Andrej Arsen’evič Tarkovskij (Zavraž’e, 4 aprile 1932 – Parigi, 29 dicembre 1986)
In occasione dei novant’anni di nascita del regista, sceneggiatore e scrittore russo, rendiamo omaggio ad uno degli autori cinematografici più amati dai fondatori, dagli amici e dai collaboratori della rivista Finnegans, nata nel 2003 a Treviso ed arrivata a celebrare quasi i vent’anni di attività.
Ricordo come fosse ieri la meticolosa preparazione del numero dedicato al cineasta russo, con la copertina in bianco e nero e la foto di Andrej in bassa risoluzione, ricavata da un giornale sovietico dell’epoca (dal film Lo specchio) e, sotto il titolo della rivista, la citazione del grande Ingmar Bergman, ripresa nel magistrale testo critico scritto da Giovanni Di Vincenzo: “Il film quando non è un documentario, è un sogno. È per questo che Tarkovskij è il più grande di tutti”.
E, non dimenticando i contributi di Giacomo Li Volsi (sul film Sacrificio), di Chiara Andrich (La Trinità di Andrej Rublëv), di Antonino Blesi (Solaris), di Ancely Tristano (Stalker), di Roberta Zorzi (Lo specchio), come non ricordare (con un tuffo al cuore) lo straordinario omaggio scritto durante una notte insonne dal “folle” e geniale tarkovskiano Benedetto Da Col (un amico di cui ho perso, purtroppo, le tracce), attraverso una lettera postuma buttata giù di getto, dal titolo Caro Andrej e inviata idealmente all’amico scomparso, un testo che ho riletto più volte ultimamente, perché offre una lettura della vera e autentica “anima russa”, in netta contrapposizione con quella falsa, subdola e dannatamente degenerata, propagandata in questi ultimi anni dal regime e dalla nomenclatura di quel paese.
Lettera che inizia così:
“Caro Andrej, mi verrebbe voglia di chiederTi se c’è posto qui giù tra noi viventi per i poeti ed ancora dove s’è perso il tuo sguardo, quello senza consonanti, monco delle cose che consolano tra i gesti umani o almeno una zolla di terra che possa dar forza. Come l’amico Chamdam Zakirov (poeta uzbeco, N.d.R.) – che concludeva sempre (ricordi?) dicendo “come è possibile?” – bisognerebbe avere la forza di accorgersi che tutto, proprio tutto è ignoto, anche il Tuo volto. Certo, lui era un predestinato, viveva a Rišta, in Asia Centrale, dove gli “alberi sembrano un miracolo”. E non ebbe, lui, neppure la sorte di confessare la sua nostalgia, come poté fare Petre Tutea (filosofo e scrittore rumeno, n.d.r,) al suo amico ateo Emil Cioran, parlando di silenzio e di luoghi “ritrovati”.
Un commiato forse ci vorrebbe, tra l’impossibile e l’anima – quel vostro specialissimo modo di “credere” –, tormento di realtà insostenibile, di forza attraverso l’esperienza del fuoco, come quei tuoi due uomini, Gorçacov e Domenico ”l’uomo di Dio”1, che dopo essersi passati la fiamma di una candela, si offrono in un estremo gesto, in luoghi impossibili, uno dandosi fuoco in una piazza romana, l’altro traghettando faticosamente la debole fiamma da una sponda all’altra di una piscina termale dove l’acqua sulfurea è ormai estinta. Entrambi resteranno uccisi nello stesso momento, recando a compimento il percorso estremo, sacrificale.
