Chi arriva in Costa Rica non sente dire altro: “pura vida… pura vida… pura vida”. È una specie di mantra che operatori, impiegati di hotel, ristoratori, tassisti e locali ripetono continuamente – e qualche irriverente lo storpia in “puta vida”, guardandoti di sbieco. Il mantra vorrebbe definire un Paese che si promuove come un paradiso verde, dove la natura regna incontrastata; un Paese che vanta la presenza di moltissime specie di uccelli, di animali esotici – per noi – come il bradipo, il puma, il giaguaro e la scimmia urlatrice; che ha rinunciato ad avere un esercito per investire in salute, istruzione e biodiversità (evviva). La gran parte del Costa Rica dev’essere effettivamente così, tra parchi nazionali, zone protette, coste in cui la vegetazione arriva a un passo dal mare, vulcani che fumano alti sui campi coltivati a banani e caffè; ma la mia esperienza in questo Paese è stata un po’ diversa. D’altra parte, non ci sono andato come turista, ma per partecipare al XXIII Festival Internacional de Poesía de Costa Rica; il festival è stato programmato nella stagione delle piogge, la peggiore dell’anno, e ha piovuto quasi sempre (niente vulcani, niente spiagge, niente parchi naturali); e durante il mio soggiorno ho potuto vedere solo la capitale, San José, e un altro paese a circa un’ora di macchina, San Antonio de Belén, o semplicemente Belén (che significa “Betlemme”), 25.000 residenti e 26.000 pendolari che ci vanno a lavorare tutti i giorni: un traffico tremendo, un’aria irrespirabile, rumori assordanti, acque contaminate, grandi edifici e capannoni ovunque. Ma andiamo con ordine.
La storia del mio viaggio in Costa Rica inizia mesi prima: un’amica poeta mi parla di questo festival, l’unico che stampa un libro a ogni invitato, e mi dice che se ho abbastanza testi in spagnolo può scrivere al direttore e propormi per la prossima edizione. Siamo in aprile. La prossima edizione è a cavallo fra ottobre e novembre. Controllo, e vedo che di testi ne ho abbastanza, sì. L’amica scrive al direttore, che mi manda la lettera d’invito: il volo non me lo possono pagare, ma mi ospiteranno per tutta la durata del festival, una settimana circa; in più, certo, mi stamperanno il libro. Accetto e mando i testi. I mesi passano. Nessuna notizia dagli organizzatori. Arriviamo a ottobre. Scrivo messaggi al direttore: nessuna risposta. Nessuna notizia nemmeno nel sito del Festival, né sui canali sociali. Intanto ho comprato un biglietto aereo che prevede il mio arrivo due giorni prima dell’inizio delle attività. In un messaggio vocale, rispondendo alle mie reiterate domande, il direttore del Festival mi dice che loro mi possono ospitare anche in quei due giorni in più, e che verranno a prendermi all’aeroporto; ma aggiunge una serie di commenti sul clima politico ostile, su una ex ministra della Cultura “nazi”, sui tentativi della destra al governo di sabotare il Festival, sul fatto che non dorme da giorni, eccetera. Gli esprimo la mia solidarietà, ma gli chiedo notizie più concrete: per esempio l’indirizzo dell’hotel nel quale alloggeremo. La risposta è vaga: può darsi che io sia ospitato da Julieta Dobles, una riconosciuta poeta costaricense ultraottantenne. Non so cosa dire, e la prospettiva di piombare a casa di una signora di quell’età mi pare poco attraente sia per lei sia per me, ma gli chiedo l‘indirizzo: nessuna risposta. Le mie domande continuano fino alla sera prima della partenza, sempre senza repliche. Decido di prenotare un hotel per conto mio, solo per le due prime notti: meno male, perché all’arrivo a San José gli agenti di frontiera mi chiedono dove mi fermerò, un requisito obbligatorio per entrare nel Paese. Fuori non c’è nessuno ad aspettarmi. Prendo un taxi e arrivo all’hotel.
