – il sostantivo che indica un’essenza – ma solo la piacevolezza, l’avverbio che alleggerisce. Socrate diceva che «difficili sono le cose belle», difficili perché non risolvono facilmente nel banale e nella piacevolezza. Il vecchio cane Argos, disteso sul letame, è bello perché riconosce subito il padrone. Il bello ha la stessa radice di buono – bellu(m) è un diminutivo di bonus – ma l’abbinamento del bello col buono non appartiene solo al pensiero greco e a quello del cristianesimo medioevale, è proprio anche del senso comune che dice infatti “bella azione” o “bel gesto” (Giovanni chiama Gesù “il bel pastore”). Il bello richiama dunque un atto di cor-responsabilità, un co-operare, un agire per l’altro. Nulla di tutto questo traspare nel richiamo alla bellezza degli autori neo-romantici che confondono la bellezza con la piacevolezza e la musica viene intesa nei suoi aspetti epidermici, per cui la composizione diventa un prodotto ben confezionato.
I rampanti musicisti neo-romantici, nella Milano che negli anni Ottanta venne chiamata “da bere”, erano tutti presi dal tentativo di inserirsi nei circuiti commerciali; di questa fase poco è rimasto, perché troppi furono i brani scritti à la manière de, troppo esplicita la ricostruzione delle atmosfere fin de siècle, troppo insistita la citazione che diventò uno standard espressivo banale, troppo compiaciuto il gusto retrò e troppo carezzevoli le melodie en rose. Solo coloro che riuscirono a mediare la galanteria di una musica troppo accondiscendente con l’insopprimibile esigenza alla ricerca e alla tensione interiore, furono i musicisti che si salvarono dal naufragare dolcemente nel mare delle banalità.
Il compositore neo-romantico è un musicista non del mondo ma della mondanità, furbo e cinico, intende la molteplicità in senso quantitativo e si lascia prendere dal luccichio delle cose, non essendo capace di approfondire produce una musica easy, da arredo metropolitano, che sta ai bisogni interiori dell’uomo come il supermercato sta alla fame del mondo. Produce uno stile che si sintonizza facilmente sull’effimero, una musica che ha una linea, indossa un abito, ma non ha valori, è come svuotata, gioca non sulla leggerezza dell’essere ma sulla sua banalizzazione.
Per i compositori neo-romantici il mare magnum dell’eterogeneità contemporanea è un terminus ad quem, come in certa fusion che fa suoi i termini della globalizzazione, presentando brandelli di musiche in una semplice carrellata di suoni sentiti e non vissuti, fagocitando tutto e realizzando un pastiche, un mosaico di pietruzze colorate che strizzano l’occhio ora al jazz ora all’etnica, creando un continuum sonoro che ricorda la musica degli spot pubblicitari4. Alla prassi delle citazioni e della contaminazione manca la consapevolezza dell’erranza, quella coscienza del viaggio che fa diventare la musica vera e partecipata (un caso di consapevolezza del viaggio attraverso culture diverse è la musica totale di Giorgio Gaslini, un esempio di sintesi vissuta fra stili classici, africani, jazzistici, contemporanei).
In molta fusion, così come nella new age, si nota una mancanza di vissuto e un’ambiguità di fondo sia a livello culturale sia a livello sociale, con imbarazzanti cadute di stile e altrettanti capitomboli nel commerciale. Si verifica ciò che Ivan Della Mea denuncia per le tante tendenze neo-folk che sono fuori dal contesto socio-culturale; infatti molti musicisti sanno suonare uno strumento legato alle tradizioni popolari, chitarra, percussioni, fisarmonica, organetto, ma lo fanno senza supporto critico con le dinamiche ambientali e culturali che hanno dato vita a quei suoni.
È da sottolineare l’importanza che hanno gli interpreti che sono riusciti a interloquire con i compositori, in alcuni casi assumendo il ruolo del co-autore. Come per le ricerche tecniche compositive, anche per quelle relative all’esecuzione negli anni recenti si è bloccato lo sperimentalismo e si tende a un uso più calibrato delle particolarità strumentali sempre tese alla scorrevolezza del fraseggio e alla ricerca del bel suono.
