Respirano lievi gli altissimi abeti
racchiusi nel manto di neve.
Più morbido e folto quel bianco splendore
riveste ogni ramo, via via.
Le candide strade si fanno più zitte:
le stanze raccolte, più intente.
Rainer Maria Rilke, Bianco splendore
Vi furono abbondanti nevicate nell’inverno del 1985 e le colline intorno a Pieve di Soligo erano coperte da un esteso manto bianco. In quel periodo Andrea Zanzotto soffrì di una depressione più grave di quelle in lui ricorrenti, che lo rendeva quasi afasico. Gli riusciva nemica la lingua italiana, che pur nel Galateo in bosco aveva saputo versificare con l’estro di un petrarchista, e cominciava pure a dubitare dei poteri del dialetto, cui si era a più riprese affidato in frangenti di sconforto.
Per ritrovarsi un po’ miracolosamente in pace con se stesso, saliva dalla sua piana alla località di Ligonàs (il cui nome derivava forse da un «raro prediale germanico») e lì sostava nel caldo della grande casa colonica ristrutturata in osteria e ristorante-rifugio, dalle cui finestre lo sguardo spaziava sul circostante paesaggio innevato. Quei prati candidi e lattei gli davano un senso di «relativa remissione interiore», così pensava, e la neve gli appariva per l’ennesima volta una misteriosa sostanza «sanatrice», un farmaco disceso come manna dal cielo per attenuare i mali della natura, restituendole un aspetto integro, una sua sembianza di vita perenne.
Nel biancore lucente delle colline solighesi tendeva a dissolversi l’umore nero da cui il poeta si sentiva invaso e nel gelo della stagione sterile rifioriva il suo desiderio di scrivere. Varie carte si accumulavano, talvolta con la stessa imprevedibilità dei fenomeni meteorologici che avevano favorito lo spunto creativo. A ritmi sincopati si formò un «nivale deposito di farmaci-scritture» dal quale furono tratti nel 1986 alcuni fogli per Idioma, opera conclusiva di una trilogia, e altri abbozzi per Meteo un decennio dopo.
Restava infruttifero un giacimento di composizioni che in una rilettura a distanza, fra il 1997 e il ’98, ispirarono all’autore l’idea di un poemetto paesaggistico in cui la natura, come di norma per lui, fungesse da specchio o contraltare dei suoi stati d’animo e di mente. Sorse così il mosaico poetico di Ligonàs, formato da tre tasselli e suddiviso in altrettanti momenti, cui è connesso un Excerptum (ossia «estratto» o passo scelto) in due fasi, nel quale lo scenario invernale – solennemente evocato dai versi d’apertura: «Quell’intimo splendore / di “c’era una volta” e che / da dirupati anni mi resta diviso / torna a riaffiorare su tutta la piccola terra / da delicate nevi finalmente redenta» – trapassa negli annunci della primavera, tra fine marzo e inizio aprile, e alla neve si sostituisce la pioggia, a tratti amabile per le promesse e quella vaghezza di rinnovamento, o addirittura di pasquale risurrezione, che sembra arrecare.
Qui Zanzotto di nuovo si china, come in Meteo, sulle «erbe-Manes», sulle «erbe del visibile da troppa / brezza di dubbi afflitte», e torna a credere che, nonostante la ragione e l’occhio disincantato giudichino solo apparente la ricomparsa stagionale della vita e dei suoi segni simbolici, forse aleggia poeticamente sulle cose una «ancora spiegata ala mundi / pur se da avide / alee / truccata succhiata». La bella stagione riviene di anno in anno con «tranquillissima trasognatissima noncuranza» e ogni volta «tutto si riavvincola / e si ritesse nelle sue scarse, sue agre risorse».
Le risurrezioni periodiche della natura ignorano i «raggiri dei tempi lineari», fluenti dalla bocca degli imbonitori del progresso. L’erba dei prati ciclicamente si rifà verde in primavera e sembra provvedere con una magica tintura «alla non più inconsutile veste / del mondo». Il tono accorato e il senso dei versi non sono dissimili da quelli che ispirano quasi un grido in forma di interrogativo innalzato al cielo, con cui si apre la seconda strofa della canzone leopardiana Alla primavera, o delle favole antiche: «Vivi tu, vivi, o santa / Natura? vivi, e il dissueto orecchio / della materna voce il suono accoglie?».
I versi inediti di Ligonàs ottennero nel 1998 il premio di poesia Pandolfo, assegnato a Firenze da una giuria presieduta da Carlo Bo. Di seguito al riconoscimento furono stampati nella collana del Premio, dove figuravano come immediati antecedenti i nomi di Testori, Luzi e Raboni. L’elegante plaquette uscì verso il Natale di quell’anno illustrata da una serie di «inchiostri» di Zoran Mušič, accordati con qualche suggestione visiva dei componimenti. Esclusi dal Meridiano canonico delle Poesie e Prose scelte, pubblicato nel settembre successivo, hanno anche il valore, pur secondario rispetto a quello della loro intrinseca poesia, di prefigurazioni di una “maniera” lirica coltivata da Zanzotto dopo Idioma e la fine della «trilogia», e da lui intesa come una sintonia espressiva con un proprio stralunato culto degli stagionali «temi-tempi», così chiamati in Meteo.