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Il proprietario è Kurt, un tedesco di Saarbrücken che vive in Costa Rica dai primi anni Ottanta. Tra i suoi ospiti, mi indica due vietnamite molto giovani ed esili: sono arrivate senza documenti, non sanno quanto tempo si fermeranno, aspettano qualcuno che le passi a prendere. Secondo Kurt sono vittime della tratta di persone. Dovrebbe denunciare, dice, ma sarebbe un bene o un male, per lui e per loro…? Intanto il direttore del festival ha finalmente risposto al mio ennesimo messaggio, e mi ha comunicato che il giorno prima dell’inaugurazione – di cui però non si sa ancora nulla – qualcuno verrà a prendermi e mi porterà a casa sua. In effetti, quel giorno arriva Marianela, che mi appare con la pelle e i capelli luccicanti di pezzi di stagnola colorata: ciò che rimane della festa per il compleanno di suo figlio, celebrata il giorno prima, come mi spiega poi. Intanto su Facebook appare il primo post del Festival: l’inaugurazione sarà nell’auditorio del Colegio de arquitectos e ingenieros, il giorno successivo, 27 ottobre, alle ore 11.
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Quel giorno, alle 11, il direttore del Festival prende la parola: dice che hanno trovato la sala solo all’ultimo momento, dato che le autorità hanno negato l’uso dei più prestigiosi teatri cittadini; che lui non dorme da giorni, ha sette stent, ha subito due operazioni al cervello per le ferite riportate nella guerra in Nicaragua, anni prima; che ha dovuto impegnare la casa per pagare le spese dell’organizzazione e ora è ospite di sua mamma, una signora di più di 90 anni, presente in sala. Ha le mani che tremano, lo sguardo perso in un altrove indecifrabile. Poco dopo parla suo fratello, il presidente del Colegio de arquitectos e ingenieros, e conferma le parole del direttore. A lui tremano le gambe. Ammutoliamo. Tocca a ciascuno dei poeti invitati leggere una o due poesie. Leggiamo. Il pubblico applaude. Poi salgono sul palco studenti di varie zone del Paese: ciascuno legge una sua poesia, frutto dei laboratori che il Festival ha organizzato nelle scuole delle molte regioni del Costa Rica. Sono più di un centinaio, tutti molto emozionati. Solo allora mi rendo conto che il pubblico è formato esclusivamente da loro: niente stampa, niente gente da fuori. Terminate le letture gli studenti vengono a farsi fotografare con noi, ci chiedono autografi, ci stringono la mano. Ci scambiamo indirizzi e complimenti. Intanto la lettura del pomeriggio, prevista in un altro spazio della città, è cancellata. La sera andiamo a casa di una coppia di poeti: ceniamo e leggiamo fra di noi. Ancora non esiste un programma del Festival: ci giungono notizie frammentarie, voci non confermate, ipotesi e smentite. Di certo si sa solo che il 29 partiremo per diverse destinazioni, presso comunità locali che da anni collaborano col Festival: a me tocca stare per tre notti a Belén, e ancora non so per fare cosa, esattamente. Fuori piove a dirotto.
