RIVISTA DI CULTURA MEDITERRANEA

L’illusione di un lieto fine: note su “Il sol dell’avvenire” di Nanni Moretti, a cura di Michele Felice

[Tempo di Lettura: 7 minuti]
Nanni Moretti (Cannes 2012, Wikimedia Commons)

Il titolo dell’ultimo film di Nanni Moretti, Il sol dell’avvenire, è un emblema fantasmatico. Un avvenire incerto, anzi certamente deprimente, è illuminato da un sole rimasto di cartone come nel finale di Palombella rossa, o vagamente tramutato qui, per pochi secondi di scena, in quella che pare una lanterna luminosa di forma rotondeggiante, destinata presto a spegnersi, che sale nel cielo di una Roma notturna. Il resto è fantasticheria che compenetra il surreale e l’intimistico. 

Giovanni, interpretato da Moretti, è un regista consolidato che gira un film su una piccola sezione del Partito Comunista italiano che ospita un circo itinerante ungherese durante i fatti d’Ungheria del 1956. I protagonisti del “film dentro il film” sono il capo della sezione, giornalista per l’Unità, e una sarta, sua compagna di partito. Tutto è pervaso da una difficoltà inafferrabile che lascia Giovanni costantemente insoddisfatto: gli sfugge sempre qualcosa, dentro e fuori dal set. La sua vita va a rotoli come va a rotoli il suo film, e non ne capisce il motivo. 

Sotto i flussi ingarbugliati che corrono in disordine tra film e spettatore, sotto il tema etico e politico, sotto l’intreccio sentimentale e le riflessioni sul ruolo dell’arte, domina incontrastato un senso profondo ineludibile, fatto di solitudine, fallimento e incomunicabilità. Tutto il resto, a questo punto, si rivela superfluo o al limite strumentale, eppure anche necessario. 

Giovanni non capisce cosa c’è che non funziona nel suo film, come non capisce cosa non funziona nella sua decennale relazione con la compagna. A un certo punto lei lo abbandona, come sembra abbandonarlo l’organismo filmico. Giovanni non riesce a comunicare con nessuno e nessuno riesce veramente a comunicare con lui: il suo è un monologo esasperato ed esasperante che si protrae fino alle estreme conseguenze. 

In una scena fondamentale, freccia di senso profondo che trafigge l’allucinazione, una breve battuta indica la direzione su cui allineare la mente per una comprensione autentica e disincantata. I due protagonisti del “film dentro il film” sono seduti al bar, avvolti dal dubbio, dall’incertezza sulla posizione da prendere in relazione ai fatti d’Ungheria; ma ad un tratto la protagonista bacia il capo di sezione. Giovanni interrompe la scena incredulo, gridando “Aiuto, stop!”. Si avvicina ai due e tenta di spiegare che “questa è una scena in cui parlate di politica”, ma la risposta di lei è un macigno che gli si posa sul cuore: “chi se ne frega della politica. Questo è un film d’amore!”. Giovanni abbassa lo sguardo, annichilito da un linguaggio che non riesce a capire, come accade quando si è disarmati mentalmente e fisicamente mentre si tenta di decifrare una lingua straniera che non si comprende o non si ricorda d’aver saputo parlare. Giovanni riesce a riconnettersi con il flusso sentimentale solo in sogno, dove si trova a dover dare consigli, da regista, a sé stesso e a sua moglie da giovani, agli esordi e al culmine intensivo della loro vita amorosa.

Se lo spettatore prosegue nella direzione segnata dalla frase dell’attrice del “film dentro il film” – “chi se ne frega della politica. Questo è un film d’amore!” – troverà che persino l’amore, pure soppiantando a mani basse la politica, non è il tema portante; che persino l’amore, nella esperienza di Giovanni, viene inibito da una forza sovrumana che polverizza i legami, le connessioni con il mondo. Riformulando la frase dell’attrice diremo: il film di Moretti non è un film sulla politica, non è un film sull’amore; è un film sulla sconfitta individuale. 

Al pari del senso profondo, la pellicola è anche una prova di raffinata regia, forse la più raffinata tra tutte le opere morettiane. Con i primi piani su Giovanni, tragicomici, che frenano il ritmo, lo spettatore saggia il peso dell’inadeguatezza individuale, l’impossibilità del protagonista di seguire il mondo e farsi seguire dal mondo attorno. È il caso, per darne un solo esempio, della scena in cui due rappresentanti di Netflix, dopo aver ripetuto per tre volte consecutive che i loro prodotti “sono visti in centonovanta Paesi” – primo piano su Giovanni che annuisce con un lieve sorriso spento – gli spiegano che la sua sceneggiatura è uno “slow burner che non esplode” – ancora un primo piano su Giovanni, che chiede tra l’ingenuo, l’ironico e l’apatico “No?” – chiudendo col fargli notare che manca nel suo film un momento “what the fuck”. E il momento WTF si palesa esattamente un istante dopo, attraverso l’espressione attonita di Giovanni, di nuovo inquadrato in un primo piano prolungato rispetto alle due volte precedenti. 