In una Nota aggiuntiva alla plaquette il poeta premiato fu esplicito sul significato che attribuiva a versi nati in un «periodo particolarmente strano e tempestoso della sua vita» e «scoppiati su come bolle dalla “belletta negra” depressiva, causata forse dal senso della entrata “ufficiale” nella terza età, fra i sessanta e i sessantacinque anni». Giunse a considerarli «il primo gradus della incerta risalita» affrontata agli inizi della senescenza, dopo aver patito per quasi un biennio una «inibizione allo scrivere» e «un rifiuto totale della lingua italiana prediletta, e insieme del dialetto usato negli anni precedenti».
A Ligonàs poté invece ricevere una terapia della visione e del linguaggio, cui accennò quasi in forma di anamnesi in margine al poemetto che vi aveva dedicato: «L’apparizione delle luci di questi vasti campi nevosi […] mi ridiede lentamente, insieme con altre circostanze, la forza di ricostruire con materiali sentiti come provvisori, ma di assoluta necessità, certi tessuti cicatriziali costituiti da parole di nuovo italiane, e talvolta anche straniere». E nella preziosa copia che mi giunse in dono, con correzioni autografe (una delle quali ironizza sul lapsus «equinozio dell’inverno», presente in una noticina in calce, imputandolo a «stanchezza dell’inconscio»), una dedica del poeta replica questa sua autoesegesi, per così dire: «Caro Rolando, ti invio questo specimen di versi già “antichi” che furono premessa ad altri – con tanti fervidi auguri 1998-99 aff. Andrea Z.».
Di alto valore estetico è in Ligonàs lo scioglimento delle tensioni semantiche e dei grovigli associativi di idee in cantabilità metrica e in rime a tratti così virtuosistiche da richiamare alla memoria, sia pure in immagini rovesciate, le maestrie alcioniche di d’Annunzio. Ne sono testimoni esemplari i versi evocativi di un aprile pasquale e piovoso nella sezione Excerptum,1:
E, pasqua sciolta in umile allume di piogge
pasqua di folti folli declivi,
di impronte scoperte e distratte malie
di festa che pare e non pare –
di dissolvenze docili amare
di ignarità che brucia pur di estreme sapienze
per virtù della pioggia, ne accentri
le levitanti o striscianti
potenze clemenze.
Fedele all’essenza della poesia, che è ritmo versificato, e il verso «è ovunque vi sia ritmo» secondo la magistrale lezione di Mallarmé a Oxford nel 1894, Zanzotto tenne sempre vivo in ogni sua esperienza di scrittura, compresa la sua stessa parca prosa, il senso del verso come misura musicale di ascolto, e solo in quanto tale anche cellula di un significato, superficie in cui si annida una profondità.
Nel suo insieme, e soprattutto nei punti di più tersa visione per effetto del chiarore moltiplicato dal bianco quasi onnicomprensivo della neve, Ligonàs fu l’espressione di un poeta “lieve”, nella trobadorica accezione del trobar leu, di un lirico “risorgimento” come nel Canto leopardiano celebrativo nella primavera 1828 del ritorno dell’effusione immaginativa e dunque di un Andrea Zanzotto rinnovato dal trascorrere naturale delle stagioni.
Tale è la chiusa del poemetto, dove in un’infinitezza dilagante di luce lo sguardo si sofferma, in uno zoom al microscopio, su una minima foglia sperduta, cadente nel vuoto e pur riverberante «nel lontanissimo / di un centro senza senso» la luce di un significato:
Così che par che tutto
in collinari accenni resi
pulviscolo di mirabilia
somigli a quanto si assottiglia
d’orizzonti, così che sia fonte
di molto più che sé, prati da sé
figliantisi col verde del frumento
nel refolo d’un accento.
E una fogliola che cadendo, sola,
nel lontanissimo
di un centro senza senso, in un dove
eccentrico nel suo stare,
ad ogni cosa fornisce prove:
luce in sé intenta a sfidarsi a sfidare.
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Foto di copertina
La casa Ligonàs, foto di © Paolo Steffan
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Rolando Damiani ha insegnato dal 1975 all’università di Padova e poi di Venezia, dove è ora Senior Researcher. Ha curato nella collana dei Meridiani l’opera di Leopardi e pubblicato pure per Mondadori la biografia All’apparir del vero (tradotta all’estero) e un Album Leopardi. Nei Meridiani sono anche uscite a sua cura le Opere di Comisso e di Arpino. Ha tradotto per Bompiani e per Adelphi, curando in particolare per la prima Lo spirito di perfezione di Georges Roditi e per la collana della Biblioteca Adelphi gli Scritti di Rodez di Antonin Artaud, stampati nel 2017. Ha svolto per molti anni un’intensa attività pubblicistica, con articoli e ampie interviste a personalità anche di spicco della cultura internazionale, come ad esempio Jacques Derrida, John Cage, Karlheinz Stockhausen, o Mario Luzi o Harold Bloom o Adonis. Vari suoi studi di critica letteraria sono raccolti in sei volumi, editi dal 1987 al presente.
È socio ordinario dell’Accademia Olimpica fondata nel 1555 da Palladio ed altri.
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