Cinema
«Hirayama, ti piace il lavoro, ti costruisci persino gli attrezzi da solo. Non capisco perché ti ci impegni tanto!»: così il giovane collega, scapestrato e svogliato, alla fine di un turno qualunque di una giornata qualunque nel bel mezzo della vastità di Tokyo, schernisce beffardamente il protagonista di Perfect days di Wim Wenders. Non è un pensiero profondo, né violento, ma una banalità ingenua, un cliché di poco conto, che delinea un personaggio secondario in poche parole; e tuttavia contribuisce – come poche altre frasi lungo il film – a scandire il senso dell’opera, un senso inciso tra le pieghe quotidiane di un impegno zen, felicemente inattuale, del protagonista nei confronti della vita; un protagonista che siamo continuamente invitati a riconoscere non già come semplice personaggio principale all’interno di una trama, ma come un carattere incarnato, una cristallizzazione di stile in mezzo alla grigia liquidità contemporanea.
Perfect days racconta la quotidianità di Hirayama, addetto alle pulizie dei bagni pubblici di Shibuya, a Tokyo. La riuscita del film deve tutto al fatto che gli elementi fondamentali della sua composizione ricalcano perfettamente l’interiorità del protagonista: la ripetizione ciclica e la straordinaria, sebbene misurata, attenzione ai dettagli.
Giorno dopo giorno osserviamo Hirayama eseguire le medesime azioni con estrema cura e precisione metodica – e la variazione registica nel mostrarcele è minima. Si sveglia, ripiega e sistema il futon, si lava, si fa la barba e si ritocca il baffo, innaffia delicatamente una decina di piccole piante, indossa la tuta da lavoro e raccoglie i suoi oggetti personali, perfettamente ordinati sulla mensola accanto alla porta; esce di casa e compra una lattina di caffè da un distributore a due passi dall’uscio, entra nel suo furgone blu e parte, diretto a lavoro. Rimane in silenzio per un tempo indefinito, poi, mentre il sole sorge e si stagliano di fronte a lui gli innumeri grattaceli della metropoli, sceglie un’audiocassetta e l’ascolta fino all’arrivo. La pulizia dei bagni, che Hirayama esegue con cura, ci è mostrata nei minimi particolari; poi la pausa pranzo al parco, di nuovo il lavoro, la cena in modeste tavole calde. Infine, il ritorno a casa, l’immancabile lettura d’un libro, e così ancora l’indomani, fatta eccezione per il giorno di pausa.
A spezzare la consuetudine in cui si dispiega la vita del protagonista, irrompono alcuni elementi esterni, e ognuno di essi apre un filo di trama: il giovane collega scapestrato e svogliato gli chiede un prestito per fare colpo su una ragazza, e qualche giorno più tardi, non presentandosi a lavoro, lo costringe a fare doppio turno; sua nipote si presenta improvvisamente da lui, una sera, dopo essere scappata di casa, ed entra per qualche giorno a far parte della sua quotidianità, da un lato sfilacciandola e dall’altro portandovi sprazzi di serenità inattesa; qualche giorno dopo arriva la sorella di Hirayama, madre di lei, per riportarla a casa, aprendo ferite profonde che allo spettatore non è dato conoscere, se non nella conseguenza di un pianto a stento trattenuto.
A uno sguardo panoramico, dunque, il film racconta una quotidianità ciclica e ripetitiva interrotta e deviata da alcuni elementi inattesi di gioia o disturbo. Eppure, se questi elementi – i personaggi secondari, i segmenti della trama – scandiscono il racconto lineare, per riconoscere la scansione stilistica dell’esistenza di Hirayama – e del film – occorre fare attenzione ad altro, ad alcune scene e ad alcuni dettagli che sono certamente secondari, defilati, episodici sul piano superficiale dell’economia narrativa, ma essenziali e fondamentali per quanto riguarda il sistema espressivo dell’opera.
Spesso durante il film – specialmente in scene di transizione o di intima staticità, notturne e diurne – ricorre l’immagine della “Tokyo Sky Tree”, la torre più alta del mondo, che svetta nel quartiere Sumida, a nord-est dal centro. Si tratta dell’unico elemento visivo significativo, nel film, ad essere lontano dalla quotidianità del protagonista: è puro simbolo, quasi un’astrazione, un punto cardinale artificiale in un mondo che all’artificialità è assuefatto. Perché Wenders insiste sulla torre? Se il film è centrato su quel magnifico, inattuale atteggiamento zen del protagonista, sui suoi piccoli e calibrati gesti rituali a fronte degli innumeri e caotici ronzii che compongono la sinfonia dell’indistinzione metropolitana; perché inserire un elemento così risaputo e non bilanciarlo con altro di paragonabile spessore e rilevanza formale?
Sarebbe stata forse adeguata, a fronte della torre, la presenza del mare, che ha un ruolo significativo – ma solo concettuale, solo fantasticato – in una delle scene più memorabili del film, quando la nipote, osservando il fiume Sumida e immaginandone la fine, le braccia posate sul bordo di un ponte, chiede a Hirayama di andare a vedere quel mare appena vagheggiato; lui le risponde «un’altra volta», lei insiste, gli chiede quand’è un’altra volta, e tutto si chiude come in una storia zen senza tempo, aprendosi all’accettazione armonica: «un’altra volta è un’altra volta, mentre adesso è adesso».