HG Studios, Risonanze

Il film, a ben pensarci, è tutta una sequenza di inquadrature prolungate sul volto del protagonista, che spezzano il ritmo e danno la prima e più immediata chiave di lettura allo spettatore, tragica e comica al contempo. Se i primi piani prolungati rappresentano una stasi allucinata e attonita, la risoluzione formale arriva nel gesto più volte ripetuto, da parte del protagonista, di far crollare le braccia e la testa verso il basso, gesto che segna un esito di impotenza e disperazione, un silenzio che grida l’impossibilità della comunicazione.

L’ironia di Moretti fluisce sul mare del disagio esistenziale. Il momento più intenso è certamente quello in cui Giovanni interviene per tentare di modificare l’ultima scena di un filmaccio girato da un giovane regista ottuso e ignorante, scena che così com’è durerebbe qualche secondo: un malavitoso in piedi dovrebbe sparare in testa ad un altro, inginocchiato di fronte a lui. Giovanni è scandalizzato dalla facilità e dalla superficialità con cui viene trattato l’atto, dall’assenza di etica ed estetica dell’arte. A un certo punto, pensando di poter insegnare qualcosa al giovane, cita Breve film sull’uccidere di Kieślowski (1988), raccontandogli la scena dell’assassinio – lento ed esasperato – di un tassista da parte di un giovane poco di buono: scena dilatata e straziante, che proprio per la sua durata prolungata dovrebbe far gonfiare nello stomaco dello spettatore un rigetto, un disgusto per la morte, per l’assassinio. Giovanni blocca la scena dell’esecuzione per una notte intera, cercando una soluzione virtuosa ed esasperando i presenti, compresa la moglie, che collabora alla produzione del filmaccio. Qui la dilatazione fa parte di una strategia umoristica, ma questa lunga interruzione colorata d’ironia acquista un senso profondo nella misura in cui, fuor di finzione, lo spettatore del film di Moretti assiste a una scena che dura per un tempo paragonabile a quello della scena dell’assassinio del tassista nel film del regista polacco. Alla fine, dopo i vani tentativi di ragionare con il giovane, Giovanni si allontana deluso e a testa bassa dal set, mentre alle sue spalle l’esecuzione si compie in pochi secondi come da copione: uno sparo che risuona nel vuoto di un cantiere, come se non fosse successo niente, come se Giovanni non avesse comunicato niente, come se Giovanni non esistesse. È una scena in cui Moretti, forzandone la durata e l’esasperazione, rappresenta l’assassinio di un’arte concepita come compartecipazione di etica ed estetica, inscindibili e necessarie, così che lo spettatore possa sentire nelle viscere un rifiuto per la facile vacuità, per l’etica del brutto; Moretti rappresenta tutto ciò come Kieślowski ha rappresentato, dilatandolo ed esasperandolo, l’assassinio di quel povero tassista.

Il cerchio si chiude e Giovanni rimane escluso. Il mondo va avanti senza di lui. Come di norma accade di fronte ai film di Moretti, ad alcuni verrà più facile che ad altri empatizzare con il protagonista, come del resto non a tutti è dato empatizzare con le disavventure esistenziali di Michele Apicella. Chi riconosce in Giovanni un compagno di sventure sente la sua stessa disperazione, per un mondo che sembra girare scricchiolando, sgraziatamente e disgraziatamente, per la dissoluzione della bellezza.

Anche il valore dei gesti, delle piccole cose, si dissolve nella vita personale del protagonista così come nel contesto della preparazione del film. Più volte Giovanni si arrabbia per la presenza di oggetti anacronistici sul set (il cartone di una pizza, un caricabatterie, una sigaretta elettronica) una malcuranza vagamente surreale per i dettagli, da parte dei suoi collaboratori, che riverbera continuamente nella sensazione, da parte di Giovanni, che il mondo attorno a lui non dia giusto valore a ciò che per lui è essenziale, dai dettagli al senso critico complessivo. Basti citare la scena in cui, durante la cerimonia fondamentale per la buona riuscita di ogni sua pellicola, ovvero la visione in famiglia del film Lola di Jacques Demy (1961), viene abbandonato sul divano dalla figlia e dalla compagna, con pretesti inconsistenti se paragonati all’importanza di quel rito. Rimasto solo, deluso, decide di non guardarlo e andare dritto a letto. Così facendo decreta – il gesto si fa destino, come nel mito – il fallimento del film, coerentemente con il fallimento della sua vita coniugale. 

