L’arte di Lisa: «emozioni che vengono da ogni luogo»
(seconda parte)
Senza arte, la crudezza della realtà renderebbe il mondo insopportabile, sostiene G. B. Shaw e questa affermazione potrebbe ben illuminare uno degli effetti principali impliciti del lavoro degli artisti, i quali ci aiutano (ed aiutano sé stessi naturalmente) a redimere l’esistenza, offrendoci una cura per le asperità e le stringenti necessità con cui il Vero si presenta a noi, non certo fuggendolo o disattendendolo, ma sapendo accogliere le «emozioni che vengono da ogni luogo» (lo diceva Picasso), per trovare il senso segreto di ogni cosa, anche apparentemente insignificante o già nota e quindi data per scontata. Lo sapeva il poeta, «c’è qualcosa di nuovo oggi nel sole, anzi d’antico»… come non intenderne il senso profondo, l’eterna attualità?
Questo è ciò che fa ogni giorno Lisa Perini con la sua pittura, le sue installazioni e performances, dare spazio alle emozioni che vengono da ogni luogo, incantarsi ed incantarci di fronte ad un paesaggio lagunare come davanti alla cartina lucente che avvolge una caramella, osservare un’architettura con la stessa intensità di un frammento colorato di plastica, di una perlina di Murano o di un ciuccio di bimbo, sognare una natura che realizzi pienamente, attraverso le visioni e i Paradisi di cui l’arte è capace, quel sentimento di totalità che solo può abbracciare erbe, fiori, cieli, animali e uomini come parti inscindibili della stessa vitale pulsione.
In Lisa, parafrasando Nietzsche, il Caos originario da cui sempre scaturisce la pittura partorisce stelle danzanti.
Finnegans ha ritenuto, dunque, opportuno dedicare al lavoro dell’artista trevigiana un ampio profilo critico e iconografico che, per l’ampiezza dei materiali proposti, dovrà essere suddiviso in due parti, pubblicate una di seguito all’altra.
Il 20 aprile scorso abbiamo pubblicato la prima parte del reportage con un’intervista a Lisa Perini, condotta da Luigi Viola, che si propone di tracciare, con le parole di Lisa stessa, il complesso percorso dell’artista, i passaggi e le evoluzioni del linguaggio fino alle ultime esperienze, delineando i tratti della sua poetica.
All’intervista sono seguiti due commenti analitici di Giorgio Nonveiller e Luigi Viola, entrambi docenti di indirizzo di Lisa all’Accademia di Belle Arti di Venezia e curatori del volume Il dominio del rosso, edito da Marsilio nel 2006, da cui i testi, relativi ad alcuni importanti aspetti e fasi della formazione accademica di Lisa, sono stati tratti.
In questa seconda parte ospitiamo i testi di Nicola Cisternino e Giordano Montorsi (docenti di Lisa all’Accademia di Belle Arti di Venezia), accompagnati dagli scritti e recensioni di Simone Gobbo, Valerio Dehò, Carlo Sala ed Ennio Pouchard che, unitamente all’apparato iconografico, daranno completezza ad un affresco molto articolato dell’arte di Lisa Perini.
LISA DAGLI OCCHI BLU
di Nicola Cisternino
Incontrai Lisa la prima volta nell’Aula Due del corso di Pittura di Luigi Viola e Fabrizio Gazzarri durante le varie visite di lavoro per l’organizzazione delle iniziative (concerti, mostre, seminari) che in quello storico spazio dell’Accademia di Belle Arti di Venezia abbiamo organizzato con Sonopolis dalla fine degli anni novanta. Lisa era una delle studentesse del corso di Pittura allora nella fase dei ritratti; ricordo che quel primo incontro avvenne il giorno in cui stava realizzando il ritratto ‘rosso’ di Fabrizio Gazzarri, così simile, nel mio repertorio di immagini, a uno dei più significativi autoritratti di Arnold Schoenberg.
Lisa era una presenza angelica in quello spazio con le sue libere apparizioni, presenza con cui gli allievi avevano già armonicamente familiarizzato; colpivano le discrete risposte che sempre comunque arrivavano puntuali dai giovani compagni di corso alle sue altrettante imprevedibili quanto insistenti domande.
