Cetona è miracolo di conservazione nella sua parte alta. Casucce addossate teneramente l’una all’altra, invitano ingobbite a salire e rassicurano chi vuole fermarsi, nel mezzo delle ripide viuzze. I muri, perfettamente armoniosi nel loro sghembo stendersi secolare, sono puliti, antichi, affittano generosamente qua e là piccoli spazi alle verdi radici, che rispettosamente metton su graziose famigliole. Le ore calde d’agosto scacciano i rumori; qualche parola di consuetudine tra compaesani sembra calibrata nel rispetto di una suprema legge di tranquillità. Non so dire se ciò avvenga nel dominio della vita o della morte.
La piccola locanda è rannicchiata in un angolino che sovrasta la piazza, quanto basta per staccarsi dalla sua natura chiassosa, inutilmente vitalistica. In su, dall’altra parte, una viottola che direi naturalmente pedonale ospita, forse per esasperazione, anche veicoli; ma non concede tutto alla viabilità rumorosa, la si percorre a piedi come se le automobili non dovessero appartenervi e ci si sposta con superiorità morale quando sopraggiungono; costeggia il Palazzo comunale, il Museo, fino alla chiesa e prosegue, come sinuoso corridoio, con balconi da un lato che danno sul verde versante collinare. Su questa stradina, in uno dei primi palazzi sulla destra, al primo piano, ha vissuto ed è morto Guido Ceronetti.
In questi giorni Cetona ospita il consueto festival organizzato per il compleanno dello scrittore torinese, nato il 24 agosto 1927. Incontro molte persone che gli sono state vicine, tra cui Eleni Molos e Luca Mauceri, attori del Teatro dei Sensibili; poi Nicola Di Martino, che presenta una raccolta di interventi radiofonici ceronettiani sul tema della misoginia.
Ascolto avidamente, mi nutro di aneddoti, ma persiste il rimpianto di non averlo conosciuto. La parola di Ceronetti mi è cara – come poche altre e in un certo senso, contrario eppure complementare, come nessun’altra – per comunione spirituale e intellettuale. Sento però pesare sul petto la qualifica di studioso, come una medaglia di cattivo gusto che cerco di strappare senza dare nell’occhio.
Una residenza refrattaria: divagazione aneddotica e parziale
Nel borgo toscano Ceronetti si trasferisce nel maggio del 1983. Sono mesi movimentati ed è irrequieto, tra la separazione dalla moglie Erica, la revisione delle bozze di Un viaggio in Italia e il trasferimento da Albano laziale. Fin dall’inizio non lo convince la scelta della casa, scelta non del tutto libera peraltro, poiché «quasi imposta da strani imbrogli di carte della fatalità… Anzi, niente quasi», scrive all’amico Sergio Quinzio il 21 maggio 1983: fatalità probabilmente dipesa dalle finanze della moglie, di gran lunga più stabili delle sue. In alcune lettere all’amico esprime preoccupazione per la nuova sistemazione. Il 19 marzo 1982 gli confida che quella di Cetona
non è una casa adatta, anche, dico, materialmente, e non ha sfogo su strada e su orticello come desideravo. Se, solo, mi si bloccano le gambe, di qua posso ancora uscirmene, con stampelle – di là no: sono inchiodato in casa…
e il 21 maggio 1983 ribadisce:
Detesto quella casa-sepolcro dove devo fare scale e che manca di sfoghi sull’aperto: c’è vista, ma senza il pianterreno mi sento in galera… Ma come farò a venderla e ad andarmene di nuovo? Sovente penso che faranno prima ad arrivarci i sovietici che io a cambiare luogo.
Qualche anno dopo inizia a considerare un nuovo trasloco: «Sono stufo di Cetona e di quella casa sbagliata: anima purgante, mi rimetto in cerca di un luogo e di una casa…» (24 ottobre 1985).
E il 18 gennaio 1987 confida all’amico:
Purtroppo, sono «noto» e sparire è sempre più difficile, in luoghi simili. Dice la mia consultatrice d’astri torinese che dovrei cambiare casa nell’88… Mah…
Arriva il 1988, passano i mesi, ma nessuna congiunzione astrale all’orizzonte, nemmeno a strizzare gli occhi. Decide allora, sulla soglia dell’autunno, di rivolgersi agli affezionati lettori, che negli spazi a loro dedicati su «La Stampa» hanno sempre risposto ai suoi appelli, a quelli diretti e a quelli indiretti; c’è da dire ch’erano sempre state questioni di critica sociale, in materia d’ambiente e politica; ora il problema è squisitamente personale, anzi intimo.
L’annuncio, dal titolo Una casa sulle Alpi, appare il 7 ottobre 1988 sulla terza pagina, nella rubrica «Sussurri e Grida»: è occasione per scrivere della casa ideale, ma anche della vita ideale, del necessario e del superfluo, dei veleni da evitare e degli antidoti ai veleni inevitabili. Innanzitutto individuate le Alpi, che «fanno parte dell’essenziale» e in cui «non è impossibile abitare»; poi ci vuole «gente veramente buona, fornita di senso sociale ad oltranza»; poca gioventù e preferibilmente di sesso femminile, che è «dappertutto, più digeribile, […] più rassicurante». Dev’essere «un luogo dove la droga non avesse interesse ad arrampicarsi né il turismo ad issare la sua bandiera di corruzione»; non può rinunciare ai collegamenti e accetta di rimanere in Italia, purché non troppo lontano dai confini svizzeri.