In realtà non c’era alcun bisogno di spingersi fino al mare per controbilanciare la verticalità imponente della “Tokyo Sky Tree”, poiché lungo l’intera trama del film alle riprese della torre fanno da contraltare le scene, anch’esse quotidiane, delle pause pranzo di Hirayama. Egli le trascorre al parco, siede su una panchina con un sacchetto di cibo d’asporto e osserva: le persone, regolari e irregolari, ma soprattutto un albero, lo sguardo e la mente persi tra le fronde che si frappongono tra lui e la luce del sole. Ogni giorno Hirayama scatta una foto a quell’albero, con una piccola e umile macchina fotografica analogica: conserverà ordinatamente le foto riuscite e strapperà le altre.
Proprio qui è da cercare il contrappeso formale – nell’economia registica – alle immagini della torre; qui è la dichiarazione stilistica definitiva, taciuta a parole, espressa solo a gesti, della devozione di Hirayama alla propria esistenza e alla propria quotidianità. A fronte della perfetta artificialità della “Tokyo Sky Tree” – l’”Albero del Cielo”, che ha una cima, una misura, un limite – quell’albero nel parco rappresenta la meraviglia quotidiana della contemplazione partecipata, la smisurata varietà dell’eterno, l’indefinito spazio di fluttuazione delle fronde nella luce del sole. Ci pensa la nipote – quando un giorno lo accompagna a lavoro e osserva la sua dedizione a quel luogo e a quel momento – ad apporre un sigillo di parola alla ritualità quasi esclusivamente gestuale di Hirayama, con una frase cruciale: «quell’albero là, è vero che è un tuo amico?»; «già, hai ragione», risponde Hirayama. E allo spettatore torna subito in mente una scena d’inizio film, dove Hirayama raccoglieva con estrema cura una piccolissima piantina solitaria ai piedi dell’albero suo amico, mettendola delicatamente in un sacchettino per portarla a casa e prendersene cura.
Ad abbracciare tutto questo e molto altro – le contraddizioni della metropoli, i buffi siparietti, le piccole gioie quotidiane – e a rinnovare, giorno dopo giorno, uno spirito di emancipazione profondamente inattuale, una mitezza degna d’una sapienza orientale ormai quasi completamente esaurita, è il ricorrere instancabile, a cadenza regolare, di un sorriso dalle mille sfumature, eppure sempre originato da un medesimo impulso, un sorriso estraneo alla felicità artificiosa ed esibita, un sorriso che affronta con la medesima energia la serenità, le piccole e grandi gioie, le profonde sofferenze e i dispiaceri quotidiani.
Un sorriso misurato e pudico segna il volto di Hirayama quando, accanto a lui, in una tavola calda, alcuni signori polemizzano e si agitano guardando una partita di baseball trasmessa da un piccolo televisore; e così, in una scena analoga, mentre mangia e sbircia in televisione un incontro di sumo. Ancora, un sorriso lieve e divertito, mentre due vecchi al bar snocciolano clichés sul matrimonio. Il sorriso è la principale forma di comunicazione con cui Hirayama entra in rapporto col mondo, con il positivo e con il negativo. Quel sorriso è una sorta di maschera stilistica, che si frappone tra la sua interiorità e il mondo esterno, non già separandoli, bensì regolando il loro rapporto attraverso una scansione di stile, che vince su ogni tentativo di assoggettamento e distruzione.
Ultima scena. Hirayama è diretto a lavoro, il lieve rumore dell’auto è accompagnato dall’ultima canzone: «it’s a new dawn, it’s a new day, it’s a new life for me, and I’m feeling good». Per pochi secondi è ripreso di profilo, l’alone dell’alba imminente oltre il finestrino, la città che scorre; poi lo vediamo parzialmente, per qualche attimo, riflesso nello specchietto retrovisore. Infine, due minuti ininterrotti di primo piano frontale, pura potenza espressiva. D’un tratto, e sempre più, lo spettatore è incatenato dalla forza vibrante di quella maschera di stile, di quel sorriso che adesso pare non avere costrizioni, poiché inizia a tramutarsi in pianto e di nuovo in sorriso, poi ancora in pianto e di nuovo in sorriso, e così senza sosta, fino alla fine, mentre le ombre dei palazzi e i rossi infuocati dei semafori percorrono e ripercorrono il viso di Hirayama.
Coloro che hanno familiarità con le maschere del teatro Nō – le quali hanno la straordinaria capacità di mutare espressione dipendentemente dall’angolazione con cui ci osservano e dalla modalità dell’illuminazione – possono riconoscere nel volto segnato di Hirayama, in quei minuti di pura intensità, nella sua inarrestabile, rapida e ciclica transizione tra felicità e tristezza, tra sorriso e pianto, una maschera Nō rediviva e incarnata, che ha abbandonato l’artificiosa magia della sua plasticità polimorfa. Oppure, vedranno solamente un uomo, maschera di stile, che in auto, lontano da tutto ma anche immerso nel tutto, si lascia un poco andare prima d’iniziare un’altra giornata di lavoro, come addetto alla pulizia dei bagni pubblici di Shibuya, a Tokyo.
Immagine di copertina: Fukai (Nō mask), di Rama © Wikimedia Commons
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