Le apparizioni di Lisa, sempre più puntuali e sistematiche, continuarono poi anche durante i seminari e i concerti che intanto si andavano organizzando. Era evidente nella sua andatura una sorta di esplorazione con i suoi ‘attraversamenti’ ad anelli dello spazio, passando da un tavolo all’altro, fino alla condizione stanziale al suo tavolo di lavoro, oppure, ad una prolungata immobilità, quando si creavano particolari condizioni di reale ascolto. Il suo modo di ascoltare i suoni è di carattere mobile, totalmente immerso e itinerante nello spazio, quell’attraversamento-caminantes così caro alla poetica e alla vita di Nono. Credo che siano state le esperienze di ascolto delle varie composizioni contemporanee, con le loro ‘stravaganze’ e sorprese acustiche, che caratterizzavano i miei interventi di carattere occasionale allora a richiamare la sua attenzione. Soprattutto, a colpirla, furono le musiche di Giacinto Scelsi (ma anche di Debussy, Xenakis, Nono…) di ispirazione mantrica, che la portarono, sorridente, ad avvicinarsi e fisicamente cercare una qualche forma di contatto; da allora il nostro giocoso saluto di riconoscimento, prima che con la voce, consiste nella presa fra le mani appoggiando le nostre teste nel punto del settimo chakra, proprio come i lama tibetani, facendo vibrare la scatola cranica con il suono mantrico, una sorta di vero e proprio codice di accesso e di con-tatto simpatico, epidermico e sonoro che viene accompagnato sempre da solari sorrisi e saluti. In questa globalità comunicazionale credo siano individuabili le ragioni per cui, qualche anno dopo l’attivazione del mio corso di Arti e Musica Contemporanee nell’ambito del Dipartimento di Pedagogia e Didattica dell’Arte dell’Accademia, fu naturale trovarmi Lisa (con le accorte e discrete coordinate tutoriali di Carlo Damiani) fra gli allievi del corso nel 2003. Fu l’occasione di elaborare nell’ambito delle tematiche del Paesaggio Sonoro una programmazione sul tema dell’ascolto e dell’Acqua, sperando di riuscire a sollecitare qualche forma di interrelazione oltre che fra Lisa e le sonorità del nostro tempo, anche un’ipotesi relazionale e comunicativa nei termini più aperti fra Lisa e gli altri allievi del corso.
Con una certa ‘sorpresa’ ci accorgemmo che Lisa oltre a mantenere la sua cronometrica puntualità di presenza alle lezioni (ormai si era entrati nella fase di sua piena autonomia logistica anche negli spostamenti e dunque nei suoi arrivi a Venezia), aveva allungato i suoi tempi di attenzione, ma anche di diretta partecipazione, alle lunghe lezioni che con gli ascolti superano ogni volta le tre ore effettive. E inoltre, anche se avevo suggerito a tutti gli studenti la possibilità di accompagnare o ‘registrare’ gli ascolti con una libera attività sismo-grafico di carattere automatico, Lisa solo raramente disegnava, mentre preferiva soprattutto l’esercizio della scrittura. Un’attività che divenne abbastanza sostenuta, e a tratti frenetica, nel corso delle lezioni con la creazione di un vero e proprio quaderno di racconti e di esperienze la cui lettura fu occasione in classe di ripetute riflessioni e dibattiti fra Lisa e tutti noi.
Di questi flussi di pensieri, ordinati e scanditi da una tessitura chiara ed efficace, colpiscono soprattutto i fili che collegano sequenze di immagini strettamente relazionate alle dirette esperienze vissute; dagli incontri col mare, ad immagini familiari più o meno dell’infanzia, ai segni sulla sabbia, alle conchiglie, alle ‘voci’ dei delfini (che Lisa associò immediatamente a quelle dei bambini)…
E un segno che credo significativo, mi sembra essere quello che nella sua ultima installazione realizzata nel giugno 2005 nell’Aula di Pittura, Lisa rappresenti una sorta di elaborazione del suo mondo (rosso) nell’idea del mare, della sua vita e delle sue onde, con l’espansione nello spazio tridimensionale oltre che in termini di superficie (credo che sia la sua più voluminosa realizzazione creativa) anche in termini percettivo-sensoriali. Nel profondo rosso che caratterizza la sua creazione, questa installazione, di carattere quasi scenico-rappresentativo, mi sembra essere una sorta di idea sonora del mare che si potrebbe ascoltare, con le sue voci e le sue risonanze. Come anche altrettanto significativo mi sembra essere, all’interno di quest’opera-palcoscenico, l’inserimento ripetuto di ‘utensili-icone’ dell’idea della Musica, dal leggio agli strumenti… Ed uno in particolare, collocato in posizione quasi centrale, una chitarra dipinta di blu quasi che quello strumento oltre ad essere fonte generativa di suono fosse fatta d’acqua. Una cognizione che traduce una felice e lirica intuizione di carattere fisico-acustico (la vibrazione delle corde in quanto principio generativo del suono dello strumento) in referenze più o meno profonde e simboliche (le onde del mare).
