RIVISTA DI CULTURA MEDITERRANEA

Il diritto alla vita e la storia di Pentcho/Intervista a Antonio Salvati a cura di Delilah Gutman e Nunzia Pasturi

[Tempo di Lettura: 14 minuti]
Antonio Salvati

DELILAH <<Subito il vento riavvolse intorno all’asta il drappo con cui imploravamo aiuto. L’Europa ci rideva in faccia>>.  A implorare aiuto sono oltre cinquecento profughi, tra cui uno studente, un marinaio semplice, un calzolaio, un impiegato, una mamma con la sua neonata, un’avvocatessa, un medico, un agronomo, un farmacista, una maestra di scuola, una poetessa, un negoziante, un attivista politico, un comandante di nave. Sono alcune delle voci del Pentcho, un romanzo, pubblicato da Castelvecchi Editore nel 2021, con la prefazione di Paolo Rumiz, in cui Antonio Salvati non racconta l’attualità, ma ci proietta nel racconto di una storia realmente accaduta nel 1940, che sugli accadimenti della contemporaneità ci invita a riflettere.

Alexandr Citrom, Zoltan Shack, Ivan Markevic, Lili Ickovic, Simche Hauser, Iosef Rosernberg, Majer Goldfinger, Etelka Löffler, Daniel Klein, Chaviva Blumenfeld, Karl Hoffmann, Martin Gregor, Zoltan Müller, Rosali Spiegel, Alexander Orenstein, Caelo Orlandi, Ignatz Mittelmann, Julia Kunstlinger, Hermann Herskovic, Desider Sonnenfeld, Shachne Wal, Albert Freund, Magda Lustig, Ilona Weiss, Jehoshua Halevi sono le voci che ripercorrono la storia del viaggio verso la sopravvivenza, iniziato sul vecchio battello fluviale del Pentcho quando salpa da Bratislava per attraversare il Mar Nero, gli stretti del Bosforo e dei Dardanelli. I passeggeri, profughi, saranno tratti in salvo sull’isolotto di Kamilanissi nel 1940 stesso da una motonave della Marina italiana, la “Camogli”, e verranno condotti ad un campo di internamento sull’isola di Rodi. Di questi, la maggior parte sopravviverà, dopo esser inviata al campo per ebrei stranieri di Ferramonti di Tarsia, in Calabria, e sopravvissuta ai successivi rastrellamenti.

Venticinque sono le voci che Antonio Salvati, magistrato dal 1999, sceglie come mediatori per raccontare la storia del suo primo romanzo (2021, Castelvecchi Editore), vincitore del Premio IusArteLibri “Il ponte della legalità” 2022.

Nunzia ed io abbiamo conosciuto Antonio Salvati nel luglio 2021 a Rende, in provincia di Cosenza, nella meravigliosa e complessa Calabria, in occasione dell’evento “La difficoltà di essere giusti” dedicato alla memoria di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, dove io intervenivo in qualità di compositrice e interprete, Antonio di magistrato. Due cari amici avevano voluto questo incontro, Marta Petrusewicz e Michele Andronico.

L’intervista risale a poche settimane fa, nel mese di ottobre, a 83 anni dal salvataggio dei profughi, come il diario di guerra del Comando Marina Italiano riporta, e ci interroga sulla responsabilità di interrogarci sulle cause che precedono e seguono una storia, perché questa non si ripeta.

Quale genesi ha caratterizzato la scrittura del tuo romanzo?

ANTONIO In un momento in cui avevo bisogno di trovare un personaggio, ho conosciuto la storia del “Pentcho” attraverso il racconto di un amico, Enrico Tromba, giovane e appassionato storico reggino che ha studiato a lungo questa vicenda, in ogni suo aspetto. Quindi, ho maturato l’idea di scriverne a riguardo.

