RIVISTA DI CULTURA MEDITERRANEA

Un carteggio recuperato rivela gli inizi poetici di Andrea Zanzotto, di Rolando Damiani

In lettere e cartoline postali conservate solo per affetto dai discendenti è riemersa dal buio di cassetti in disuso una corrispondenza giovanile di Andrea Zanzotto, che illumina un periodo tormentato e oscuro per i suoi stessi studiosi, in cui cominciò a diventare poeta secondo la sentenza di Roberto Longhi per la quale «non si nasce ma si diviene poeti».

Quando ai primi dell’agosto 1937 inizia il dialogo epistolare testimoniato per fortunosi ritrovamenti dal volume Il fatto che il male esista mi angustia, di imminente uscita dall’Editore Molesini di Venezia, il non ancora sedicenne Andrea è un discreto studente della Scuola Magistrale con carenze in matematica. Inviò per lettera al coetaneo Bepo, fratello minore di Zoila e Attilio Zambon, un pastiche in lessico letterario antiquato per raccontare della sua promozione e dell’incertezza sulla facoltà cui iscriversi. Il tono artefatto e scherzoso, sottostante a rilievi de agenda vita, celava la problematicità di un anno segnato dalla morte di una sorella minore gemella di quella scomparsa a soli quattro anni, dalle continue assenze del padre per le commissioni di pittore e dalla scarsità di denaro patita dalla madre.

Lo studentello solighese, disperso nella campagna veneta che affascinò pittori eccelsi e fu teatro di una cultura dal valore universale, non poteva sapere che quel suo artificio letterario per esprimere sotto un colorato velo linguistico reali speranze e affanni impressi nella profondità del cuore costituiva un preannuncio inavvertibile di quello che sarebbe stato il proprio conquistato stile poetico.

Scorcio di Cal Santa (Pieve di Soligo), dove Zanzotto ha abitato nell’infanzia. © Paolo Steffan

Nell’isolamento di Pieve di Soligo non aveva all’uscita dall’adolescenza e dalla scuola secondaria interlocutori a lui particolarmente intonati, con l’eccezione di una numerosa famiglia che abitava a due passi da casa sua, formata dal padre segretario comunale della cittadina, dalla madre sua maestra in una classe elementare e dai sei figli: la maggiore era la bella Zoila con interessi letterari che applicherà nell’insegnamento e nella creazione narrativa, la seguiva per nascita Attilio incline agli studi di matematica e fisica non meno che alla filosofia e alla religione, poi veniva Giuseppe chiamato Bepo o Beppino di carattere estroso e in seguito ingegnere per scelta lavorativa; più giovani rispetto ad Andrea erano l’affascinante Lidia per i modi e la conversazione, Maria  destinata a essere per alcuni anni superiora del proprio Ordine monacale e stretta collaboratrice di Albino Luciani durante l’episcopato a Vittorio Veneto, e il ribelle Luciano divenuto nella vita architetto e musicofilo (tra gli anni Settanta e Ottanta mi accadeva di incontrarlo alla Fenice, specialmente ai concerti settembrini del festival di musica contemporanea della Biennale).

In tale pur paesano ambiente famigliare era alto il niveau d’esprit, che a giudizio di Cioran detta il solo criterio valido di distinzione tra gli individui, e rientrava dunque nelle correspondances determinate dalla legge naturale delle somiglianze che il giovane Andrea vi fosse attratto, e lì abbia scambiato un dialogo confacente ai propri pensieri e ai non pochi suoi disagi esistenziali.

La cerchia dei colli intorno alla nativa Pieve offriva a quella bella gioventù mete festose e ragionamenti da diluire nel tempo delle lunghe camminate. Si parlava delle letture in corso, di fresche notizie e ci si poteva abbandonare a qualche confidenza. Attilio, per una stagione tentato dal sacerdozio, spiccava per doti di innata socievolezza e lucidità argomentativa che accompagnava di norma a un’arte paziente di ascoltare le persone. Diventato suo genero nel 1976 accumulai al riguardo molteplici e insolite testimonianze di attenzione, dettata mi pareva da un’istintiva curiosità improntata al motto classico “homo sum, humani nihil a me alienum puto” verso chiunque, noto o ignoto, gli parlasse per le più svariate e perfino banali ragioni.