Mi sembra, nel sensibile percorso umano ancor prima che artistico di Lisa, una mano tesa al mondo e alla vita, oltre che un autentico insegnamento per noi tutti.
LA TECNICA PITTORICA DI LISA PERINI
di Giordano Montorsi
All’inizio ci fu la sorpresa e la curiosità. Come una autentica forza della natura Lisa sapeva usare il colore nella sua massima potenza. Con padronanza, con sapiente e innato uso della composizione, risolveva il lavoro con un’autentica originale e bizzarra armonia. Bizzarra in questo caso sta per libera, sciolta, ma consapevole. Il suo lavoro quindi si presentava, come un intero universo immaginario che si muoveva sotto forma di energia vitale all’insegna della pittura come gioia. Quando dipingeva partendo dalla realtà non si accontentava di coglierne gli aspetti superficiali, non si fermava alle apparenze ma, al contrario, con rara sapienza sapeva coglierne nel profondo gli aspetti più nascosti, più veri.
A tale proposito penso al grande lavoro che Lisa eseguì sul ritratto composto da decine di immagini di amici e di persone a lei vicine. La sua pittura, ad alto impatto comunicativo ed espressivo, ha in sé la grazia e la forza che solo i veri artisti possono avere. Come nei sogni e nelle favole, i suoi segni, i suoi colori, le sue figure ci attraggono, ci affascinano e nel lasciarci accarezzare da quello che noi definiamo il piacere semiotico della superficie si produce in noi lo stupore.
Dall’approccio didattico con Lisa è presto emersa la sua necessità di essere libera nelle proprie scelte di percorso tecnico: una volta apprese le modalità e la resa dei vari media, lei li faceva suoi e li piegava alle proprie esigenze espressive. Non ho mai trovato grosse difficoltà ad avvicinarmi al suo mondo, ferma restando l’esigenza di lavorare con accortezza esercitando i necessari accorgimenti comunicativi, in costante collaborazione e sinergia con il suo tutor, Carlo Damiani, mi è sempre stato relativamente facile intuire le esigenze di Lisa, per assecondarle se necessario, indirizzandole verso un uso nuovo o appropriato degli strumenti e delle tecniche pittoriche.
In tre anni di percorso fatto assieme posso affermare di aver visto crescere l’orizzonte espressivo di Lisa, la sua sapienza nell’uso del colore, la sua padronanza dei media e la confidenza con cui lei trasmette il proprio immaginario, la propria inesauribile fantasia sulla tela. Quella che indebitamente (o indubbiamente?) emerge dall’arte di Lisa è un’istanza di libertà espressiva che in nessun modo degenera nell’anarchia caotica dei mezzi impiegati, è una libertà che si realizza sempre attraverso un uso premeditato e rispettoso delle potenzialità degli strumenti impiegati.
TUTTO È CONTROLLO NIENTE È MAI COME PRIMA
Una conversazione con Lisa Perini
di Simone Gobbo
Via Cornarotta è una strada della mia città, una delle molte che si intrecciano nel cuore dello spazio ancora superficialmente medievale di Treviso; la attraverso da molto tempo con passo nervoso e intento a risalirla a partire dall’incrocio con via Municipio. Sono sempre diretto al civico 14 dove ho il mio studio, qualcosa che fa parte della mia dimensione personale, quasi una mia estensione fisico spaziale. Si tratta dei miei pensieri, dei progetti, delle tensioni dirette ad intermittenza in entrata e uscita, come nel tentativo di definire al meglio le cose lungo il tempo, intorno e vicino.