Bisogna dimostrare di essere veramente usciti dal Novecento abbandonando tutte le vecchie norme, generi e stili, tecniche e forme, oltrepassandole5. Questo abbandono non coincide col disimpegno, come per gli artisti della yuppie-generation, che non viaggiano più e che hanno tradotto la frenesia on the road nell’integrazione della società del guadagno: «più che muoverci facciamo la tana» – scrive David Levitt nel suo celebre saggio Our Lost Generation – «vogliamo far carriera, belle case, impegni appaganti, buoni amici di entrambi i sessi. Vogliamo la Gold Cart dell’American Express». La prima fase del Minimalismo aveva come riferimenti geografico-culturali le praterie del centro degli Stati Uniti (che erano ancora il simbolo dell’uomo libero) e gli spazi enormi dei grattacieli delle città delle coste. Gli anni successivi cancellano del tutto l’illusione della libertà: «il sogno americano è finito, l’utopia è realizzata, ossia la punta massima del benessere economico è riuscita a soffocare l’individuo»6. Si confessa Andy Warhol nei suoi Diari: «sono andato in chiesa e ho pregato dio di avere molto denaro». Oggi le praterie del west, quei vasti spazi liberi descritti da Copland, appaiono color seppia, il Minimalismo originario della west coast, quello di La Monte Young, ha lasciato il posto a quello newyorchese dove la vita stessa è diventata minimale e gli stessi procedimenti compositivi si sono assai commercializzati, come in Eno e in Glass; per questo Nyman, nel suo libro Experimental Music, ha definito il Minimalismo una sottocategoria della musica intesa come processo.
Nel Moderno le strade principali riguardavano la ricerca tecnico-formale, chi non le ha percorse si è trovato in una posizione marginale perché la storia e la geografia vanno attraversate con passione nella loro totalità, solo l’attraversamento dell’intera rete consente di vivere appieno il proprio tempo/spazio, di avere consapevolezza del territorio e di conoscere a fondo l’ambiente in cui si vive. Nel Postmoderno le strade principali riguardano la comunicazione; la strada della ricerca non è ovviamente sparita, ma è diventata una deviazione rispetto all’asse principale. Non è facile vivere il proprio spazio/tempo con consapevolezza e con naturalezza, chi si è incamminato in una certa direzione fa fatica a cambiarla e tende a conservare i paesaggi (interiori) e i valori e(ste)tici che erano tipici del vecchio percorso. Occorrono antenne sensibilissime per captare i cambiamenti, perché avvengono con una velocità tale che può mettere in difficoltà chi non ha la mente pronta e prensile. Chi per carattere o per educazione ricevuta o per atteggiamenti ideologici cammina su una sola strada e giace nelle proprie convinzioni è colui che resta privo d’orizzonte e si perde nei labirinti dell’attualità. I compositori che non hanno metabolizzato il cambiamento epocale del passaggio fra Moderno e Postmoderno e non riescono a metabolizzare i continui micro-mutamenti che avvengono in ogni presente rappresentano la zavorra alla spinta del cambiamento, sono i conservatori più o meno coscienti di esserlo, coloro che sono sempre stati chiamati ‘accademici’ non per i titoli onorifici ma per la vana esibizione del proprio esercizio.