La prima questione che mi sono posto è stata quella che se avessi trovato un personaggio in un’epopea che riguardava tante persone sarebbe stato uno spreco narrativo. Per un attimo avevo pensato di far parlare il “Pentcho”, il battello stesso; poi, siccome uno dei libri che amo di più è l’antologia di Spoon River ed io avevo bisogno di chiedermi se davvero il ricordo, la memoria, servisse a qualcosa – perché alla fine è questo uno dei principali interrogativi del libro – ho pensato di affidare un tratto del viaggio a diversi protagonisti e la genesi della scrittura è diventata una sorta di gara, nel senso di individuare i protagonisti che volevo far parlare! Conoscevo di tutti i profughi del “Pentcho”, nome, cognome, maternità, paternità, luogo, data di nascita e professione. Quest’ultima è stata fondamentale, perché da questa ho ricavato molto spesso la psicologia del personaggio. È stato bellissimo cercare di dare voci diverse attraverso l’unico autore vivente della storia, io, e fare in modo che la mia voce si nascondesse il più possibile nella voce dei ventiquattro scelti e prescelti. È stata una genesi complicata ed in un primo libro maneggiare la struttura del romanzo classico non è affatto semplice, non mi convinceva la scelta. Ho cercato di usare quanto più possibile tutto quel materiale umano meravigliosamente ampio.

Michele Andronico, "Il battello del Pentcho"
Michele Andronico, “Il battello del Pentcho

NUNZIA Ecco, la domanda che ti avrei voluto porre ha già una risposta in ciò che hai appena detto. Quando ho cominciato a leggere il tuo romanzo e, prima di tutto, l’ho sfogliato, ho notato che ogni capitolo ha il nome, il cognome e la professione delle persone-personaggi, ed io, che amo l’antologia di Spoon River in modo spropositato, ho pensato che ci fosse il richiamo a questa Antologia. La bellezza di “Pentcho” è che attraverso i racconti dei personaggi riesci a esprimere i tuoi pensieri in un modo che sembra oggettivo, dove non si avverte la tua presenza. I dialoghi – di dialoghi si può parlare visto che ognuno dei personaggi si rivolge ad altri e ai lettori – portano a definire alcune situazioni che sono storiche, sono attuali e per questo motivo il libro è multisfaccettato.

Uno dei personaggi del romanzo è un medico, una donna, Lilli. Quale complessità caratterizza il personaggio di Lilli?

ANTONIO Lilli è sicuramente il personaggio più complesso del “Pentcho”, forse perché è il più irrisolto. Ce ne sono altri che sono più drammatici, di cui sicuramente parleremo. Lilli è innanzitutto una citazione storica, Lilli riassume il dibattito che c’era nell’ambito del movimento sionistico di quel periodo, perché ci si poneva la questione riguardo a chi dovesse emigrare per primo in quella che oggi chiamiamo Palestina.

DELILAH È il 1940. La Palestina fu creata sotto il mandato britannico – tra il 1922 e il 1948 – e nel 1947 l’ONU operò una partizione destinando una parte a uno Stato Ebraico – poi Stato d’Israele nel 1948, dopo l’acquisto negli anni precedenti delle terre da parte di coloro che si erano già stabiliti fin dai primi anni del Novecento – e una parte a uno stato arabo – poi Stato della Palestina.

ANTONIO E la questione che Lilli evoca con la storia del suo personaggio è se dovessero partire tutti o se dovessero partire soltanto coloro che erano in grado di lavorare, di sopravvivere a un clima e una condizione di vita molto spartana, di costruire un nuovo stato.

È un quesito che una comunità si trova a dover sciogliere in modo drammatico, non è un quesito facilmente risolvibile.

HG Studios, Nel fiume le costellazioni

DELILAH A Lilli è affidata l’ardua scelta di valutare chi tra i cinquecento ebrei in cerca di salvezza avrebbe potuto imbarcarsi – i più giovani, i più forti, gli anziani, i più benestanti? Il battello da fiume avrebbe potuto ospitare in sicurezza solo 250 passeggeri. Lei imbarcherà tutti.