Fisicamente occupo con il mio studio di architettura il piano mezzanino della Torre medievale del Visdomino, il mio spazio ideativo quotidiano si sovrappone e si incastra quasi perfettamente con l’atelier “Arturo Martini” dell’artista Lisa Perini.
Noi tutti – e per «noi tutti» intendo i corpi e le parole che abitano l’edificio – siamo soliti tagliare corto riferendoci alla sopracitata Torre Medievale del Visdomino (di fatto monumento urbano abitato), con il più risolutivo e diretto: la torre.
Con la torre viviamo una sorta d’intimità personale, ognuno di noi – come gli abitanti del condominio di Ballard – ha un rapporto individuale molto stretto con questa architettura verticale in mattoni imprecisi, qualcosa che travalica completamente la sua presenza monumentale.
Tutto questo in qualche modo ha a che fare con la torre, tutti noi abbiamo a che fare con la torre, con l’influenza che il monumento abitato produce in noi, e credo anche con la grande eterogeneità dei caratteri che la abitano. Come se in realtà queste sovrapposizioni di vite fossero tenute insieme dalla calce che disegna le linee tra i corsi dei mattoni, spesse ed equidistanti in orizzontale e continuamente sfalsate e scomposte lungo la verticale.
Di tutto questo e altre cose discutevo qualche giorno fa con l’artista Lisa Perini, che solitamente nella mia quotidianità di abitante della Torre è semplicemente Lisa. Come a volte mi capita, giravo intorno per il suo atelier al pian terreno registrando lo spazio e le cose che lo riempivano; nel frattempo lei era intenta a lavorare alla sua produzione artistica, Lisa è sempre molto indaffarata (come lo sono tutti gli abitanti della torre, sempre in movimento intenti a salire e scendere la torre, ad entrarci e uscirci rapidamente).
Siamo in pieno inverno e l’atelier è illuminato principalmente dalla luce artificiale, qualche lampadina standard E27, Lisa è in piedi vicino a me, dietro ad un grande cavalletto in legno, ha sempre questo modo di registrare le cose con un sistema periferico davvero acuto e preciso – ho avuto modo di studiarla nel tempo questa sua caratteristica durante la nostra frequentazione di abitanti della Torre e in altre circostanze – riesce a filtrare le informazioni e a memorizzare gli aspetti per lei significativi.
Sostanzialmente ha costruito un registro di analisi periferico, da abbinare alla sua attività principale che sta svolgendo, solitamente dipinge o seleziona oggetti e frammenti, il suo atelier stesso è come una scatola (la principale, ogni spazio che abita tende a strutturarsi in questo senso) dove immagazzina le cose che rientrano in questo registro personale.
Così mentre le faccio notare la cosa, apriamo una nuova discussione su come il lavoro, se ben eseguito richieda concentrazione, ma allo stesso tempo sia necessario qualcos’altro sullo sfondo, una sorta di bilanciamento per soddisfare la parte ludica che ognuno di noi cova dentro, una quota diaria di leggerezza da tenere ben presente in ogni sforzo.
In sottofondo c’è una radio accesa – un aspetto comune mentre Lisa lavora –, danno una vecchia canzone di Sinatra, ho difficoltà a decifrarne il titolo, poi viene interrotta da un radiogiornale con le principali notizie del giorno, un rendiconto sufficientemente avvilente sul paese, chiedo a Lisa che rapporto ha con la tv, i giornali, e i media in genere.
Ne esce che mal sopporta il mondo dell’informazione massificata, che durante il giorno la tv non la vede mai, e che preferisce tenersi alla larga dai drammi in amplificazione costante; trova interesse invece nell’astronomia, mi dice che questa è una delle ricerche costanti nella cronologia del suo smart-phone, lo usa con molta disinvoltura, la stessa con la quale se ne disfa, attratta nuovamente dall’attività principale in atto.
Sta disegnando su una tela bianca, usa una matita leggera, direi si tratti di uno schizzo preparatorio, messo in atto su quello che sarà poi anche il supporto definitivo. Il soggetto è la chiesa di S. Servolo a Venezia; avevo già visto un’altra versione con lo stesso soggetto, così comincio a chiedere a Lisa dei soggetti, di come si stia orientando ultimamente il suo lavoro.