Pare che tutti condividano l’opinione che in questo film il finale sia un finale felice. Credo invece si tratti – se vogliamo utilizzare per forza questo termine – di una felicità allucinata e drogata, figlia della sconfitta e non della effettiva possibilità di una rivalsa. Il tentativo c’è, di cambiare le sorti, di voler fare la storia con i “se”: ma quanto è autentico il risultato? Nel finale Moretti abbandona l’ironia, che lungo tutto il film gli è servita per svelare il tragico, riconoscerlo e farlo riconoscere allo spettatore, sostituendola con l’illusione di una vittoria su quel tragico che tutto copre. 

Alla finezza umoristica, Moretti sostituisce una bulimia ottimistica che non basta mai a sé stessa e si fa sempre più grandiosa, non regolata dalla qualità ma dalla quantità, e soprattutto dalla quantità di personaggi sulla scena. Il protagonista ha bisogno d’illudersi di aver superato la propria sofferenza individuale, di aver sconfitto la forza che lo tiene separato dagli altri. Così il meccanismo che permette un apparente trionfo della felicità e della serenità – la musica condivisa, unico modo efficace, da parte di Giovanni, per instaurare una connessione con gli altri e con il mondo – non può che amplificarsi progressivamente. Non basta più cantare Think di Aretha Franklin in macchina con la moglie, come avviene a inizio film; non basta l’allucinazione dei balli di gruppo sulla musica di Battiato (scena che abbraccia il cuore degli affezionati ed empatici morettiani). 

Il meccanismo si sviluppa e tocca l’apice nella parata finale, per certi versi felliniana, enorme e fagocitante, in cui tutti, proprio tutti, camminano e ridono insieme, vittoriosi sui problemi della vita, sulle angherie della storia. Ma la legge di necessità che scorre nelle profondità della psiche e del cosmo non si fa ingannare dalle trovate registiche, filmiche e metafilmiche. La felicità, l’ottimistico trionfo del sol dell’avvenire, sono illusori. Sono tutti insieme i partecipanti, certo, ma ognuno guarda avanti e ride al vuoto, in una parata che cita Fellini ma si dispone del tutto diversamente dalla passerella finale di Otto e mezzo. Nella sequenza felliniana i personaggi parlano e comunicano, con le voci e coi corpi, mentre qui tutti marciano con lo sguardo e i sorrisi rivolti al vuoto dietro lo spettatore, stanno insieme per imposizione unicamente registica, gerarchica, innaturale. 

La comunicazione umana sembra essere stata troncata definitivamente qualche scena prima, per mezzo di un gesto non a caso virtualmente forte, ovvero quando Giovanni si mette un cappio al collo mentre spiega come dovrebbe esser recitata una scena di suicidio nel “film dentro il film”: è lì che muore la possibilità di un dialogo e Giovanni, sceso dal cappio, se ne va solitario. Segue la scena di un pranzo a casa del vecchio fidanzato della figlia, con i produttori coreani che dovrebbero salvare le sorti del film: tutti iniziano a dire la loro su come chiudere la pellicola, le voci si accavallano, rivolte non l’una all’altra, ma al vuoto. Tutto è incomprensibile, tutto è caos, moltitudine che schiaccia l’individuo.

In questa disperazione, rimane intatta solamente la capacità di riconoscere e comunicare la condizione tragica dell’individuo, attraverso una regia disinvolta e che pure mantiene il pieno controllo su di sé, sulla citazione e l’autocitazione, sull’ironia e l’autoironia, sull’umorismo, sul sentimentale, sulle inquadrature e le tempistiche. Il sol dell’avvenire è raffinato, elegante, più d’ogni altro lavoro di Moretti, che infine compie l’unico gesto di salvezza – una salvezza insieme estetica e morale – che resta immune dalla credulità ottimistica: fare un bel film.


Immagine di copertina, HG Studios, Angoli

  • Michele Felice è dottorando in italianistica presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia. Sta studiando principalmente l’opera di Guido Ceronetti e si occupa di alcuni altri scrittori italiani del secondo Novecento, quali Roberto Calasso, Elémire Zolla, Cristina Campo e Giorgio Manganelli.

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