Famiglia Zambon nella primavera del 1942. Da sinistra in piedi: Beppino, Maria, Zoila, Lidia, Attilio e Luciano. Seduti: il padre Antonio e la madre Teresa Bertolini

Nell’autunno 1938, secondo la cronologia proposta da Francesco Zambon nella sua precisa e acuta “Introduzione”, il diciassettenne Andrea soffrì di una grave depressione su cui influirono vicissitudini personali e famigliari. La comprensione e l’ascolto di un amico cui lo legassero stima e apprezzamento dell’animo gli divennero necessarie. In una lettera cui fu allegata una poesia si fissò una testimonianza unica nella sua biografia. Il prescelto fu il ventunenne Attilio poiché, gli confessò, l’aveva «considerato sempre in una sfera di diamante superiore alla [sua] di nebbia». 

Gli scrisse: «Tu sai bene che nei dolori le uniche consolazioni (se così si possono dire) vengono dal sentirci compresi da altri. […] Io sono così stanco, così stanco in questi giorni, che non ho forza di far quasi nulla. Non vorrei ricordare nulla, mettere un velo sul passato, su tutto, ma, ogni cosa, ogni paesaggio, ogni istante di giorno mi ricorda qualcosa con uno spasimo indicibile. […] La mia sete di immortalità di immobilità, di eternità, meglio, è grandissima, né mi lascia riposo. Tutte le cose caduche piangono in me la loro caducità, specialmente ciò che è bello, perché la bellezza è degna di eternità».

A tali parole aggiunse alcuni versi che ora si leggono come la sua prima composizione conosciuta di genere lirico:

Attilio
ti lascio…
io mi sento andare

Dolore e solitudine,
malinconia. I miei anni
ti vorrei donare
unica dote.  
Lieve
fuori
come nube sfioccata.
A che? Se beverato [?]
nell’amarezza
mi consumo,
mi sento finire
nel mistero del nulla?

E se perduto,
affranto nell’ultimo singhiozzo
mi gettassi prono
da te aspettando l’ultima carezza,
e non trovassi che la terra nuda,
dimmi che farei
se perdermi mi sento
e non so dire, ohimè
una preghiera di perdono
in questo mare di tristezza?

Attilio
forse meglio non pensare
pur sul vento del ricordo
l’illusione.

Attilio
ti lascio
io mi sento andare.

Nell’amico più anziano e già avviato a una laurea scientifica che un giorno lo renderà professore dapprima e poi preside di un liceo veneziano, Andrea riconosceva qualcuno di cui fidarsi. Una sincera voce di franchezza attendibile. Il conseguimento della maturità classica nell’estate 1938 con una media discreta ma non esaltante, dopo il diploma magistrale dell’anno precedente, aveva finito per acuirgli le preoccupazioni e i dubbi sull’avvenire. Quando si mise in contatto a Padova con Natale Busetto, cattedratico di Letteratura italiana, la tesi su Fogazzaro che si sentì proporre lo lasciò perplesso, come si evince da una lettera ad Attilio, ma riuscì poi efficacemente a svolgerne una su Grazia Deledda. 

Nel carteggio ora riportato alla luce c’è un vuoto nell’immediato anteguerra e nei mesi successivi allo scoppio bellico, percepito nel Soligo come un fulmine a ciel sereno seguito da tuoni paurosi. Per chi fosse impegnato nello studio o nel lavoro la vita poteva scorrere ancora anonima e pacifica, ma la minaccia della divisa militare ormai incombeva sui giovani in età di leva. Un po’ misteriosamente e contro il parere della famiglia, Attilio, che pure aveva trascorso un periodo in seminario, partì nel 1940 come volontario, mentre Zanzotto incappò in una serie di malattie e disturbi forse anche di natura psicosomatica.