Mi parla a tratti del suo legame con Venezia, dell’impatto soprattutto con il suo immaginario, poi il rapporto personale con l’Accademia, come un habitat naturale istintivamente affine, e finiamo sulla questione del camminare, nella profonda libertà dell’esplorare il mondo, le cose, del trovare non tanto l’inaspettato (desiderio comune), quanto invece quello che si cerca davvero.
Lisa ha un notevole pragmatismo, desidera arrivare alle cose, vive l’arte intensamente, con un approccio molto diretto, come nei suoi tratti più marcati, è dotata di una forma di comunicazione verbale poco incline a perdersi nei convenevoli o in aspetti secondari.
Molti osservano le sue opere e sono attratti principalmente dalla sua immaginazione, tralasciando completamente il suo rapporto diretto con le cose del mondo, invece ha una manualità ed una straordinaria capacità di concretizzare il suo immaginario, Lisa fissa le cose, non le lascia scorrere o sospese nel vuoto del tempo.
Così torniamo sul senso di un’altra versione di S.Servolo (l’opera alla quale lavora in questi giorni) e conveniamo che in fondo l’arte forse è un tentativo di fissare le cose, di tenere insieme le diverse S. Servolo, e come per farlo sia necessario operare sulla continuità; sotto questa luce il suo lavoro non è un gesto isolato, ma appare come un gesto da ripetere nella quotidianità. Associamo spesso la ripetizione come ad un’azione meccanica, come ad un automatismo, ma è come se in Lisa questa continuità fosse pensata nuovamente ogni volta che avvicina il colore alla tela; niente è meccanico, niente è mai come prima.
Penso che continuità sia una parola importante per Lisa, qualcosa di spaventoso e rassicurante insieme, poi allargando la questione dell’arte come progressione di sequenze, di opere successive, ci troviamo a parlare del destino delle opere, del suo rapporto con le cose intorno a lei.
Lisa dimostra un legame profondo, mi parla del desiderio di rivedere i suoi dipinti, le sue sculture, le sue installazioni nella collocazione attuale, una forma incerta tra curiosità e nostalgia delle cose, di osservare come queste si mescolano con gli uomini e le donne che le custodiscono.
In fondo sono estensioni di un momento specifico della sua esistenza, un punto preciso nella linea continua del suo lavoro nell’arte, e perderne contatto provoca un momentaneo disorientamento.
Racconto a Lisa della collocazione esatta di una sua opera che custodisco nella mia biblioteca, in una parete ben illuminata tra due finestre, descrivo l’ambientazione con precisione, le mostro anche una foto archiviata nella memoria interna del mio smart-phone; così Lisa osserva rapida, poi continua a lavorare come soddisfatta dell’esito, già concentrata altrove, a ritrovare la meccanica del gesto, a perderla progressivamente, tutto è controllo, niente è mai come prima.
Il mondo di Lisa
di Valerio Dehò
“la pittura è colore in azione”, Josef Albers
dal catalogo della mostra Lisa Perini Paradisi, a cura di Chen Mei-Yuan
Fondazione Benetton/Spazio Paraggi, 2010*
Certamente è il colore che attrae immediatamente nei quadri di Lisa Perini, perché è il colore che domina e assorbe la percezione dell’opera, la sua totalità. Grazie alla dominante cromatica questa possiede una radicalità che mette in crisi il sistema tradizionale e codificato del tonalismo e anche l’esperienza minimalista dell’arte contemporanea che prosciuga la pittura nella monocromia. Non si tratta di dare valore assoluto al colore, isolandolo rispetto all’ambiente come presenza esistenziale sciolta da ogni legame con la pittura, ma di dargli un valore che non sia nemmeno esclusivamente simbolico.
È chiaro come questa simbolicità sia ineliminabile perché siamo influenzati dai colori nella nostra attività organica, figuriamoci in quella storico-culturale. Ma prima di arrivare a questi aspetti nel lavoro della Perini si avverte chiaramente come il colore sia per lei un liquido amniotico in cui far “vivere” i suoi oggetti e i suoi personaggi. L’artista oltre a procedere con una fortissima semplificazione iconica e cromatica, dà vita, quasi in senso letterale, ad un proprio mondo che riceve linfa dalla materia del dipingere. La tecnica ad olio amplifica questa sensazione. E a guardare e riguardare i suoi quadri, sempre intensi e di una densità sentimentale straordinaria, si cerca sempre di coglierne l’essenza. Questa, a mio parere, appartiene non solo alla ricostruzione di un universo personale che si riflette e diarizza sulla tela, ma soprattutto in questa concezione della pittura come nutrimento. Le “alte paste” come si diceva un tempo dell’Informale sono in realtà una tensione a nutrire l’opera e i suoi numerosi componenti.
