RIVISTA DI CULTURA MEDITERRANEA

Beck: nell’iperspazio di un (iper) moderno musicista americano, di Antonio D’Este (prima parte)

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Beck, 2012 (Enciclopedia Britannica)

 

Nell’arco di poco più di mezzo secolo, nel vastissimo e variegato universo della musica di intrattenimento e nelle sue diramazioni più curiose e molteplici, sono potute emergere diverse figure che nel corso del tempo hanno fatto venire a galla caratteristiche ed inclinazioni spesso imprevedibili nel loro divenire e mutare.
Nel rock, che ha sicuramente segnato in modo dominante almeno la prima fase nello sviluppo di questi multicolorati scenari, dopo un periodo di invenzioni, assestamenti e modifiche del suo approccio e linguaggio, sono emersi dalla seconda metà degli anni ‘60 e con sempre maggiore determinazione, più musicisti, figure dalle singolari personalità che hanno rivestito significativa importanza nell’ambito della composizione creativa ed in funzione delle innovazioni con essa avvenute.
È grazie, come talvolta succede, ai tentativi o esperimenti di coniugazione e/o fusione di diversi stili, tendenze e sintesi, che tra loro si sono via via manifestate e consolidate figure come, ad esempio, quelle di Frank Zappa e Todd Rundgren.
Sono naturalmente solo due dei molti nomi che hanno avuto il merito, con sicura genialità, di avventurarsi con coraggio all’esplorazione di percorsi raramente battuti in precedenza, laddove prima, in ambiti simili e nonostante qualche tentativo, non si erano riscontrati particolari risultati di rilievo (con l’esclusione, forse, del notevole The Cycle is complete dell’ex Buffalo Springfield Bruce Palmer, ad esempio). E senza che questi artisti sapessero nemmeno, probabilmente, dove questi stessi percorsi avrebbero potuto portare.
Nello specifico, questo accadeva in USA, culla storica del rock.

 

American folk-rock group Buffalo Springfield, (pictured left to right) Dewey Martin (drums), Stephen Stills (guitar, vocals), Richie Furay (guitar), Neil Young (guitar, vocals) and Bruce Palmer (bass guitar), 1960, Atlantic Records (Billboard – Wikimedia Commons)

In Europa, nella seconda metà dei ‘60, gli schemi di queste musica “non ufficiale” e i suoi derivati erano ancora ben ancorati a strutture consolidate che esprimevano talora forme parallele e varianti peraltro piuttosto apprezzabili nei linguaggi quasi esclusivamente generati, legati o mutuati dal rock o dal jazz.
Nel vecchio continente, in questo senso, le figure che in ambito strettamente rock avevano avuto grande rilevanza nei ‘70 – anche nel riscontro di pubblico – credo fossero individuabili in quelle di David Bowie, Robert Fripp, Brian Eno, in primis e, in parte, Mike Oldfield, sebbene in quest’ultimo caso, nei decenni successivi il musicista di Reading fosse andato via via banalizzando nel tempo i contenuti, perdendo credibiltà in termini di coerenza, incisività e profondità.

 

Frank Zappa, Nederlands, 17 giugno 1970, © Fotopersbureau De Boer (Wikimedia Commons)

Frank Zappa, con spirito dissacratorio e iconoclasta, dopo anni di lavoro di bizzarre mescolanze, misconosciuto ai più e spesso osteggiato per i contenuti provocatori dei testi,  a metà del decennio dei ‘70 arrivava a fantasiosi e notevoli lavori di concetto e complesse partiture dove venivano a fondersi le tendenze più varie e disparate, creando così nuove premesse per lo sviluppo di ulteriori innovazioni nei successivi lavori.
Todd Rundgren, con un trascorso essenzialmente caratterizzato da un rock psichedelico alternativo al mainstream e ribelle nelle forme e nelle sonorità, alle prime pubblicazioni del suo gruppo “Nazz”, più tardi grazie al nuovo progetto “Utopia”, ai progetti in proprio e ad un continuo flusso di strepitose idee e mirabili intuizioni, spingeva al limite estremo il concetto di rock con implicazioni impreviste e particolarmente raffinate in termini di tessiture armoniche, elaborazioni melodiche, varietà e originalità ritmiche.
Tutto realizzato spesso nelle più curiose ed eccentriche ibridazioni, con il rock come unico denominatore comune, nell’origine e nei riferimenti.
Lungo tutti gli anni ‘70 e ‘80, se si escludono gli scenari relativi alle aree dell’ elettronica/avanguardia tedesca e americana e quella relativa alla sperimentazione contemporanea presente nei due continenti, non sono emerse altre grandissime personalità di spicco o dotate di particolare genio.
I due, in entrambe le sponde dell’oceano, divennero per molto tempo punti di riferimento per diversi musicisti creativi e per un pubblico – probabilmente nemmeno fatto di grandi numeri – appassionato tuttavia di originalità e continuamente stimolato dalla varietà dei frequenti cambi di rotta nelle esplorazioni dei due musicisti americani.
Sul finire degli anni ‘80 un giovane figlio d’arte da almeno due generazioni, animato da intraprendenza e originale, genuina vena creativa, fece capolino con alcuni lavori autoprodotti, inizialmente distribuiti limitatamente anche sotto forma di cassetta e ridotto numero di copie in vinile.