Il personaggio è una donna che sceglie di tutelare il diritto alla vita di tutti, impegnandosi a coinvolgere ogni passeggero in un percorso collettivo, poiché nel momento che lo spazio del battello necessitava di essere gestito al di là delle norme di sicurezza previste dalla nave, la responsabilità suscitava un dialogo costante e presente con la collettività.

In qualità di scrittore e magistrato, con la prospettiva di chi abbraccia la comunità fin nelle sue periferie sociali, trovi che i diritti della donna siano sufficientemente tutelati perché possa esprimere le potenzialità di mediatrice – nel lavoro e nella politica – e garante della vita – madre e prima educatrice di una creatura nella famiglia – perché sia possibile incontrare un rinnovamento sociale dove riconoscere i valori umani universali?

ANTONIO Dell’esistenza di Lilli mi aveva colpito il fatto che ci fossero delle dottoresse, dei “medici-donna” a bordo. Uno degli aspetti che mi colpisce e mi affascina di più della cultura ebraica di quel periodo è il fatto che accanto ad una serie di precetti che riguardavano, come sempre, soprattutto la figura della donna, molte volte anche limitandola, le donne hanno un ruolo centrale, hanno accesso a professioni e a compiti sociali che non erano facilmente conosciuti in altri tipi di culture.

Se tu mi chiedi se la sensibilità femminile in quel periodo, e anche oggi, può essere una chiave di lettura anche per un approccio diverso a tutto quello che è la nostra vita sociale, la mia risposta è sì, sicuramente.

Io credo molto nell’individuo, nel singolo individuo e credo che per arrivare al singolo individuo bisogna, in qualche modo, liberarci di tutto quello che sono le sovrastrutture, frutto anche di tradizioni secolari, per cui da un lato non ritengo che ci siano lavori da uomini e lavori da donne. Non credo che la donna sia geneticamente più adatta al compito di caregiver, non dovrebbero esserci compiti prestabiliti o attitudini prestabilite ed è necessario, quindi e ancora, liberarci di tutti gli stereotipi che ci portiamo dietro e provare a vedere veramente l’individuo che è in noi. È chiaro che questo è un cammino che parte dall’universo femminile che è stato quello più compresso, socialmente, politicamente e umanamente.

DELILAH Credo che sia una questione di individui e di tutela degli individui, non si tratta della questione di riconoscere il compito di una donna “al potere”, ma lasciare che una donna possa svolgere un suo compito con tutte le necessarie tutele qualunque sia il suo compito.

ANTONIO E da questo punto di vista a dispetto di tutte le leggi, di tutte le previsioni e anche se sono fatti dei passi avanti, comunque noi siamo molto indietro.

DELILAH Lilli ci interroga sulle potenzialità da tutelare, della donna in quanto mediatrice, ma anche simbolo della condizione di ogni individuo.

Antonio Salvati, con Marta Petrusewicz e Michele Andronico alla Fondazione Ferramonti, in Calabria

NUNZIA Nella lettura del tuo romanzo, mi sono soffermata soprattutto sui personaggi femminili, perché la mia è una deformazione personale, organizzando incontri con autrici per il Dipartimento delle Pari Opportunità della Provincia di Rimini, per discutere di diritti delle donne, di diritti violati, di lotta contro la violenza. Leggendo il tuo libro, incontro Chaviva, nata sulla nave mentre era ormeggiata per i lunghi controlli doganali: una vita che nasce nelle difficoltà, vita dalla vita, che io vedo quasi come uno schiaffo alla malvagità umana. Cosa rappresenta nel tuo racconto Chaviva?

ANTONIO Una vita che nasce è sempre un segno di speranza e non riesco a immaginare, non avendo la possibilità di generare, cosa avrà provato quella donna nel portare avanti la gravidanza e addirittura nel dare vita in quelle circostanze e in quel contesto.

NUNZIA La commozione che ho provato è accentuata dall’interazione con la dottoressa Lilli, che ha aiutato a farla nascere.

