Essere e sapere
Versioni di Stefano Strazzabosco
I poveri alla stazione delle corriere
I poveri viaggiano. Alla stazione delle corriere
allungano il collo come oche per guardare
i cartelli dei pullman. E i loro sguardi
sono quelli di chi ha paura di perdere qualcosa:
la valigia dove tengono una radio a pile e una giacca
del colore del freddo in un giorno senza sogni,
il panino di mortadella in fondo alla sacca,
e il sole delle periferie e la polvere più in là dei cavalcavia.
Tra gli annunci degli altoparlanti e il rumore dei motori
hanno paura di perdere la corriera
nascosta nella nebbia degli orari.
Quelli che dormicchiano sulle panchine si svegliano di soprassalto,
per quanto gli incubi siano un privilegio
di chi riempie l’udito e il tedio degli psicanalisti
nei consultori asettici come il cotone che tappa il naso dei morti.
Nella fila i poveri assumono un’aria solenne
che mescola timore, impazienza e sottomissione.
Che grotteschi sono i poveri! E che fastidiosi
i loro odori, anche di lontano!
Non conoscono le buone maniere, non sanno come comportarsi in pubblico.
Il dito sporco di nicotina stropiccia l’occhio irritato
che del sonno ritiene ancora solo cispe.
Dal seno cadente e gonfio un filino di latte
cola alla piccola bocca avvezza al pianto.
Vanno su e giù per la banchina, saltano e legano valigie e pacchi,
agli sportelli chiedono cose fuori luogo, sussurrano
parole misteriose
e contemplano le copertine delle riviste con l’aria spaventata
di chi non sa come stare al mondo.
Perché andare su e giù? E quei vestiti stravaganti,
quei gialli color olio di palma che fanno male agli occhi delicati
del viaggiatore obbligato a sopportare tanti odori fastidiosi,
e quei rossi squillanti da sagra di paese?
I poveri non sanno viaggiare e non sanno vestirsi.
Non sanno neanche vivere: non hanno idea del comfort
per quanto alcuni di loro abbiano anche la TV.
A dirla tutta, i poveri non sanno neanche morire.
(Fanno quasi sempre una fine brutta e inelegante).
E in qualsiasi parte del mondo mettono a disagio,
viaggiatori importuni che occupano i nostri posti
per quanto noi si viaggi seduti e loro viaggino in piedi.
Os pobres na estação rodoviária
Os pobres viajam. Na estação rodoviária
eles alteiam os pescoços como gansos para olhar
os letreiros dos ônibus. E seus olhares
são de quem teme perder alguma coisa:
a mala que guarda um rádio de pilha e um casaco
que tem a cor do frio num dia sem sonhos,
o sanduíche de mortadela no fundo da sacola,
e o sol de subúrbio e poeira além dos viadutos.
Entre o rumor dos alto-falantes e o arquejo dos ônibus
eles temem perder a própria viagem
escondida na névoa dos horários.
Os que dormitam nos bancos acordam assustados,
embora os pesadelos sejam um privilégio
dos que abastecem os ouvidos e o tédio dos psicanalistas
em consultórios assépticos como o algodão que tapa o nariz dos mortos.
Nas filas os pobres assumem um ar grave
que une temor, impaciência e submissão.
Como os pobres são grotescos! E como os seus odores
nos incomodam mesmo à distância!
E não têm a noção das conveniências, não sabem portar-se em público.
O dedo sujo de nicotina esfrega o olho irritado
que do sonho reteve apenas a remela.
Do seio caído e túrgido um filete de leite
escorre para a pequena boca habituada ao choro.
Na plataforma eles vão e vêm, saltan e seguram malas e embrulhos,
fazem perguntas descabidas nos guichês, sussurram palavras misteriosas
e contemplam as capas das revistas com o ar espantado
de quem não sabe o caminho do salão da vida.
Por que esse ir e vir? E essas roupas espalhafatosas,
esses amarelos de azeite de dendê que doem na vista delicada
do viajante obrigado a suportar tantos cheiros incômodos,
e esses vermelhos contundentes de feira e mafuá?
Os pobres não sabem viajar nem sabem vestir-se.
Tampouco sabem morar: não têm noção do conforto
embora alguns de eles possuam até televisão.
Na verdade os pobres não sabem nem morrer.
(Têm quase sempre uma morte feia e deselegante.)