[…] Qui da noi, come ben tu sai, tutto il nostro passato è in rovina e di esso se ne conserva, semmai, l’immagine della domenica e della smodata trasandatezza e con ciò noi immaginiamo di risolvere il terribile senso di colpa con i nostri padri7. Dove potremmo allora trovare “l’acquietamento” per la nostalgia di un mondo composto, di un’integrità e di una fedeltà alla terra, la terra natale come terra originaria, come terra-fondo e fondamento, come dimora”? Tu dici che, forse, proprio in questa lontananza dal centro, si può ricercare e poi anche trovare il proprio nucleo, come un punto di non ritorno, eppure siamo tutti esuli in patria, spogliati, privi di identità, umiliati, vinti. […]
Caro Andrej, lo sai che se potessi, vorrei cullare tra le mie braccia la più misteriosa delle tue interpreti27, o quella che oggi mi fa sospirare in vita e come ne “Lo specchio”, con voce lenta e fluente ripeterle le parole della poesia di tuo padre28, Arsenij, “Euridice”:
“L’uomo ha un corpo solo,/ solo come la solitudine./
L’anima è stanca/ di questo involucro senza connessure,/
fatta d’orecchi e d’occhi,/ quattro soldi di grandezza/
e di pelle – cicatrice su cicatrice,/ tirata sulle ossa./
Dalla cornea vola dunque via/ nel pozzo spalancato del cielo,/
sulla rotta di ghiaccio,/ sulle ali di un uccello,/
e sente delle inferriate/ della sua vivente prigione/
il sussurrar dei boschi e dei campi,/ il rombo dei sette mari./
Senza corpo l’anima si vergogna,/ come un uccello svestito,/
né pensiero, né azione,/ né progetti, né scritti./
Un enigma senza soluzione:/ che ritorna sui suoi passi,/
dopo aver ballato sul palco,/ dove nessuno balla?/
E sogno io un’anima/ diversa, in una nuova veste:/
che arde passando/ dal timore alla speranza./
Come fiamma che si alimenta nell’alcol,/
prova d’ombra che vaghi per la terra,/
lasciando a suo ricordo sul tavolo/ un tralcio di lillà./
Corri, bambino, non piangere/ sulla misera Euridice/
e con la tua piccola asta per le vie del mondo/
sospingi ancora il tuo cerchio di rame;/
anche se udibile solo per un piccolo quarto,/
in risposta ad ogni tuo passo,/ allegra ed asciutta,/
la terra ti mormora negli orecchi.
Dunque, salutandoti, caro Andrej, lasciami dire che è alla tua anima infiammata, corpo materico ma sottile, nella “veste nuova” che affida al bambino la speranza di connessione con il mondo, che consegno questo estremo percorso intrapreso per credere se ci sia ancora un modo per abitare il mondo. Altrimenti, ci rivedremo presto.
tuo Bêndik
Note
1. Nostalghia, A.T., 1974
7. Andrej Tarkovskij “descrive” l’Abbazia di Galgano (Chiusdino) come una rovina, anch’essa di un passato medievale che in Occidente appare estinto e “dimenticato”, ma le fa comprendere (come una madre nel proprio grembo) un piccolissimo mondo russo preservato nella memoria, come in “uno scrigno prussiano”.
27. E, dunque, lo stesso A.T.
28. Non è vero, come qualcuno sostiene, che il cinema di A.T. sia privo di riferimenti al maschile, per via della vicenda familiare dell’autore. I suoi Diari testimoniano, semmai, l’amore profondo di Andrej per il padre. È vero, invece, che il maschile, ben presente nei suoi film, è fatto oggetto di una revisione intransigente, in favore di una “conversione” al femminile.
*
E prima di proporvi il testo del prof. Fabrizio Borin, autorevolissimo critico cinematografico, nonché studioso dell’opera del regista russo, vi riporto alcuni passi dell’editoriale che accompagnava la pubblicazione del numero dedicato a Tarkovskij, uscito nel gennaio del 2004, che si apriva con “flashback” onirico-simbolico – quasi una poesia fatta di immagini, un simbolismo a tinte forti nel solco della visione tarkovksijana – ricordando la scomparsa del regista.
«Una tormenta di neve, una tempesta di fango prende in consegna il corpo stremato della grande pianura sovietica imprigionata nella ragnatela dei villaggi, dei campi, della steppa, delle colline che “cantano il paradiso”… Andrej Tarkovskij, infagottato nelle tenebre, è da poco salito sull’ultima stella della notte… Dicono che ora, dopo una breve sosta tra le betulle del piccolo cimitero di Sainte-Geneviève-des-Bois (a cui si arriva da un viottolo di campagna) eludendo la stretta sorveglianza della vecchia gendarmeria del tramonto e dell’alba, stia assaporando finalmente la libertà, rintanato in un piccolo set improvvisato tra le nuvole e gli immensi acquitrini dello spazio…».