L’analisi è importante, ma bisogna tener presente che non è il particolare che fa il capolavoro ma il suo insieme, il quale non è affatto la somma dei particolari ma un quid in più e comprende anche gli umori, le inclinazioni, le fantasie, gli stati d’animo del compositore e dell’ascoltatore. Le metodiche formatesi durante il Moderno hanno una mera funzione descrittiva e statistica, applicabile all’esercizio dello studente come all’opera eccellente. Jung dice che quando si osservano le pietre di una cattedrale non si ha un’idea della maestosità dell’architettura e che quindi si compie un lavoro più da geometra che da artista o da amante dell’arte; gli fa eco Adorno quando scrive che più ci si concentra sulla microstruttura è più l’opera diventa astratta, perdendo il valore dell’unità stilistica ch’è forma e messaggio, tecnica ed espressione inscindibilmente unite. Le vecchie metodiche raccolgono solo dati che al massimo possono spiegare certe scelte del piano di lavoro, ma non la differenza fra un compitino e un grande atto artistico. Occorre abbandonare la morfologia del sistema e le metodologie formalistiche per passare alla percezione globale della forma e al senso sonoro dell’insieme.
Vi sono stati vari tentativi di rivalutare l’ascolto (come quello del cosiddetto Spettralismo) di cui si è interessata la psicologia della musica, ma tutti sono stati realizzati con un’ermeneutica colta, che guarda il ‘fenomeno musica’ dall’alto di un sapere scrupoloso e para-scientifico; mettersi dalla parte della massa era considerato indegno, ma dagli anni Ottanta in avanti chi non ha percorso questa strada si è trovato inevitabilmente fuori dalle grandi traiettorie delle nuove emergenze, dei recenti intrecci relazionali e comunicativi.
Oggi viviamo la fase quarta, per riprendere il titolo del famigerato libro di Mario Bortolotto, Fase seconda: la prima fase era quella di Dallapiccola e Petrassi, la seconda era quella di Berio, Nono, Donatoni, Clementi fino a Castiglioni, oggi tutti questi maestri sono morti e le loro musiche sono storicizzate (il noto musicologo si è fermato qui). Per la fase terza dobbiamo analizzare la generazione che nasce fra la fine degli anni Trenta e l’inizio dei Cinquanta; ci si accorge di una circolazione di idee e di fatti talmente forte da esaltare il concetto di intreccio; la legittimazione sociale di questa schiera di compositori è assai difficile perché essa appartiene al lato in ombra della musica che viene generalmente diffusa e ascoltata (quella di repertorio che è pressoché l’unica che teatri, istituzioni e associazioni italiane programmano); detto questo possiamo fare alcuni esempi: la figura di Azio Corghi ha assunto un rilievo importante, anche a livello didattico. Quella di Salvatore Sciarrino è stata ed è una delle personalità che più ha influito sui giovani compositori, oltre ad aver ottenuto un avvallo critico a livello internazionale. Anche Fabio Vacchi, soprattutto con la sua produzione teatrale, ha ottenuto un successo che va oltre la nicchia dei cultori della cosiddetta musica contemporanea. Riconoscimenti prestigiosi hanno ottenuto, fra gli altri, Giorgio Battistelli, Ivan Fedele, Luca Francesconi e forse qualcun altro, ma più che un elenco di nomi ciò che conta è appunto l’intreccio di tendenze che caratterizza la fase attuale, alla quale, si aggiungono i compositori più giovani, quelli nati fra gli anni Sessanta e i Settanta, coloro che si sono affacciati nel mondo della composizione in questo inizio del 2000 (compresa una nutrita schiera di donne che, finalmente, possono essere parificate agli uomini non solo dal punto di vista tecnico musicale ma anche sociale).
Sui compositori della fase quarta si addensano delle perplessità, in quanto: non si sono potuti giovare dell’insegnamento diretto dei grandi maestri ma dei loro allievi; hanno studiato nel periodo della contrapposizione (ideologica) fra Moderno e Postmoderno; sono stati inconsapevolmente schiacciati da un’educazione formalistica/costruttivista e dalle nuove esigenze espressive che hanno assunto acriticamente; si sono e si stanno muovendo in una sorta di via di mezzo che in arte non paga, infatti, non sono riusciti a produrre opere degne di rilievo, non è un caso che fra i compositori quarantenni nessuno abbia acquisito quell’autorevolezza che invece possedevano i musicisti delle generazioni precedenti (pensiamo a Sciarrino e prima a Berio, Nono, Donatoni etc.); sono stati fin troppo affascinati dai mezzi elettronici e dalla world music. Tecnicamente si assiste a un’omologazione imbarazzante; non si tratta solo di un recupero in toto del sistema tonale, ma soprattutto di mancanza di vissuto, di assenza di quell’energia vitale che aveva fatto della composizione italiana della seconda metà del Novecento una delle più interessanti al mondo. Ovviamente c’è chi dimostra talento, chi ha un’intelligenza lucida e chi si è già guadagnato una buona posizione nelle considerazioni critiche, ma non è questa la sede per una disamina sulle singole traiettorie artistiche, qui è interessante sollevare alcune problematiche.