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Il giorno dopo andiamo tutti a leggere all’Università del Costa Rica: troviamo ad aspettarci una cinquantina di studenti seduti per terra, molti immersi nei loro cellulari. Leggiamo. Gli studenti non sembrano particolarmente interessati. Alla fine qualcuno ci dice che all’Università non c’era stata nessuna preparazione o promozione dell’incontro: qualche docente ha racimolato un po’ di alunni all’ultimo momento, giusto perché la sala non fosse vuota. La ragazza seduta vicino a me bombarda delle bolle colorate con uno spruzzo digitale. Il pomeriggio andiamo a casa di Julieta Dobles per il caffè. Più tardi è prevista una lettura all’Instituto de México, ma nessuno sa niente. Julieta e altri provano a telefonare: non risponde nessuno. Marianela, la poeta che mi ospita, decide di andare a vedere personalmente: il poeta sudanese e io saliamo in auto con lei. Quando arriviamo all’Instituto, il guardiano sta chiudendo: non sa nulla di un evento tra un paio d’ore, ma ci fa entrare per parlare con l’unica funzionaria ancora al lavoro. La signora conferma che per quel tardo pomeriggio non è previsto niente, ma telefona al direttore. Alla fine, questi concede lo spazio: a quanto pare, mesi prima c’era stato un abboccamento, sì, ma da parte del festival non era mai stata mandata una lettera ufficiale, né c’era più stata alcuna conferma. Alle 19 arrivano gli altri poeti: leggiamo, anche stavolta senza pubblico. Prima mi fanno vedere il mio libro, appena stampato: orrore. I testi in versi sono stati trasformati in prose, non ci sono gli a capo, l’impaginazione è caotica, trovo errori e storpiature… con un nodo in gola, dico agli organizzatori che il libro è una porcheria, non può essere diffuso così. Imbarazzati, a capo chino, mi rispondono che sì, capiscono, chissà cos’è successo, e mi chiedono scusa. Lavoreranno quella notte per sistemarlo, e lo ristamperanno, dicono. Nel frattempo mi è arrivato il programma di massima dei miei impegni a Belén: giovedì sera si presenta il mio libro. Oggi è lunedì.
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La mattina dopo Julieta, suo marito Carlos, un’altra poeta costaricense e io andiamo all’unico liceo del Paese in cui si studiano discipline umanistiche e arti: il Liceo Castella, il fiore all’occhiello del sistema educativo pubblico, che accoglie studenti delle medie inferiori e superiori. Ci ricevono delle ragazze in costume tradizionale, che si esibiscono per noi in un paio di bellissime danze folcloriche.
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Poi, davanti a una trentina di studenti, inizia l’incontro: una lettura intervallata dalle loro domande e da un paio di canzoni suonate da un’alunna con l’accordeón: una czarda ungherese, un tango argentino. Le domande sono intelligenti, l’attenzione continua. Sì, questi ragazzi sono diversi, hanno un interesse specifico, sviluppato grazie ai programmi educativi del Liceo. Alla fine dell’incontro tre alunne ci leggono le loro poesie: sono belle, ma qualche parola troppo audace suscita la disapprovazione immediata di Julieta e di Carlos: secondo loro, in poesia si devono dire solo cose belle, e con belle parole. Ok.
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Giungono altre notizie dall’organizzazione: la cerimonia di chiusura del Festival, prevista in un teatro del paesino di Cariari, è stata cancellata. Più avanti ci diranno se sarà possibile riprogrammarla altrove. Nel pomeriggio un funzionario del Ministero dell’Istruzione mi porta a Belén, ma non subito: prima dobbiamo incontrarci col direttore del Festival, che mi vuole consegnare la nuova tiratura della mia raccolta. Ci fermiamo in un ristorante lungo l’autostrada ad aspettarlo. Passano un paio d’ore. Finalmente arriva, il sorriso stampato sul volto. Appena mi vede, mi dice che non ha chiuso occhio per reimpaginare il mio libro. Me lo mostra. Lo apro: è uguale al precedente. Mi si gela il sangue. Il direttore abbassa la testa e comincia a parlare di attacchi hacker, di spionaggio da parte di potenze straniere, di nemici politici che lo ostacolano in tutti i modi. Il funzionario del Ministero e io cerchiamo di riportare il discorso su un piano più solido: mancano due giorni alla presentazione, cosa facciamo? Gli suggeriamo che sia un’altra persona a impaginarlo, visto che il suo computer è sotto attacco. Accetta. Torna a parlare di lotta all’imperialismo yankee. Gli diciamo che vinceremo, no pasarán. Fuori piove a dirotto. Un’ora e mezza dopo siamo a Belén.