L’iperselettività e quindi la mancanza di una visione gestaltica non riesce mai, soprattutto da quando negli ultimi dieci anni è cresciuta la sua consapevolezza tecnica, a scardinare la centralità della massa coloristica che è vero legame e legante biologico delle sue composizioni.
Trovo questo aspetto dinamico una vera e propria materia vivente che Lisa Perini organizza in forme sempre diverse, sempre più volontariamente destrutturate. Forse una certa gerarchia tra le figure emerge soprattutto nei bellissimi nudi femminili della fine degli anni ’90, ma il vuoto non ha motivo di essere proprio perché c’è la materia del colore che satura e innerva la composizione.
Da storico dell’arte, l’idea che sorge riguarda proprio le sue fonti d’apprendimento, perché in queste figure, più che in altri lavori, la memoria del primo espressionismo o la insubordinazione fauve alla prospettiva emergono limpide, così come traluce la superba lezione di Matisse.
Ma Lisa Perini guarda e ricrea, il suo percorso di apprendimento come artista sembra sempre essere stato una forma di affinamento e presa coscienza degli strumenti linguistici. Ogni suo progresso nella padronanza delle tecniche viene usato per aumentare le sue possibilità di creazione del proprio mondo, come se questo si strutturasse in un percorso parallelo di crescita e immaginazione. Certamente nei grandi quadri rossi, già perfettamente indagati da altri studiosi, o nei più recenti e incredibili “bianchi”, è proprio la pittura che si fa sostrato vitale, materia mielosa che accompagna i personaggi e che sostiene gli oggetti che si affastellano per molteplici associazioni.
Tale polarizzazione bianco/rosso è indicativa di come l’idea oppositiva del vitalismo e della scomparsa siano per Lisa Perini centrali nella sua riflessione pittorica. Il bianco che appare nei suoi quadri, probabilmente in relazione alla scomparsa di un affetto familiare, è di per sé il colore/non colore della morte, della perdita. Ci sono pagine bellissime di Sartre a proposito e lo stesso Camus parlava del bianco abbacinante dell’ora meridiana, in cui l’accecamento della luce può produrre ogni cosa e l’assurdo dell’esistenza si manifesta. Se il bianco è candore e verginità, presso molte culture come quella cinese diventa simbolo di morte. Ma soprattutto in questo caso otre “il dominio del rosso” c’è proprio il bianco ad attendere gli esiti di una riflessione poetica sulla vita che non può che confrontarsi anche con il suo limite.
È anche vero che nel corso della sua attività l’esperienza del colore è stata per la Perini sufficientemente ampia, ma certamente la sua focalizzazione è andata nella direzione appena accennata. E poi c’è tutto il suo universo di object trouvè che procede di pari passo con la pittura e che soprattutto nella pittura trova la sua espressione più compiuta. Qui diventa simbiotica, mentre nelle sculture, negli oggetti tridimensionali, i frammenti di vetri, plastiche e le “cose” in generale sono più manifestamente legati al supporto. La pittura li fa vivere inglobandole nel tessuto magmatico-epiteliale, diventano più integralmente parte del tutto. I vetri, i catarifrangenti delle auto, i frammenti dei fanali hanno sempre a che vedere con la luce e la trasparenza. Da un lato sono oggetti che portano con sé la propria storia, sono quasi lacerti del mondo altro che vengono assorbiti e fatti propri dall’artista. Dall’altro sono dei simboli di attraversamento e di declinazione della luce verso una direzione consapevole quanto voluta. In fondo è la ragione stessa della pittura non solo di dare forma ai sogni e ai sentimenti, ma anche di catturare la luce e di fissarla sulla tela. Linguaggio e materia in Lisa Perini sono perfettamente coesi, proprio perché vi è una sorta di organicità nel suo uso massiccio del colore che è realmente luogo e sostanza delle opere. Tutto vive in uno slancio vitalistico che è molteplicità, che riflette i punti di vista e rifrange, anche fuor di metafora, le linee luminose.