[…] Nel commento critico “Eppure questo non basta”, affresco scolpito nel tempo “tarkovskiano”, come nella lettera-commiato dal titolo “Caro Andrej” – che chiude il nostro viaggio alla riscoperta dell’eretico, visionario, errante, che vive in ciascuno di noi – e che declama un grande atto d’amore per l’amico scomparso, darete la caccia ad un autore forse sconosciuto ed inattuale – quasi un’icona che visualizza e custodisce dentro di sé la degradata visione del mondo, che vaga per le foreste dei nostri piani-sequenza quotidiani con l’istinto della sopravvivenza e l’assoluta ostinazione alla ricerca della verità più profonda sepolta in ciascuno di noi.
Comunque la pensiate, l’assedio di un artista alla verità, l’anima espugnata dal fuoco dell’arte, la vita che insorge contro la tirannide delle tenebre, rappresentano il vero “miracolo” del cineasta russo. (dL)
A proposito del cinema liquido di Andrej Tarkovskij
di Fabrizio Borin
Parlare della presenza dell’acqua nell’opera del regista russo (1932-1986) potrebbe sembrare un esercizio superfluo dato che il suo cinema, senza l’acqua, semplicemente non esisterebbe. È infatti impensabile ripercorrere le tappe dell’esperienza tarkovskiana senza tener conto della sua visione cosmica, dell’importanza e del ruolo attivo di coprotagonisti svolti dai cinque elementi della Natura (acqua, aria, terra, fuoco, più lo spazio) e di quelli che potremmo chiamare i suoi Oggetti (“liquidi”) della Memoria.1
Esiste, immutabile, nel regista un’elementare forma di triplice analogia tra l’esigenza rispettosa della verità della vita nel tempo – il suo prevalente montaggio per lunghi piani sequenza – l’uso non adulterato di questo tempo da parte del cinema e l’immagine riprodotta dal tempo cinematografico attraverso uno dei topoi cui egli fa più spesso, ossessivamente ricorso: l’acqua, appunto. L’acqua tarkovskiana sta al cinema come il fluire del tempo sta alla sua “figura cinematografica”;2 e, di riflesso, la tensione, la pressione della verità nelle sue inquadrature e nei moltissimi e intensi fuori campo a esse connesse, scorre con gli stessi ritmi primitivi delle molte simbologie che attraversano la sua opera.
L’acqua è una sostanza molto viva, che cambia continuamente, che si muove. È un elemento molto cinematografico e suo tramite ho cercato di esprimere l’idea del passare del tempo, del movimento del tempo. L’acqua trasmette anche la profondità, il senso del mutamento, dei riflessi. È una delle cose più belle di questo mondo ed io non riesco a pensare a un film dove non sia presente l’acqua.3
Così il regista indica l’orizzonte nel quale agiscono e scorrono le sue acque filmiche. Le diverse utilizzazioni che egli fa dell’elemento liquido, così come le interpretazioni che ne sono la diretta conseguenza, hanno al loro interno la ragion d’essere della rivelazione di una fisicità, di una matericità del fluire del tempo, sia che ci si trovi di fronte a una dinamica di moto orizzontale – fiumi, ruscelli, rii, paludi, acquitrini, stagni, laghi, mari, oceani, piscine, polle, pozzanghere, brume, vapori, fumi, nebbie ecc. – che nel caso di cadute verticali – pioggia soprattutto, ma anche acque violente e distruttive, cascate, gocciolii, stillicidi, neve, grandine, eccetera. Si ha cioè l’impressione di un illimitato fluire complessivo, di una commistione umorale natura-finzione (leggi realtà-cinema) che è insieme opzione causale dell’osservazione del vero e alta costruzione inventiva poetica. Qualcosa che assomiglia straordinariamente a quanto esposto da Calvino nell’incipit della sua quarta lezione, la “Visibilità”, dedicata all’immaginazione:
C’è un verso di Dante nel Purgatorio (XVII, 25) che dice: «Poi piovve dentro a l’alta fantasia». La mia conferenza di stasera partirà da questa constatazione: la fantasia è un posto dove ci piove dentro.4
È, quella di Tarkovskij, la produzione immaginativa di apparizioni purificatrici o punitive, intrusioni di rigenerazioni dell’anima, allagamenti di morte, rovesci liberatori o sgorgamenti paralizzanti di acque imprevedibili e di diffuse umidità – vapori, nebbie, brume, foschie, fumi indefiniti – in apparenza non motivate eppure necessarie, tendenzialmente implicite, subìte e talvolta preesistenti all’azione, ma sempre presenti, attive, in formazione.