E em qualquer lugar do mundo eles incomodam,
viajantes importunos que ocupam os nossos lugares
mesmo quando estamos sentados e eles viajam de pé.
Verità e menzogna
Il mare rovesciato:
le costellazioni
sono barche.
La poesia è una menzogna.
Le stelle non sono barche.
Il cielo è un’illusione.
La verità sta sulla terra,
nelle barche ancorate
lungo il molo.
Verdade e mentira
O mar às avessas:
as constelações
são navios.
A poesia é uma mentira.
As estrelas não são navios.
O céu é uma ilusão.
A verdade está na terra,
nos navios ancorados
ao longo do cais.
La macchia irreparabile
Il tuo pube: la pecora nera
nel bianco gregge del tuo corpo.
A mancha irreparável
Teu púbis: a ovelha negra
no branco rebanho de teu corpo.
Essere e sapere
Ho visto il vento soffiare
e la notte calare.
Ho sentito il grillo saltare
nell’erba tremante.
Ho camminato in un’acqua
più bella della terra.
Ho visto il fiore aprirsi
come s’aprono le conchiglie.
Il dì e la notte si sono uniti
per ungermi.
Luce e ombra insieme
hanno abbracciato i miei sogni.
Ho visto la formica nascondersi
nella fessura della pietra.
Così si nascondono gli uomini
in mezzo alle parole.
La bellezza del mondo mi sostiene.
È il buon pane mattutino
che la mano più umile mette
sulla tavola che separa.
Non sarò mai uno straniero.
Non temo l’esilio.
Ogni parola mia
è una patria segreta.
Sono tutto ciò che si dà:
il tuono e la chiarità
le labbra del mondo
le stelle che passano.
Conosco solo l’origine:
l’acqua nera che lambisce la terra
e i granchi nell’ombra
fra le radici delle mangrovie.
So solo quello che non ho imparato:
il vento che soffia
la pioggia che cade
e l’amore.
Ser e saber
Vi o vento soprar
e a noite descer.
Ouvi o grilo saltar
na grama estremecida.
Pisei a água
mais bela que a terra.
Vi a flor abrir-se
como se abrem as conchas.
O dia e a noite se uniram
para ungir-me.
O enlace de luz e sombra
cingiu os meus sonhos.
Vi a formiga esconder-se
na ranhura da pedra.
Assim se escondem os homens
entre as palavras.
A beleza do mundo me sustenta.
É o formoso pão matinal
que a mão mais humilde deposita
na mesa que separa.
Jamais serei um estrangeiro.
Não temo nenhum exílio.
Cada palavra minha
é uma pátria secreta.
Sou tudo o que é partilha
o trovão a claridade
os lábios do mundo
todas as estrelas que passam.
Só conheço a origem:
a água negra que lambe a terra
e os goiamuns à espreita
entre as raízes do mangue.
Só sei o que não aprendi:
o vento que sopra
a chuva que cai
e o amor.
La cagna
Attratti dall’odore del sangue delle sue viscere
i cani seguono la cagna in calore come fossero il seguito
di una regina nera. E l’annusano con mosse impudiche
che forse meriterebbero d’essere chiamate amore.
La cagna finge che l’inseguimento le dia fastidio
e si nega come le donne corteggiate.
Un odore penetrante di vita l’accompagna
tra i due soli che fanno da limite al passaggio del giorno.
Di notte, quando la chiudono in cortile,
i cani restano fuori, desolati e fedeli.
E i loro guaiti nel buio ci insegnano
che l’amore è una passione inutile, una porta sbarrata.
A cadela
Atraídos pelo cheiro de sangue de suas entranhas
os cachorros seguem a cadela no cio como se fossem o séquito
de uma negra rainha. E a farejam num movimento impudico
que talvez merecesse ser chamado de amor.
A cadela finge que a perseguição a incomoda
e negaceia como as mulheres requestadas.
Um odor penetrante de vida a acompanha
entre os dois sóis que limitam a passagem do dia.
À noite, quando a encerram no galpão,
os cachorros ficam do lado de fora, desolados e fiéis.
E seus ganidos na escuridão nos ensinam
que o amor é uma paixão inútil, uma porta fechada.
Una preferenza
Agli uccelli che gorgheggiano preferisco quelli che gracchiano
come i corvi o quelli che pigolano nel buio
come le vigili civette bianche che riempiono i miei boschi.