Questa capacità di creare intensità, forza ed energia sono le caratteristiche del lavoro dell’artista trevigiana, che partendo dalla creazione di un proprio mondo concentrato nella composizione e nel colore, è riuscita a trovare innumerevoli ed esteticamente validi legami con il mondo esterno. E questa sua capacità di relazione è tanto più importante perché il proprio linguaggio non è stato confinato nel recinto soltanto della pittura, anche se questa resta centrale e baricentrica. La sua curiosità verso forme d’esperienza e di suggestione diverse, l’ha condotta verso la fotografia, la grafica, il light box e l’installazione.
Questo testimonia di una capacità di sintesi e di apertura alla conoscenza che in molti artisti tende a rarefarsi una volta trovata la propria cifra stilistica. In questo caso la sua magnifica libertà sta proprio nel far parte del mondo dell’arte, ma sempre restando dalla sua parte, senza mai scendere a compromessi che possano prosciugare la sua capacità creativa. Come a dire che nella ricostruzione della sua poetica molti elementi ancora dovranno comparire perché attendono ancora d’essere tradotti nei linguaggi dell’arte, anche se nello stesso tempo uno sguardo complessivo al suo lavoro rivela una personalità formata e matura. Per Lisa Perini l’unione di arte e vita è perfetta, come quella tra la sfera linguistica e la sentimentalità del fare, strada maestra per comunicare e trasmettere emozioni.
LISA PERINI, NATURA GREMBO MATERNO
La performance alla Galleria l’Elefante di Treviso *
di Carlo Sala
Nei dipinti di Lisa Perini (Treviso, 1973) le figure di ascendenza neo-espressionista sembrano avere una posizione preminente rispetto al paesaggio; eppure la rappresentazione, nel suo complesso, possiede uno spirito arcadico fondato sull’armonia tra uomo e natura, che dà vita ad alcune possibili declinazioni contemporanee dell’Eden. La maternità è il tema principale delle tele che sono popolate da genitrici e infanti amici dell’autrice, che – senza perseguire una ritrattistica puntuale – li assume a pretesto per comporre una scena archetipica della vita, sprigionata tanto dal grembo materno, quanto dalle varie espressioni del mondo naturale. In questo senso le donne della Perini sembrano possedere le virtù della divinità primordiale, la Grande Madre, una venere steatopiga capace di incarnare sia la facoltà femminile di generare la vita, che le qualità della natura come donatrice del nutrimento per gli uomini.
Nelle opere degli ultimi anni compare spesso la figura della Madonna, novellando i modelli iconografici della tradizione occidentale, che sono però riletti attraverso un rapporto con il creato lontano dagli eccessi del pensiero antropocentrico e dai dogmi. Non appare casuale dunque che la Madonna dei melograni (2014) di Lisa Perini richiami un prototipo (celebre nella versione di Sandro Botticelli conservata agli Uffizi, 1487), dove è centrale il frutto-simbolo dell’abbondanza e della fecondità, i cui grani possiedono il medesimo colore rosso – emblema della vita e delle sue pulsioni – che domina le tele dell’autrice. Inoltre, nella superficie pittorica dei dipinti “galleggiano” degli oggetti tratti dal reale (carte di caramelle, oggetti catarifrangenti) che compongono un collage capace di riconnettere la dimensione sospesa del dipinto a quella quotidiana dell’artista. La materia cromatica è inoltre “vivificata” da elementi organici come il tuorlo e l’albume dell’uovo (che imprimono idealmente all’opera una natura fragile e corruttibile); o da semi vegetali che rimandano alla ciclicità delle stagioni e alla caducità dell’esistenza.