Che intendano tradurre e proiettare il “dentro” o il “fuori” di imperiose esigenze drammaturgico-estetiche del montaggio – di quella che definirei la sua «religione del montaggio»5 – e della regia (acqua che taglia o unisce sequenze). Che abbiano tutte, come gli antieroi tarkovskiani, il destino di assediare, nel fiume della Storia, la Guerra, l’Arte e il Potere (L’infanzia di Ivan, Lo specchio e Andrej Rublëv in particolare), di sollecitare con scetticismo l’Utopia umanistica della Scienza (Solaris), di partecipare alla Malattia della Memoria (Lo specchio, Nostalghia), di convogliare la Cultura nel Desiderio e nella Fede non solo laica (Stalker) o di estinguersi nel fuoco russo e disperatamente fiducioso del futuro (Sacrificio), le acque di Andrej Tarkovskij rispecchiano una potente aspirazione poetico-sacrale all’Assoluto. «O Dio delle acque» si potrebbe fargli invocare prendendo a prestito i versi della litania notturna di Ezra Pound dedicata all’acqua e ai silenzi di Venezia.
Se non sempre le funzioni delle acque naturali sono quelle di dividere, separare personaggi e avvenimenti, trasmettere il disagio o, per converso, la bellezza, in Tarkovskij queste tendono ad avvolgere le cose, a raccogliere e tenere insieme le spinte contrarie, a provocare, se acque limpide, la riflessione e la meditazione propositive, se acque scure, tristezza, spleen, sogni inquieti, quando non veri e propri incubi sollecitati dalle immagini delle macchie (della conoscenza) e delle crepe (della realtà) immagini simboliche presenti nelle sue pellicole.
Tra i film per cui Tarkovskij sarà ricordato nelle storie del cinema, Andrej Rublëv è il più strutturato, anche dal punto di vista dell’impiego qualificante e invasivo degli elementi della Natura e delle acque.
Si tratta perlopiù di acque verticali, ma non mancano i diversi campioni di acque mobili o ferme nel terreno: i ruscelli che funzionano da linea di continuità in blocchi di montaggio per sequenze di episodi analoghi; le distese di polle in cui convivono neve e fuoco, terra dura e zone umide – parte da qui il detto binomio macchia-crepa con il prologo ne L’infanzia di Ivan; le immagini “alla Dovženko” di pioggia, acqua, cavalli. In ogni caso si tratta di acque la cui essenza risiede nell’aiuto anche problematico che esse portano alla rivelazione progressiva della dura realtà insita nel “pellegrinaggio” del monaco pittore Rublëv.
Dal momento che le acque originano e trasmettono il mutamento del tempo, sono dei conduttori di azione e diventano pure le creazioni analogiche dei movimenti della macchina da presa. Infatti accompagnano, precedono o sottolineano, quasi mimandole, le carrellate orizzontali – il frequente scorrere della corrente dei fiumi – oppure i dolly che si sollevano sovente molto in alto, verrebbe da dire a spiovere, e arditamente rivolgere lo sguardo sulla terra (appunto, le piogge scroscianti e la neve).