ANTONIO Mi piaceva immaginare questo scambio di sguardi, per questa vita che veniva al mondo, e l’incontro con questi occhi che la guardavano con occhi sereni, caldi, forti, anche in quel contesto che immagino sia stato semplicemente disastroso.

NUNZIA “Occhi forti”: anche questo mi riporta alle altre donne del tuo libro: la figura di Etela, la sarta, Magda, la maestra dei bambini sperduti e poi l’avvocata Julia, che personaggio! Dura, perché è stata disillusa dalla vita e ancor di più dalla legge, dalla giustizia. Lei non vuole parlare del “Pentcho” e dice nel tuo racconto che << (…) Non merita di essere ricordata la disillusione che ha cancellato la sua unica certezza, la sua fiducia nella legge, nella capacità degli esseri umani di darsi delle regole razionali per sfuggire ai propri istinti più inconfessabili (…) >> e ancora << (…) anche lei credeva che la storia fosse maestra di vita. Non è vero. Perché questo accada, l’uomo dev’essere disposto ad apprendere ascoltando umilmente le sue lezioni e invece non impara (…) >>.

Le parole di Julia, che sono le tue, toccano profondamente e risuonano come “monito” contro l’oblio.  Tu pensi queste parole oppure le temi?

ANTONIO Julia è stato il personaggio che ha catturato di più l’attenzione di chi mi ha fatto l’onore di leggere il libro, significa che il quesito posto è complesso. Molti mi han chiesto quanto io condivida le parole di Julia ed io rispondo con una battuta… Julia sono io quando mi alzo la mattina con la luna storta e nei giorni dispari… Per fortuna ci sono i giorni pari!  Il problema è che, se pensiamo a tutto quello che è accaduto dopo la pubblicazione del “Pentcho”, dall’invasione russa dell’Ucraina alla guerra in corso nella striscia di Gaza con Israele, è facile scommettere sulla non volontà dell’uomo di imparare dalla storia. Impari dalla storia nella misura in cui tu accetti la possibilità di un punto di vista diverso dal tuo e se non hai questa apertura di fondo, la storia non insegna nulla.

Il tragitto del Pentcho, foto di Michele Andronico ad un’immagine in esposizione alla Fondazione Ferramonti

NUNZIA Quanto è importante allora, rispetto alla storia, educare al tema della “memoria” le nuove generazioni?

ANTONIO Educare alla memoria non basta, soprattutto per come viene insegnata ai nostri ragazzi a scuola: si corre il rischio di sclerotizzarla e di farne una sorta di divinità laica.

Ho avuto il piacere di presentare il “Pentcho” a Milano, all’Università Cattolica con il Professor Gabrio Forti e ho conosciuto Gabriele Nissim, anche lui profondo conoscitore delle problematiche legate al luogo della memoria.

Bisogna ricordare, ma più che richiamare, secondo me, l’evento, è urgente ripercorrerne le cause.

NUNZIA Puoi chiarire questo concetto, per favore?

ANTONIO Gabriele Nissim ha ragione quando ricorda che la Shoah non è stato l’unico genocidio nella storia universale. Però, la Shoah ha una sua peculiarità, e su questo non si può non convenire. La Shoah è avvenuta quasi sempre in danno di comunità completamente integrate, tutelate da diritti civili, tutelate da leggi, quindi in un ambito in cui c’era una protezione formale della legge.

Comprendere come siamo arrivati alla Shoah è ancora più importante e scomodo che commuoversi guardando il film Schindler list. Va benissimo commuoversi, per chiunque abbia un cuore, e ancora oggi, ogni volta che rivedo quel film ne rimango profondamente emozionato, ma non basta. Bisogna capire come ci si è giunti. Purtroppo, ci si è arrivati nel modo più banale e attuale possibile.