Tra il 1939 e il ’40 la facilità di frequentarsi in un habitat comune e il possibile scambio a voce delle opinioni annullarono la necessità di scriversi. Inoltre l’imprevista decisione di arruolarsi come volontario presa da Attilio non per ragioni ideologiche, essendo stato per tutta la vita un fedele cattolico estraneo al fascismo, come giustamente si rileva nell’Introduzione a questo carteggio, ma per l’adesione a un’idea classica e un po’ risorgimentale della “patria” e forse anche per un certo spirito “sperimentale” di sé e del vasto mondo fuori dei confini natali, suscitò qualche imbarazzo in Andrea.

Educato al socialismo dal padre pittore cui fungeva da piccolo aiutante in età scolare, portandogli i pennelli e il secchiello con il colore nei lavori ornamentali eseguiti in chiese come quelle dell’alto Comelico o nella parrocchiale di Santo Stefano di Cadore, il giovane Zanzotto per indole poetica non era irreligioso. La scelta dell’amico di costante riferimento gli ispirò un sentimento forse incerto tra il rispetto per il coraggio e l’imbarazzo per un’adesione spontanea a una condotta militaresca cui lui non era assolutamente portato.

Della titubanza introdottasi in un quasi fraterno rispecchiamento psicologico si avverte un cenno sin dalle prime righe della lettera del 1° maggio 1941, che riavvia il carteggio. Ad Attilio, di stanza con il suo reparto di artiglieria a Cremona, scrive: «Sto scivolando nel desiderio di farti confidenze, come era mia abitudine, ma sapendo che tu le accogli sempre con un freddo sorriso, frenerò il fiume della mia eloquenza». L’immediata risposta del 4 maggio si preoccupa innanzitutto di fugare qualsiasi diffidenza: «io accogliere le tue confidenze con un freddo sorriso? Come lo puoi sospettare? Può darsi che io sorrida a qualche confidenza, ma non è un sorriso che si usa per deridere: è solo un mezzo per poter affrontare serenamente qualche situazione difficile o magari incresciosa e poter dire tra il serio ed il faceto cose che sulla mia bocca avrebbero il suono falso di una campana di terracotta».

Riguardo poi alle incomprensioni e critiche cui Andrea si diceva esposto con un certo timore, Attilio gli offrì una spiegazione di lucida razionalità nella quale rifulge la sua intelligenza: «Il giudizio degli altri? È – converrai – una debolezza. Anche tu, come me, hai bisogno di emanciparti su questo punto. È molto difficile è vero. Ma se si pensa da quali meschinità nasce talvolta e specialmente in questi casi il giudizio del mondo, quanto malanimo ed invidia ci cova, quale ipocrisia ci si nasconde, si vede chiaramente che non è saggio e dignitoso preoccuparsene. E poi il nostro giudizio non è per lo meno di ugual valore a quello degli altri?».

Attilio Zambon a Durazzo il 9 settembre 1941

Con simili convinzioni neppure l’orribile condizionamento della guerra riusciva a privarlo di un senso estetico del vivere impregnato di coraggio, che in termini indipendenti dalle contingenze è espresso in una lettera successiva da Kalogeros nell’isola di Creta, dove giunse dopo una tappa a Durazzo in Albania: «Il servizio militare mi ha dato modo di fare una magnifica crociera geografico-artistica che è sempre stata un mio desiderio e, credo, un desiderio di tutti coloro che hanno conosciuto e ammirato la civiltà dei greci antichi. Ti assicuro che una grande commozione si prova nell’attraversare regioni in cui ogni monte, ogni ruscello, ogni pietra ha un ricordo e una storia. […] Qui ho avuto modo di visitare anche Knosso e tutte le importanti rovine della civiltà micenaica. Scommetto che quasi quasi mi invidi e poco ti importerebbe della vita di tenda e del rancio un po’ lungo o magari della compagnia di piccoli parassiti!».

Il criterio in apparenza paradossale di valutare la guerra come occasione di viaggi di approfondimento di storia dell’arte, di contemplazione personale di monumenti, siti archeologici e opere rappresentative di tutta una civiltà si dimostra affine alla continua ricerca di libri importanti riscontrabile nelle lettere di Attilio da località in cui si sposta per esigenze militari. Erano volumi scelti per sé o richiesti da Andrea, come esemplarmente quello non reperito in una libreria di Alessandria ma ordinato al proprietario perché lo spedisse all’amico come dono per la laurea conseguita. Si trattava, come si deduce dalle frasi di ringraziamento inviate da Pieve, di Che cos’è la metafisica di Martin Heidegger nella traduzione di Enzo Paci uscita pochi mesi prima. A Aix-en-Provence nel giugno 1943 rinvenne su un banco librario, ugualmente per farne un dono a Zanzotto, L’Action, maggiore trattazione di Maurice Blondel, autorevole filosofo spiritualista di matrice cristiana.