Al sussurro-grido ceronettiano due risposte-proposte, anch’esse sulla terza pagina del quotidiano. La prima è firmata da Paolo Barbaro, dal titolo Casa in laguna, pubblicata il 18 ottobre. L’ingegnere veneto, in un delizioso e per niente stucchevole ritratto della Venezia contemporanea, invita il torinese pretenzioso ad avventurarsi tra le calli, l’acqua torbida e l’eccezionale ridottissima quantità di rumori immani e inumani, che per Ceronetti sono veleno letale. Ma, risponde Ceronetti in Casa e angoscia (26 gennaio 1989), Venezia «non è che un occhio del drago Marghera» e dall’occhio alle fauci si può cadere per caso, per quanto una volontà sia ben allenata. Barbaro avrebbe potuto aspettarselo un netto rifiuto – e suppongo ne fosse quasi certo – ricordando le pagine del Viaggio in Italia ceronettiano dedicate al turbinio malefico che imperversa su Venezia e Marghera: le due sono «parti di uno stesso dittico […], paradiso-inferno»: e nonostante «l’atroce avvinghiarsi delle due architetture, il loro assoluto non compatirsi e respingersi» trovi «pace in una superiore armonia placatrice», non intende rischiare.Mario Rigoni Stern gli risponde il 2 novembre, con un elzeviro dal titolo Baita in Cadore. Stavolta la richiesta ceronettiana, ch’era stata precisata financo nel titolo, sembra poter trovare risposta soddisfacente. Rigoni Stern, con la consueta pacatezza e leggerezza, in poche righe ritrae alcuni dei luoghi alpini dove Ceronetti potrebbe trovare casa; ma la chiusura fa fluire una tetra, vaga sensazione di dolce disperazione: «Ma lei, Ceronetti, meglio di me sa che da noi stessi non possiamo fuggire». Il lampo di verità dello scrittore montano si aggancia alla sensazione ceronettiana di qualche anno prima, confidata a Quinzio: sembra impossibile ormai cambiare luogo. Ceronetti non si trasferisce, rimane a Cetona fino alla fine dei suoi giorni, allestendo laboratori teatrali e scrivendo, vivendo il paese finché il fisico glielo consente. I compaesani lo ricordano con affetto, nonostante le bizzarrie, le idiosincrasie, l’ingombro di una personalità difficile.
Ultimo giorno, metà mattinata, rassegna conclusa la sera prima con delizioso e leggermente allucinante teatro d’ombre. Vengo accompagnato in casa Ceronetti, da una gentile signora che gli è stata vicino negli ultimi tempi.
Dopo la rampa di scale, al primo piano, una targhetta sulla porta annuncia «TEATRO DEI SENSIBILI / SEDE DI CETONA»; in alto pende una lanternina di legno, quadrata e graticolare, spenta. L’appartamento non è grande. La prima stanza è la stanza dei libri e del mestiere, ma è stanza fantasma ora, poiché le librerie, colorate probabilmente a mano, sono vuote, tranne per qualche triste solitario faldone di carte burocratiche e un mazzo di buste bianche pulitissime. Poi una sedia, anch’essa colorata, e un leggio. Lo scrittoio è sparito dopo la sua morte, mi dicono, la macchina da scrivere donata a qualcuno poco prima. Sulle pareti e sui lati delle librerie, Guido in impermeabile, forse nei primi anni Ottanta, Erica da giovane, tanti sorrisi scolpiti nel tempo; un manifesto incorniciato recita «ACQUA CALDA JUNKERS» e poco distante, su due pagine stampate alla buona, «MAHA PRAJNA PARAMITA SUTRA», forse a conciliare l’ingresso degli ospiti: «forma è vuoto, vuoto è forma…», verità soffiate.
Anche la cucina è colorata, il rosso divampa. È ancora tutto com’era mi dicono. Le teiere e i vecchi pestelli sono canopi di memoria: un vecchio ingobbito pesta pesta, spande spezie, respira in silenzio, l’acqua a bollire, le foglie di tè nella tazza, in attesa.
Il bagno, giallo e azzurro, regala una fenditura satirica. Accanto a un quadretto l’appendiasciugamani in legno, piccolo, quattro posti segnati da una lettera ciascuno: M, F, P, C; mi dicono che Guido, quando aveva ospiti li istruiva sull’ordine esattissimo in cui dovevano essere utilizzati e riposti gli asciugamani: mani, faccia, piedi, culo: e non ci si doveva assolutamente sbagliare.
In camera da letto la scrivania è ancora piena delle sue cose: occhiali, francobolli, bloc notes, quadernetti. In cima a una pila di carte qualcuno ha lasciato Memè Scianca, la piccola autobiografia di Roberto Calasso uscita esattamente il giorno della morte dell’autore: piacevole bizzarra incongruenza. Lì, accanto a una finestra che s’affaccia sulle colline boscose, trionfo di verde che accarezza il cielo sereno, Guido ha scritto molte delle più belle pagine di prosa italiana.