Il canto melodioso rammollisce i corpi
e anestetizza le anime che rinunciano alla riflessione e al tormento
e temono il suono del giorno predatorio.
Ho sempre desiderato che il mio regno fosse quello della dissonanza:
quello del gabbiano che, posato su un palo, rumina la sua empietà,
quello degli uccelli che gracchiano infastidendo i seguaci di un ordine musicale del mondo
come se stessimo in un teatro, sentendo una sinfonia.
Al gorgheggio che porta al piacere e che concilia il sonno
oppongo il gracchiare che assomiglia
all’insonnia e allo sconforto.
Uma referência
Aos pássaros que gorgeiam prefiro os que grasnan
como os corvos ou os que piam na escuridão
como as vigilantes corujas brancas que infestan os meus bosques.
O canto melodioso amolece os corpos
e anestesia as almas que renunciam à reflexão e ao tormento
e temem o rumor do dia predatorio.
Sempre desejei que o meu reino fosse a disonância:
do gavião que, pousado na estaca, rumina a sua impiedade,
dos pássaros grasnantes que incomodan os partidários de uma regência musical do mundo
como si estivéssemos num teatro, ouvindo uma sinfonia.
Ao gorjeio que conduz ao deleite e embala o sono
oponho o grasnido que semia
a insônia e o desconforto.
La scavatrice
Tutti i silenzi mi danno noia.
Omettono sempre qualcosa:
un tradimento tramato in mezzo ai glicini,
la spiegazione definitiva sull’esistenza di Dio o l’inesistenza di Dio,
il rumore dei topi in mezzo alle immondizie,
lo scontro tra l’elica e il vento nell’aeroporto chiuso.
Ma il mattino irrompe sul marciapiede e sento lo strepito della scavatrice.
Gli uomini si sono svegliati e tornano a costruire e a distruggere.
Si fanno nuove case e nuove tombe.
Nel mattino assolato un’auto si ferma all’entrata del motel.
Un’altra volta, fallo e vagina cercheranno di intendersi
in questo mondo di tanti malintesi.
La scavatrice fa il suo lavoro e le macchine avanzano sul cratere come bruchi su una corolla.
Visto attraverso gli occhi sonnolenti del controllore dell’autobus che passa per il viale,
il mondo è una rappresentazione.
A escavadeira
Todo silêncio me incomoda.
Ele sempre omite alguma coisa:
uma traição tramada entre as glicínias
a explicação final sobre a existência ou a inexistência de Deus
o rumor dos ratos no entulho
o choque entre a hélice e o vento no aeroporto desativado.
Mas a manhã irrompe no canteiro de obras e ouço o barulho da escavadeira.
Os homens já acordaram e voltaram a construer e a destruir.
Vão fazer novas casas e novos túmulos.
Na manhã de sol o fusca pára no oitão do motel.
Mais uma vez pênis e vagina vão tenar entender-se
neste mundo de tantos descencontros.
A escavadeira escava e as esteiras avançam na cratera aberta como uma corola.
Visto pelo olhos sonolentos do trocador de ônibus que passa pela
avenida o mundo é uma representação.
Pesci freschi
Nel mercato presso il mare i pesci sono esposti
in una ricca offerta, in mezzo a dita che ne segnalano branchie e pinne
e alle voci che contrattano.
Tutti sono ciechi, per quanto i loro occhi spalancati
fingano di contemplare con spavento i volti che si avvicendano
sulle casse che sanno di marea.
Nelle loro bianche bare di plastica,
sotto un sudario di ghiaccio,
aspettano la vera morte che arriva solo con la putrefazione
e si nasconde sempre sotto le squame dei pesci freschi
e sotto la pelle degli uomini.
Peixes frescos
No mercado junto ao mar os peixes se espalham
em provida oferenda, rodeados de dedos que apontam para suas guelras e barbatanas
e de vozes que regateiam.
Todos estão cegos, embora seus olhos arregalados
finjam contemplar com espanto os rostos que se revezam
nos balcões que cheiram a maresia.
Nos brancos ataúdes de matéria plástica
e cobertos por uma mortalha de gelo
eles aguardam a morte verdadeira que só chega com a podridão
e sempre se esconde sob a escama dos peixes frescos
e a pele dos homens.