I riflessi e le acque tarkovskiane sono quelle realtà speculari che, provocando il lavoro dell’occhio, del pensiero e dell’immagine, mettono a contrasto, ovvero a contatto i suoi diversi mondi lontani: il “dentro” e il “fuori”, la Materia e lo Spirito, l’Uomo e l’Assoluto, il Tempo e lo Spazio. Conciliano le esperienze eterogenee della Fede nella Creazione e della fiducia nella creazione dell’Arte. Come per esempio nell’emblematico episodio dell’argilla e dell’acqua per la fusione della campana impastate per la nascita dell’autentica fede artistica e religiosa di Rublëv. La pioggia e l’acqua non alterano la realtà della ricerca in Andrej Rublëv, semmai il possibile straniamento dato dalla casualità del loro movimento, a sottolineare la posizione del regista circa l’efficacia limitata dell’esperienza; mentre, se si pensa a Solaris, il conflitto uomo-uomo (ovvero tra scienza e umanesimo) non è completamente dipendente dagli influssi dell’oceano pensante, peraltro centro e perno della vicenda. L’ultima immagine, con la Casa del padre, la natura circostante e Kelvin immersi dentro l’Oceano a intendere che l’unica uscita possibile per l’uomo è all’interno di sé, è un’immagine che fa pensare ad altre connessioni forti. Come la Zona di Stalker che sta dentro una realtà socio-culturale in crisi, la Casa Russa dentro la cattedrale italiana di San Galgano alla fine di Nostalghia e la mise en abyme della casa del Sacrificio dentro e attraverso il modellino.
L’accumulo degli oggetti più eterogenei nel cinema di Tarkovskij, sommersi o meno che siano è una sorta di magazzino della memoria, un deposito a-selettivo solo apparente, in realtà maniacalmente organizzato con precisi criteri estetici, all’interno del quale si manifesta la fusione del tempo sociale, del tempo privato, del tempo del sacro e del tempo del cinema in una concentrazione di richiami testimoniali negli anni della vita umana.
Ci si trova di fronte a un mondo di luoghi della memoria ricostruita, più vicino all’idea di tempo-spazio che non al suo contrario. Un tempo-spazio dunque, nel quale non essendovi comunque mai immobilità o stasi nelle manifestazioni dell’acqua nelle sue varie modalità – come noto questo elemento, privo di forma, assume quella degli spazi con cui viene a contatto – negli ultimi due film, Nostalghia e Sacrificio, queste subiscono un ulteriore aggiustamento di funzione e di significato. Con il primo e ancor più con Sacrificio si passa appunto a un’acqua che si potrebbe definire di immersione indiziaria. Nel suo film-testamento Sacrificio permane un’acqua altamente simbolica, quella della disciplina morale e della fede indispensabili per innaffiare l’albero secco sulla riva; e ci sono la casa sul mare, gli inserti rovinosi decolorati dalle crepe del panico apocalittico, il lavacro delle mani nella casa della “strega” Maria, l’allagamento finale compresente al lungo piano sequenza dell’incendio le cui fiamme si ergono, nella distruzione della materia, all’innalzamento verso l’armonia tra terra, cielo e acqua.
Ma c’è anche il latte, un’acqua della nascita, del nutrimento e della rigenerazione dell’infanzia e della vita che ne Lo specchio ancora gocciolava lentamente nel tempo e in Stalker, come per accelerazione interna, veniva bevuto velocemente dal cane della Zona. Ora, in Sacrificio, quella stessa integrazione dell’acqua, inquieta come il tempo tarkovskiano, esplode fragorosamente a terra per causa di un oscuro pericolo nucleare che rischia di cancellare la forza dell’acqua buona insieme alla nostalgia dell’infanzia e del fluire dell’esistenza. «Le storie sono acque. Un uomo è un bacino di raccolta», così recita un’iscrizione su legno di Erri De Luca posta sulle rive trevigiane dei laghi di Revine.