La performance Natura grembo materno (2016) che Lisa Perini realizzerà alla Galleria L’Elefante di Treviso è la cristallizzazione di tutto quest’universo visivo. Di qui la messa in scena di una serie di azioni minimali, fatte con oggetti domestici capaci di assumere un carattere allegorico: uno strumento tibetano per rappresentare – come scrive l’artista – «il canto della vita lattea come grembo materno»; una sciarpa viola e una collana bianca, che, nel loro movimento, rimandano alle stelle danzanti del cosmo; una sciarpa azzurra, che evoca il soffio del vento e il moto degli oceani; le rose bianche che richiamano direttamente la neve; un gioco per bambini che teatralizza il rapporto genitoriale nei suoi aspetti più lieti; il rumore prodotto da una scatola di cioccolatini che ricorda un battito cardiaco. Lo svolgimento dell’azione vuole allestire una corrispondenza tra la figura femminile, generatrice della vita, e gli elementi della natura e del cosmo per rendere i fruitori partecipi del sentimento di armonia inseguito dell’artista.
* in occasione della mostra Lisa Perini – Natura grembo materno (14 gennaio – 18 febbraio 2017) alla Galleria arte contemporanea l’Elefante di Treviso.
“Natura grembo materno”
di Ennio Pouchard
Nella mostra “Natura grembo materno”, aperta fino al 18 febbraio alla Galleria L’Elefante Arte Contemporanea, via Roggia 62, la pittrice trevigiana Lisa Perini espone un gruppo di oli recenti. Forti nell’espressione e narrativamente concentrati sul tema dell’intimità madre-figlio, vissuta in ambienti familiari di amici a lei vicini, si legano al mondo interiore cui con spontaneità l’artista si ispirava fin da bambina per i suoi primi disegni, nei tardi anni ’70; e si sviluppano ora in una fusione di segno-colore-materia, basata sulla prevalente cromia dei rossi accesi. Questa tendenza stilistica si è esplicitata una ventina di anni fa, dopo la laurea della Perini all’Accademia di Venezia, con Luigi Viola: docente e artista incline a un linguaggio pittorico narrativo, filosoficamente convinto sostenitore della sacralità del corpo, appassionato studioso e produttore di video, performer. Sulla prima di tali caratteristiche – il narrare – e sull’ultima – la performance è verosimile che Lisa abbia plasmato le sue creazioni, innovandole con il proprio prolifico sentire e partecipare: la si è vista al vernissage, con la recita in cui evocava allegoricamente vari aspetti di una “Natura-Mater” universale, usando sciarpe, collane, rose, una scatola di cioccolatini e uno strumento musicale del Tibet; e per tutti i giorni successivi con il potere inconscio dei dipinti che nel silenzio esprimono il senso della totale libertà inventiva da cui sono stati generati, dove le storie fibrillano nel mare delle loro tonalità collegando un’opera all’altra.
Su un fondale rosso, ecco “Veronica” dal corpo nudo e azzurro, emergere beatamente sdraiata su un prato verde rallegrato da fiori rossi, con la figura del bimbo che porta in grembo, anch’egli tutto blu, reso visibile immerso in un liquido amniotico dorato: una scena cui la presenza dei gatti conferisce una sfumatura domestica. In un’altra, ancora Veronica, che adesso allatta il bambino, in un atteggiamento d’intima felicità, affine al calore dei toni della tavolozza. E poi c’è “Francesco Maria” – un pargolo dai capelli verdini, gli occhi e le labbra blu – che su un fondale rosso pare sgambettare in una culla, cui gli inserti di minuterie coloratissime e brillanti – come Lisa Perini usa impreziosire le sue opere – infondono la joie de vivre.
Questi lavori sembrano attraversati da una brezza di beatitudine, sbocciati come in un giardino, e non pare casuale quel grande fiore rosso che cresce dal pavimento, rimasto lì dalla performance che ha inaugurato la mostra. L’atmosfera è favolisticamente serena: la sensazione che se ne ricava è quella di un’intima e coinvolgente armonia. Nella vita, l’artista segue un ben programmato iter espositivo, che l’ha vista presente, tra l’altro, in rassegne all’estero, fino a Taiwan, alla Biennale veneziana in eventi collaterali, in una personale al Museo d’arte contemporanea Luigi Pecci di Prato, poi come vincitrice del premio Visual Arts al VII Anca World Autism Festival di Vancouver (Canada) e infine in ripetuti eventi di arte-musica, particolarmente significativi perché elaborati e vissuti assieme ad Alessandro, il fratello chitarrista. (Ennio Pouchard, Il Gazzettino, 21 gennaio 2017)
Foto di copertina: «Lisa alla sua mostra “To Osor in concert 2017” – Sala del Comune di Ossero (Croazia)»
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