Infatti, la parte del “Pentcho” che preferisco è la prima parte del libro – al di là dei personaggi toccanti e dei momenti successivi del racconto – che mi lascia sempre più perplesso: è il passaggio dall’inizio, quando ci sono le sfilate, sembrano poco più che avanspettacolo, le croci uncinate, i simboli guerreggianti, il maschilismo, il macismo di questi fascisti… S’inizia con il riderne e si finisce, poi, sul “Pentcho”. Io credo che quello sia il punto della storia su cui dobbiamo ragionare coi nostri ragazzi.

DELILAH: La questione della Shoah è legata all’antisemitismo che, antropologicamente, è una questione “antica”. Mi torna alla memoria l’evocazione di Sem (in ebraico Shem, che significa nome) e della presenza del suo nome nella parola anti-(sem)itico in relazione a un incontro che ascoltai nel 2019 al Teatro Franco Parenti Milano. Si trattava di un incontro con Haim Baharier, e la partecipazione di Liliana Segre, dal titolo “L’antisemitismo o la genesi del pregiudizio” di Baharier. In quell’occasione Baharier citò, per parlare di antisemitismo, la storia tra Giacobbe e Esaù (tratta dalla Torà) che racconta dell’invidia tra fratelli, elemento presente anche nella storia di Noè, tra i suoi figli, di cui Sem faceva parte e da cui, si narra, discendano i popoli semitici.

La questione della fratellanza è una piaga sociale della contemporaneità.

ANTONIO C’è molto più Julia in me di quanto non voglia ammettere! Io non credo che la fratellanza faccia parte del DNA dell’essere umano. Io credo che si tenga sempre a massimizzare il proprio interesse, ma, al di là di questo, la soluzione c’è. Anche se si pensa di voler credere in un senso innato di fratellanza, io sono profondamente razionale su questo punto e miro alla convenienza della condivisione di ideali, alla convenienza della condivisione di regole. Vivere insieme, passatemi questa immagine, è una gran scocciatura, vuol dire rinunciare inevitabilmente a una parte della mia libertà, però moltiplicando la propria forza. Quindi, esiste la convenienza di un contratto sociale e credo possa essere questa la chiave: far capire da una parte ai nostri ragazzi che da soli è tutto più bello e più facile nell’immediato, e dall’altra instillare nei ragazzi la paura di perdere: io credo che non ci sarà mai più un balcone a piazza Venezia a Roma, con un duce che si affaccia e, acclamato, dichiara guerra ai nemici della realizzazione del nuovo impero romano… ma, il problema è che il balcone di piazza Venezia si può ripresentare in tante altre forme e in tanti altri modi. Non è necessario invadere la Francia perché ci sia un fascismo. Il fascismo c’è ovunque non ci sia libertà di espressione, ovunque ci sia mortificazione di ciò che è “diverso”, diverso secondo una regola e una dizione voluta una ben precisa maggioranza. I nostri ragazzi non devono dare per scontato di vivere in una democrazia, non è un dono scontato. I ragazzi devono provare paura per giungere ad evitare una determinata questione, come la guerra. I ragazzi siano scioccati, forse più di noi, da ciò che sta succedendo. Sembrava normale che non ci fossero più guerre e adesso invece stiamo scoprendo che le guerre sono possibili, adesso stiamo cominciando a pensare alla guerra fredda. Prendere quel poco del buono che il male ci può dare, può servire a mettere un po’ di paura ai giovani per dire che la pace non è scontata, la prosperità non è scontata, la democrazia non è scontata.

Pentcho“, di Antonio Salvati (Castelvecchi Editore 2021)

DELILAH Il battello, la nave, i motoscafi senza motore, evocano l’antica arca del racconto biblico. La parola ebraica “arca” – teivà – significa anche “parola”. Entrare nell’arca, secondo lo studio talmudico, può indicare di “entrare nella parola”. “Pentcho” ci interroga sul ripetersi della storia, in una dimensione che del mito accoglie la struttura delle relazioni. Quale significato acquista la parola stessa nel tuo romanzo e quale potenzialità riconosci nel suo uso? Quali scelte operi nell’elaborazione di un linguaggio che incontri l’alfabeto di vita di ogni personaggio e, a sua volta, dei possibili futuri lettori?