La tecnica è condizione indispensabile per creare un’opera d’arte che deve dar ragione del suo costituirsi, del suo come, ma anche e soprattutto del suo cosa e del suo perché (non in maniera letterale ma vissuta)7. Molti compositori dovrebbero fare come il protagonista che dà il titolo all’opera di Pfitzer Palestrina il quale si domanda “a che scopo?”. Se scrivono per se stessi o per esternare un mero esercizio tecnico-formale ogni discorso si chiude nell’autoreferenzialità e al massimo se ne apre uno psicanalitico, se invece vogliono comunicare hanno completamente sbagliato strada e devono riposizionarsi, perché la via intrapresa li porta, per usare un’espressione di Boulez, ai “confini con le terre fertili”. Il deserto si trova spesso proprio nei luoghi istituzionali, come le università e i conservatori, ma attenzione, il posto fiorito e florido non si trova nei luccicanti foyer o sugli schermi televisivi e cinematografici o sulle pagine dei mass-media, è un luogo della mente dove storia e geografia s’intrecciano a esigenze etiche vissute, le sole che si possono far garanti di rispondere alla domanda “a che scopo?”, allo scopo di dialogare con gli altri, in un vero scambio di energie e di idee, di passioni e di progetti, seguendo il saggio il quale dice che l’arte non è fine a se stessa ma ci è data per fare la vita più bella e più consapevole.
Renzo Cresti
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Note
3 Il festival «Luglio Musica» di Certaldo fu da me diretto dal 1981 al 1984; da qui passarono la stragrande maggioranza degli allora giovani compositori; contemporaneamente diressi anche, insieme ad Aldo Brizzi, il festival «Proposte musicali» di Acqui Terme, dove si svolse una nutrita e animatissima tavola rotonda sul tema affiorante del neo-romanticismo.
4 Prassi pluristilistiche si erano avute anche negli anni Sessanta, ma in chiave caustica o di protesta (soprattutto attorno al ’68) o comunque che prendevano le distanze dal fare comune, mentre nel Postmoderno l’importante è proprio il riferimento alla koiné in quanto suono già sentito, è la stucchevole utilizzazione dell’esistente che deve farsi garante di un ascolto senza problemi (socialmente regressivo in quanto non fa pensare, non pone domande).
5 Nella sua conferenza al New England Conservatory del 10 marzo del 1993, Ligeti così si esprimeva: «Scrivere melodie, anche melodie atonali, era assolutamente tabù. Ritmi periodici e pulsazioni regolari erano impossibili. La musica doveva essere a priori. Funzionò finché fu una novità, poi divenne vieta. Ma non si può tornare semplicemente alla tonalità, non è la via giusta. Dobbiamo trovare un modo per non tornare indietro senza proseguire sul cammino dell’avanguardia. Sono in una prigione: un muro è l’avanguardia, l’altra è il passato, e io voglio fuggire.»
6 C. Calabrese, Il minimalismo, rivista «Pietraserena» nn. 34/35, Signa (Firenze), aprile 1998. Negli anni Ottanta, non solo in America, ma in tutto il mondo industrializzato, si afferma la yuppie-generation o no-generation o video-generation.
7 Su queste problematiche cfr. R. Cresti, L’arte innocente, con cdrom, Rugginenti, Milano 2004 e Fare musica oggi, Del Bucchia, Viareggio 2011. www.renzocresti.com
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