Uno scorrere che tende a mostrarsi attraverso due immagini precise, quelle due forme di rappresentazione già qui evocate, che in sintesi e conclusivamente possono essere indicate come cartine di tornasole del cinema liquido tarkovskiano, ovvero la macchia (le isole, le plaghe anfibie, le rovine e gli “avanzi” della Memoria nel Tempo) e la crepa, ovvero quei precisi luoghi fisici e mentali – al pari di quello di Leonard Cohen per la musica (There is a crack, a crack in everything) o di Hugo Mujica per la poesia (C’è una crepa nella parola crepa) – entro cui si infiltrano indomite le acque di Tarkovskij, vitali, inquiete, sublimi. E dove in Cohen (ma anche in Losing My Religion dei REM) la crepa lascia entrare la luce e in Mujica la parola poetica, in Tarkovskij lascia appunto entrare la poesia delle acque.
La complessità dell’orizzonte creativo di Andrej Tarkovskij, tra i pochi originali innovatori del linguaggio del sogno filmico, espresso soprattutto attraverso la sua attrazione maniacale per l’acqua, ne qualifica l’opera all’interno del cinema d’autore che al tempo stesso raggiunge le alte sfere del cinema di poesia con il quale il regista continua ad abitare stabilmente nel cinema spirituale contemporaneo.
Note
1. Partecipe del mondo tarkovskiano è l’universo della realtà e della simbologia delle “cose” presenti nei suoi film, Per questo mi permetto di rinviare a Fabrizio Borin, Per un inventario critico di oggetti tarkovskiani, in Tarkovskiana 1. Arti, cinema e oggetti nel mondo poetico di Andrej Tarkovskij, a cura di F. Borin, Venezia, Libreria Editrice Cafoscarina, 2012, pp. 119-281.
2. Cfr. Andrej Tarkovskij, Sulla figura cinematografica, in Andrej Tarkovskij, a cura di F. Borin, «Circuito Cinema», Quaderno 30, Venezia, Comune di Venezia, 1987, pp. 17-30.
3. Tarkovskij, I pensieri di un poeta, in Andrej Tarkovskij, cit., pp.33-34.
4. Italo Calvino, Lezioni americane. Sei proposte per il nuovo millennio, Milano, Mondadori, 1993.
5. Per questo e nel complesso per l’intero cinema del cineasta russo mi permetto di rinviare a Fabrizio Borin, L’arte allo specchio. Il cinema di Andrej Tarkovskij, Roma, Jouvence, 20153.
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Fabrizio Borin già professore associato di Storia e critica del cinema e di Filologia cinematografica all’Università Ca’ Foscari di Venezia, è componente del Comitato scientifico del Fondo Nino Rota conservato presso la Fondazione Giorgio Cini. Ha tenuto conferenze e relazioni a convegni e seminari non solo italiani e ha pubblicato, tra l’altro, le monografie Jerzy Skolimowski (Il Castoro Cinema, 1987), Carlos Saura (Id., 1989), Woody Allen (Gremese, 1997), Federico Fellini (Gremese, 2000), L’arte allo specchio. Il cinema di Andrej Tarkovskij, (Jouvence, 2004), Casanova (L’Epos, 2007) e Solaris (L’Epos, 2010), Tarkovskiana 1. Arti, cinema e oggetti nel mondo poetico di Andrej Tarkovskij (Cafoscarina, 2012), Remembering Andrej Tarkovskij. Un poeta del sogno e dell’immagine (Edizioni Università Ca’ Foscari, 2014), Zelig, (“Scrivere le immagini – Quaderni di sceneggiatura”, Mattador-EUT, 3, Trieste, 2014 e De-scrivere Venezia. Soggetti felliniani, “Scrivere le immagini – Quaderni di sceneggiatura”, 7, Mattador-EUT, Trieste, 2018, Delitti senza castigo. Dostoevskij secondo Woody Allen (2020). Direttore delle collane “Scrivere le immagini” e “Atti dei Convegni «I Dialoghi di Mattador»” del Premio Internazionale Mattador per la Sceneggiatura, dal 2015 ne è anche il Direttore artistico. Cinemanie d’autore. Tre chiodi fissi per lo schermo: Fellini, Hitchcock, Tarkovskij (Cafoscarina, 2021) è il suo libro più recente.
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