ANTONIO È la lezione dell’ebraismo, per quel poco che posso aver compreso io. L’ebraismo è parola, è dialettica, è ricerca, è fede assoluta, rispetto dei precetti, ma anche analisi dialettica dei precetti stessi. L’uomo che crede – perché abbiamo bisogno di credere che qualcosa ci sia al di là della nostra quotidianità, di credere che non finisca tutto l’ultimo giorno della nostra vita – non rinuncia alla dialettica. I commentari ebraici hanno lo stesso valore didattico, ma anche morale, dei testi sacri dell’ebraismo. L’uomo si fa portavoce del divino attraverso la parola e, quindi, attraverso il confronto, perché se non ho qualcuno con cui parlare, la parola è inutile. La parola è un canale che permette a me di andare verso l’altro, ma non in un’ottica di fratellanza, bensì di bisogno.

DELILAH Come si pone il popolo italiano in questo confronto? “Pentcho” ci traghetta al presente di un Italia che affronta ormai da molto tempo le questioni umane e legali associate ai migranti, alla tragica morte nel Mediterraneo di chi non riesce ad attraversarlo per raggiungere le rive del nostro paese, alla tutela dei minori non accompagnati e delle donne che sopravvivono al viaggio e alle violenze spesso subite prima di poter intraprendere il viaggio stesso. Quali responsabilità nella tutela del diritto alla vita noi italiani dobbiamo e possiamo assumerci laddove la politica sospende il tempo e il giudizio arresta l’economia di giustizia – un concetto che prendo a prestito da Haim Baharier, che prima ho citato – e in che modo ritieni utile elevare una voce che si rivolga a far risuonare il “giusto”, se ciò che è giusto possiamo discernere? 

ANTONIO Dobbiamo liberarci di tutti gli stereotipi e, soprattutto, in quanto italiani di quello per cui noi siamo più buoni della media rispetto ad altri popoli! Noi non siamo più buoni degli altri, siamo soggetti a periodi ciclici di paura e preoccupazione, cavalcati da una certa politica, o da una certa informazione. Siamo sensibili alla paura, siamo perfettamente consapevoli che abbiamo molto da perdere, non siamo consapevoli delle responsabilità storiche e sembra, quasi, che il colonialismo non abbia riguardato l’Italia. Sembra, quasi, che lo sfruttamento dell’Africa e i giochi geopolitici nel Medio Oriente non ci abbiano riguardato! Se tutto questo è vero, credo sia fondamentale distinguere il piano della regolamentazione dell’immigrazione dal piano della tutela della vita, in ogni forma e in ogni luogo e in ogni dove è, in ogni momento. Questa commistione di piani non c’è, non c’è stata fino ad oggi, per ben precise volontà politiche, perché la paura è amica preziosa per creare consenso e quindi bisognerebbe trovare il modo di affrontare queste situazioni capendo che sono due piani distinti.

HG Studios, Mappe altrove

DELILAH Quali strumenti abbiamo?

ANTONIO La nostra Costituzione pone al centro di tutto l’individuo ed è ammirabile perché giunge alla stessa conclusione quanto all’assoluta centralità dell’individuo nei suoi complessi rapporti della collettività di cui fa parte sintetizzando, in un equilibrio pressoché perfetto, la tradizione cattolica, il pensiero liberale e le esigenze di giustizia sociale proprie del comunismo e del socialismo. Alla fine, sono tutti percorsi diversi tra di loro, ma che hanno trovato un equilibrio comune: la centralità dell’individuo. Non si tratta neanche di adeguare le nostre leggi o l’interpretazione delle leggi a un qualcosa di nuovo, basterebbe semplicemente applicare la Costituzione.