La neve e l’amore
In questo giorno di calore intenso aspetto la neve.
L’aspetto da sempre.
Da bambino lessi le Memorie dalla casa dei morti
e vidi la neve cadere sulla steppa siberiana,
sul cappotto rotto di Fëdor Dostoevskij.
Amo la neve perché non separa il dì dalla notte
né allontana il cielo dalle afflizioni sulla terra.
Unisce quanto è separato:
i passi degli uomini condannati al gelo scuro
e i sospiri dell’amore che si perdono nell’aria.
Bisogna avere un udito molto fino
per ascoltare la musica della neve, qualcosa di quasi silenzioso
come il frullo dell’ala di un angelo, nel caso in cui gli angeli esistano,
o il rantolo di un uccello.
Non bisogna aspettare la neve come si aspetta l’amore.
Sono due cose diverse. Basta aprire gli occhi per vedere la neve
cadere sopra un campo desolato. E lei cade sopra di noi, la neve bianca e fredda
che non brucia come il fuoco dell’amore.
Per vedere l’amore i nostri occhi non bastano
né l’udito o la bocca e neanche i nostri cuori
che palpitano al buio con lo stesso suono
della neve che cade sulle steppe,
sui tetti delle case tenebrose
e sul cappotto rotto di Fëdor Dostoevskij.
Per vedere l’amore niente è sufficiente. E tanto il freddo dell’inverno come il calore rovente
lo allontanano da noi, dalle nostre braccia aperte
e dai nostri cuori tormentati.
Fedele alla mia infanzia preferisco vedere la neve
che unisce cielo e terra, notte e dì,
piuttosto che essere preda indifesa dell’amore,
l’amore che non è bianco né puro né freddo come la neve.
A neve e o amor
Neste dia de calor ardente, estou esperando a neve.
Sempre estive à sua espera.
Quando menino, li Recordações da Casa dos Mortos
e vi a neve caindo na estepe siberiana
e no casaco roto de Fiódor Dostoievski.
Amo a neve porque ela não separa o dia da noite
nem afasta o céu das aflições da terra.
Une o que está separado:
os passos dos homens condenados ao gelo escurecido
e os suspiros de amor que se perdem no ar.
É necessário ter um ouvido muito afiado
para ouvir a música da neve caindo, algo quase silencioso
como o roçar da asa de um anjo, caso os anjos existissem,
ou o estertor de um pássaro.
Não se deve esperar a neve como se espera o amor.
São coisas diferentes. Basta abrirmos os olhos para ver a neve
cair no campo desolado. E ela cai em nós, a neve branca e fria
que não queima como o fogo do amor.
Para ver o amor os nossos olhos não bastam,
nem os ouvidos, nem a boca, nem mesmo os nossos corações
que batem na escuridão com o mesmo rumor
da neve caindo nas estepes
e nos telhados das cabanas escuras
e no casaco roto de Fédor Dostoievski.
Para ver o amor, nada basta.
E tanto o frio do inverno como o calor escaldante
o afastam de nós, de nossos braços abertos
e de nossos corações atormentados.
Fiel à minha infância, prefiro ver a neve
que une o céu e a terra, a noite e o dia,
a ser a presa indefesa do amor,
o amor que não é branco nem puro nem frio como a neve.
Lêdo Ivo (Maceió, Brasile, 1924 – Siviglia, 2012) è stato uno dei più importanti letterati brasiliani moderni, membro del movimento “Generazione del 1945”.
Come poeta, ha esordito nel 1944 con la raccolta As imaginações, cui ne sono seguite molte altre, alcune delle quali tradotte anche in italiano (Requiem, 2008 e Illuminazioni, 2002; entrambe a cura di Vera Lucia de Oliveira), fino a Poesia completa 1940-2004 (2004).
Come narratore, è stato autore di romanzi (tra cui As alianças, 1947; Ninho de cobras, 1973; A morte do Brasil, 1984) e racconti (da Use a passagem subterrânea, 1961 a Um domingo perdido, 1998), ma ha pubblicato anche saggi, traduzioni, articoli e scritti autobiografici.
Membro dell’Academia Brasileira de Letras, nel 1990 è stato eletto intellettuale dell’anno in Brasile e nel 2009 ha ottenuto il premio Casa de ls Américas, nella categoria della letteratura brasiliana. Sue poesie sono state tradotte in moltissime lingue.
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