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Nei quasi quattro giorni che resto qui, ospite dell’associazione culturale El Guapinol, si succedono “conversazioni” con gruppi di bambini, studenti, persone che partecipano a laboratori teatrali e di scrittura, amici e sostenitori dell’associazione: quasi sempre si tratta di incontri molto liberi, senza un programma o un lavoro previo; quasi sempre improvviso, a seconda del luogo, dell’atmosfera e delle ore di sonno alle spalle. I bambini e i ragazzi mi chiedono come si fa a diventare poeti e a volte mi leggono le loro poesie; ma mi domandano anche quanto sono alto, e se mi piace di più Messi o Ronaldo. Il pomeriggio piove sempre a dirotto, la notte anche. Le persone che lavorano al Guapinol sono molto dedite alla loro missione di offrire agli abitanti di Belén una proposta culturale articolata, ma non hanno abbastanza spazi, e il comune non sempre li sostiene, anzi, a volte li ostacola. Mi spiegano che fino a non molti anni fa la conca di Belén era tutta coltivata a caffè, che la gente era contadina, che le case tradizionali di argilla seccata dal sole sono state quasi tutte demolite e sostituite da questi nuovi edifici anonimi, fatti di materiali industriali; che questa terra, così vicina all’aeroporto e così ricca d’acqua, oggi è la mecca delle grandi compagnie transnazionali che vi hanno costruito i loro poli logistici o direzionali, da cui la grande quantità di pendolari che vi arrivano ogni giorno, il traffico sempre intasato, l’inquinamento e la cementificazione dei suoli. Incontro anche la sindaca del paese, che mi vuole salutare: è stata eletta da poco, ha grandi piani di trasformazione del territorio in senso ecocompatibile, è entusiasta del suo lavoro e sembra dedicarcisi con tutta sé stessa; sostiene che bisogna toccarsi, abbracciarsi, ridurre la distanza, sorridersi. Facciamo così anche noi, e speriamo che le sue parole si traducano in fatti. Gli amici del Guapinol non ne sembrano tanto convinti.
Stefano Strazzabosco con gli studenti di Belén
Nella tarda mattinata del giorno in cui è prevista la presentazione del mio libro mi avvertono che la nuova tiratura è pronta; il funzionario del Ministero dell’Istruzione è disponibile a venire a Belén con una cinquantina di copie. Arriva un’ora prima della presentazione: il libro è stato corretto, ci sono ancora diversi refusi, ma adesso almeno è accettabile. La sera si presenta, c’è un ragazzo che suona Debussy, altri poeti che leggono, i membri del Guapinol distribuiscono le copie tra il pubblico. Per una volta, le cose funzionano. Più tardi ceneremo tutti insieme in un posto di hamburger, lungo un’arteria percorsa dai tir. Ci salutiamo con affetto e ci auguriamo il meglio: le nostre strade stanno per dividersi. Fuori piove a dirotto.
La presentazione del libro a Belén e la cena di congedo.
Il giorno dopo mi riportano a San José: la cerimonia di chiusura del Festival si terrà alle 19 nel Museo Gaitia, ci dicono. Passiamo ore e ore in coda in autostrada per entrare in città: la puzza di benzina ci intossica i polmoni. Quando arriviamo al Museo, ci accorgiamo che ancora una volta siamo solo noi: niente pubblico, niente stampa, nessuna diffusione. Dopo le nostre letture, il direttore chiude il Festival attaccando l’Impero e difendendo la bontà del suo operato. Applaudiamo. Si vorrebbe fare un brindisi finale, qualcuno ha portato un paio di bottiglie ma non c’è il cavatappi. Dopo lunghi parlamenti, riusciamo ad aprire le bottiglie e beviamo un dito di vino a testa: di più non ce n’è, siamo in tanti, tutti assetati. Il direttore intanto è sparito. Ci raccontiamo le esperienze nei luoghi in cui ci hanno mandati, e ci scambiamo gli indirizzi e i libri. Domani saremo già altrove. Pura vida, compañeros. Fuori, ovviamente, piove.
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Stefano Strazzabosco, poeta e traduttore
Immagine di copertina: Il centro storico di San José
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