La libertà intellettuale di Attilio, sostenuta da una solida cultura, era una virtù che condivideva con i fratelli e nel carteggio ora ritrovato ne è un esempio la lettera in cui Beppino, costretto al servizio militare a Bolzano, si complimentava nel novembre 1942 per la recente laurea di Andrea e lo incitava a mettere a frutto l’originale talento: «Il giorno della tua laurea non sia la conclusione dei tuoi studi; sia invece il principio del vero studio, dello studio fatto di fantasie e di meditazione. Io so che tu molto puoi dare, e molto darai se non permetterai alla vita di attanagliarti nel suo ingranaggio fino a spingerti nell’inestricabile labirinto della vita comune. E tu non incorrere in tale pericolo, a mio avviso devi guardarti da tre vizi: l’abitudine, la vita comoda, il così detto senso comune. In ogni tua azione segui la tua stessa ispirazione; sii aspro con te stesso quando si tratta di progredire. Dell’opinione della gente tieni la stessa considerazione che hai della gente stessa».  

Nel corso dell’anno successivo la vita sociale si drammatizzò con l’intensificarsi della guerra per il coinvolgimento degli Stati Uniti e anche i pensieri confidati da Zanzotto ai suoi fidati interlocutori si ampliarono su un piano filosofico, spirituale e metafisico. Significativa è la lettera del 22 giugno 1943 spedita in Francia ad Attilio, dove tra analoghe considerazioni scrisse: «Sebbene la mia fede non sia certa e profonda tuttavia mi resta vivissimo del cristianesimo il senso che noi uomini siamo decaduti, in preda al peccato originale. La possibilità del male, della dannazione, della morte spirituale mi è sempre presente. Penso sempre alla durissima esperienza di Port Royal, in cui la paura stessa di peccare e di dannarsi divenne peccato. Una situazione che rende la vita un orrendo paradosso».

Salvatore Quasimodo si congratula con Andrea Zanzotto vincitore del Premio San Babila – Inediti, 1950 (© Patellani / Archivio Germana Marucelli)

Lo sconvolgimento bellico modificò o ridusse al minimo le relazioni in cui si erano formati Zanzotto e i suoi amici pievigini. Catturato vicino a Tolone nell’autunno 1943, Attilio fu recluso fino alla caduta del Reich in campi di concentramento polacchi e tedeschi dove sopravvisse a stento. Andrea dopo l’8 settembre fuggì con il suo reparto da Ascoli Piceno, raggiunse con un viaggio avventuroso Pieve, imboscandosi poi tra le colline circostanti divenute rifugio di partigiani.

La corrispondenza si interruppe necessariamente e solo nel marzo 1945 – quando Attilio, superstite al tifo, era nel campo di lavori forzati a Taucha presso Lipsia, da cui poté fuggire sotto i bombardamenti l’8 luglio per un viaggio con meta Venezia quasi alla cieca attraverso una trentina di località – Andrea spedì da Pieve a Zoila un dattiloscritto contenente una raccolta di poesie che temeva scomparisse. Nel biglietto di accompagnamento le disse: «Ho pensato che in un anno duro che forse vedrà la distruzione dei nostri paesi e che mette in rischio gravissimo tutte le esistenze specie di noi giovani e uomini non sarebbe stato inopportuno affidare a qualche persona amica questi miei componimenti».

Erano le liriche che diventarono il nucleo della raccolta Dietro il paesaggio, pubblicata nel 1951 nella collana Lo Specchio di Mondadori. Zanzotto compiva allora trent’anni e dopo una gioventù studiosa vissuta tra varie peripezie era diventato un vero poeta.


Rolando Damiani, critico letterario, già Docente di Letteratura italiana presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia


Immagine di copertina: Andrea Zanzotto, © Graziano Arici

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