 

Beck, 27 maggio 2018 (Wikimedia Commons)

Nativo di Los Angeles, ma di origini miste (scozzesi, canadesi, norvegesi e tedesche), il giovane Beck Hansen, in arte Beck, ma all’anagrafe Bek David Campbell, si affacciava così sulla scena nel 1988, con un lavoro intitolato Banjo Story.
Fino al curiosissimo Stereopathetic Soulmanure del 1994 il giovane e versatile compositore, cantante e chitarrista rimase in un relativo anonimato underground ben poco calcato e considerato sia dalla critica musicale che dalle radio FM americane.
Con Mellow Gold nello stesso anno cominceranno tuttavia a definirsi  con più nitidezza alcuni elementi distintivi e caratteristici di questo suo primo periodo. 

 

Beck è senz’altro lontano dalla cerebralità e complessità del genio Zappiano, almeno tanto quanto lo è dall’immediatezza sanguigna e rockeggiante del singolare estro dei “voli” di Rundgren.
Il suo è un muoversi leggero, apparentemente piuttosto disimpegnato e spensierato, allegro, arioso, sfaccettato e con forti connotazioni ritmiche, spesso serrate, frutto dei tempi che stanno cambiando.
Le composizioni si sviluppano oscillando in più direzioni, con brevi e improvvisi lampi di genio e trovate, arrangiamenti a tutta prima insoliti e in superficie “strampalati”, mettendo insieme sonorità acustiche ed elettriche e praticando con frequenza robuste iniezioni di elettronica. Prova anche a mescolare timbriche analogiche a quelle digitali nell’incrocio con le  nuove sonorità sintetiche.
Si fanno più osservabili in Odelay, nel 1996 ( forse il suo primo lavoro di spicco e dotato di una umoristica copertina a corredo ) tracce di blues rurale, rock “controcorrente”, elementi di Rhythm’n’blues, ritmi “house” e “dub”, un uso insolito e obliquo di sintetizzatori e computers, sperimentazioni “bislacche”, tempi funky e talora anche un approccio, un “mood” che a posteriori verrà definito IDM (acronimo che sta per “Musica da Ballo Intelligente” ).
In qualche episodio perfino il rap troverà spazio. Il blues acustico in forma di ballata farà ancora occhiolino nella stracca e divertente Ramshackle. Le recensioni positive su Odelay fioccheranno un po’ ovunque.

Nel 2008, dodici anni dopo, il lavoro verrà ripubblicato in una doppia “Deluxe Edition” con materiale aggiunto. Ma Beck non è solo questo.
Il suo periodico ritorno a una dimensione acustica e scarna, quella che nei ‘60 e ‘70 veniva genericamente denominata “country”, è ancora presente con una certa frequenza e assume le caratteristiche di una certa ciclicità.
Ne è prova Mutations, del ‘98. Chitarra acustica e canto da una parte e, in alternanza, momenti di bizzarria elettrica multiforme  dall’altro.
Questi segmenti in apparenza slegati tra loro e che possono lasciare inizialmente disorientati riescono tuttavia nel tempo a trovare maggiore organicità, equilibrio ed appeal nelle strutture compositive del compositore californiano ed in una forma spesso inusitata e del tutto unica ed originale.
Con Midnite Vultures del 1999, Beck firma per l’etichetta di David Geffen e la distribuzione del lavoro è garantita pressoché in tutto il globo. Il suono è sì “easy”, ma ricco di stili e fresco nelle arie e nelle sfumature, nella bontà e varietà  delle composizioni come nelle occasionali “downtempo” dance songs.

Nel 2002 il giovane americano torna a prediligere le atmosfere acustiche nel pensieroso Sea Change, che rivela anche una convincente vena intimista ben resa in alcune semplici e riuscite composizioni.
Tre anni di silenzio e sarà la volta di Guero.
Il lavoro, ricco di intuizioni semplici, composizioni strutturate all’insegna di una fruizione piuttosto immediata e intriso di trovate geniali, troverà subito d’accordo pubblico e critica d’oltreoceano. La varietà e l’immediatezza dei temi esposti inoltre contribuirà significativamente alla diffusione dell’opera in tempi rapidi.

Sia in USA che in Europa diverse riviste specializzate porranno Guero tra i lavori più rilevanti dell’anno. Una distribuzione più capillare farà sì che anche il pubblico italiano possa venire a contatto con il linguaggio, le idee e l’originalità del lavoro di Beck.
Un marcato e più evidente ammiccamento all’IDM e ancora qualche indovinato inserto rap (come nella titletrack) permetterà anche un maggior numero di passaggi radiofonici e i tour all’estero cominceranno ad essere più frequenti e frequentati.
È il lavoro che dopo ben 17 anni dai suoi esordi permetterà all’autore americano una ben più ampia diffusione del suo stile e della sua immagine non solo nel paese d’origine, ma anche nei mercati europei e mondiali.
A meno di un anno di distanza verrà pubblicato Guerolito, una rivisitazione del precedente che vedrà il contributo di alcuni degli artisti della nascente rinnovata scena elettronica (Air, Röyksopp e Boards of Canada tra gli “eminenti”).
Le strade sono ora ben aperte e definite. (Fine prima parte)

 

Immagine di copertina
Beck, Yahoo! Hack Day, 29 settembre 2006, foto di Matt Biddulph (Wikimedia Commons)


 

Antonio D’Este
Musicista / musicologo

 

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