Prima di uscire vedo in corridoio una scarpiera, che apro quanto basta per intravedere qualche paio di scarpe malconce e consumate. «Sono un uomo a piedi, un lettore di strade, porte, vetrine, gente, cortili, insegne, ma faccio un mestiere proibito», scrisse in un articolo dal titolo Spagna minima uscito su «La Stampa» il 19 giugno 1977.
Sarebbe stato bello farne una casa museo, ma che fosse viva, colorata, ospitale, ci si dice un po’ fantasticando: ma i libri sono andati. Il grosso è finito a Lugano, assieme alle carte che Guido nel 1994 decise di lasciare alla Biblioteca Cantonale, mentre la sua biblioteca teatrale è andata a Genova, nel Museo Biblioteca dell’Attore. Parte dei libri e delle riviste però è rimasta a Cetona, dove la Biblioteca ha allestito un Fondo Ceronetti. Perlopiù sono libri che gli venivano regalati e che in gran parte non lesse, ma vi si trovano alcune eccezioni degne di nota, con sottolineature e appunti.
Vedo la prima edizione in quattro volumi del Commento alla Bibbia di Quinzio, che Guido acquistò e lesse appena veniva pubblicato, per poi spesso discuterne con l’amico in via epistolare. Trovo due libri di Calasso, con dedica; apro L’Ardore e leggo «Per Guido, che tiene la Bhagavadgītā a portata di mano»; mentre Il rosa Tiepolo sussurra «Per Guido, insieme al nero di Goya». Il pittore spagnolo fu protagonista di alcune tra le più note incursioni ceronettiane nel Tragico su riviste e quotidiani, poi confluite nelle numerose edizioni pubblicate dall’Adelphi di Calasso.
Pura emozione mi scuote quando intravedo la copia de Il flauto e il tappeto che Cristina Campo gli mandò nel 1971 e che Guido recensì su «Paragone». La dedica mi commuove: «A Erica e Guido, che sanno tutte queste cose». È profonda verità che oltrepassa la cordialità e l’amicizia, poiché veramente Guido e Cristina sono astri di una sola costellazione, condividono una medesima sensibilità intellettuale e spirituale. Annoto diligentemente e con estrema precisione ogni singolo segno lasciato sulle pagine. Trovo un cerchiolino a penna accanto a «incredulità nella onnipotenza del visibile»; un triplo tratto verticale evidenzia che «Sprezzatura è in realtà un intero atteggiamento morale che, come la parola, necessita di un contesto quasi perduto al mondo d’oggi e, come quella, rischia di sparire con esso»; e ancora «religione non è altro che destino santificato e il massacro universale del simbolo, l’inespiabile crocifissione della bellezza è, l’ho già detto, massacro e crocifissione di destini». Trovo sottolineata l’elegantissima e sintetica qualificazione dell’Innominato come «condor ascetico», che Guido ricorda nella sua recensione:
L’Innominato è qualificato in un modo che mette nel brivido della verità: «quel condor ascetico». «Je me suis séché à l’air du crime…». Questo è capire saggiando, avvicinare una lampada essendo tale.
Sono lampade entrambi, Guido e Cristina, lontane e vicine, sempre illuminanti. L’una chiama e richiama l’altra, con fiammella che brilla delicata – e rimane sempre la sensazione che quel richiamo sia niente meno che figlio di misteriosa necessità, una necessità che da queste pagine stilla ravvivata.
Sul treno per Venezia, all’altezza di Firenze, una bambina sui dieci anni legge un libro ad alta voce, con la deliziosa serietà di cui solo i bambini sono capaci; i genitori fanno finta di ascoltarla, malamente, solo per non darle dispiacere. Rimetto in borsa la mia rilettura dei Deliri Disarmati e tendo l’orecchio. Ci sono momenti, luoghi, visioni, che per la suprema gratuità della loro bellezza, per la loro assoluta, formidabile inutilità, oltrepassano qualsiasi pretesa conoscitiva. Riordinando questi appunti, mi tornano alla mente alcune parole di Guido, in Un viaggio in Italia:
Sui prati impregnati di sole caldo davanti alla Reggia le api-bambini in caccia frenetica di pollini, miele chiaro e scuro della vitalità infinita che vanifica qualsiasi filosofia.
È qui dunque la grande lezione, che sorvola leggera tutta l’opera di Guido Ceronetti e in poche righe, per attimi infiniti e spaccature del visibile, adombra la necessaria e interminabile ricerca nei labirinti dell’Essere.
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Immagine di copertina
Paesaggio attorno a Cetona
Le immagini di Cetona e degli interni della casa di Guido Ceronetti sono di Michele Felice
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Michele Felice è dottorando in italianistica presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia.
Sta studiando principalmente l’opera di Guido Ceronetti e si occupa di alcuni altri scrittori italiani del secondo Novecento, quali Roberto Calasso, Elémire Zolla, Cristina Campo e Giorgio Manganelli.
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