NUNZIA Riguardo a questo discorso, una frase che mi ha colpito del tuo libro è << (…) un viaggio da fare orientandoci con le stelle e in tutta fretta prima che il nobiliare Mar Egeo si accorgesse di quanto quel battello fosse inadeguato a solcare le onde e ottenendo così la giusta punizione per quell’incredibile affronto (…) >>. È come se tu parlassi di oggi, di quello che accade nel nostro mare, sulle nostre coste, in questo periodo mai finito. La meraviglia del tuo “Pentcho” è proprio questo: parlando di ieri, di una tragedia così devastante, di questo viaggio della speranza, di tutto quello che i tuoi personaggi hanno raccontato, tu stai parlando di oggi: di diritto, di condizione della donna. Penso a Magda, dice ad un certo punto che l’esperienza del “Pentcho” le è servita per essere finalmente libera: << (…) per la prima volta ho visto il mondo con gli occhi di una donna (…) >>. Le tue parole hanno una profondità tale da volersene appropriare.

ANTONIO Mia madre era un insegnante e mi sono nutrito di questa professione, che secondo me è la professione più bella del mondo, perché richiede forza d’animo, profondità, empatia e autorevolezza.

NUNZIA Magda è un bellissimo personaggio e per quello che ho letto ti potrei nominare il difensore dei diritti delle donne! Attraverso la lettura dei tuoi personaggi femminili ho capito che tu sei un uomo che ha a cuore la situazione delle donne di ieri e di oggi.

ANTONIO Sono cresciuto in un periodo storico in cui era normalissimo parlare di sesso forte e sesso debole. Se mi avessero detto quando ero adolescente che avrei visto donne carabinieri, donne pilotare jet militari, io non ci avrei creduto, e se dopo 40 anni scrivo il “Pentcho” attribuendomi questa sensibilità, per cui ti ringrazio tantissimo, significa che c’è speranza!

NUNZIA E questo libro ne dà tanta. Sei stato puntuale, storicamente parlando, sensibile e presente.

ANTONIO Due cose avrei voluto domandare a me stesso nell’elaborazione del “Pentcho”, accorgendomene dopo la pubblicazione. La prima è se qualcuno rideva sul “Pentcho”: avrei potuto creare un personaggio in grado di affrontare il problema della risata e dell’allegria? La seconda riguarda cosa è successo dopo l’apertura dei cancelli a Ferramonti: molti sono andati via in Israele, e moltissimi nel Canada, ma altri rimangono lì, perché sono talmente radicati che non sanno dove andare e per due anni c’è stato nel campo una sorta di autogestione… ecco, mi sono chiesto se uno dei tre direttori del campo poteva essere un fuggiasco del “Pentcho”, ma così non è stato perché i fuggiaschi venivano completamente isolati perché pericolosi, molto colti… troppo colti… Ma, sarebbe stata una svolta narrativa fantastica.

DELILAH E NUNZIA Grazie.

Immagine di copertina: Mari come rocce, HG Studio

  • Nato in Germania, napoletano – anzi porticese/vesuviano – per scelta e irreversibile innamoramento, vive a Palmi. Dopo gli anni giovanili spesi a immaginarsi giornalista, è entrato in magistratura nel 1999. Autore di diversi saggi e contributi giuridici, nel 2021 ha esordito con Pentcho, il suo primo romanzo. Nel 2014 ha ideato il Festival Nazionale del Diritto e della Letteratura “Città di Palmi”, giunto ormai all’undicesima edizione.

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  • Nunzia Pasturi è docente di lettere nella scuola secondaria di primo grado nella Provincia di Rimini. Direttrice artistica della rassegna letteraria “Storie Itineranti / Storie di donne, di coraggio, di umanità”, opera in collaborazione con la Provincia di Rimini – Ufficio Pari Opportunità – e i comuni della provincia per un’attiva educazione alla tutela dei diritti delle donne e degli orfani delle vittime di violenza familiare, attraverso gli strumenti della cultura e delle arti. Già direttrice artistica di rassegne come “Parole e note” alla Villa San Clemente, Libri…in Villa e “Sinfonie Letterarie” – tra i cui ospiti Nuccio Ordine, Francesco Apolloni, Catena Fiorello, Marcello Kalowski, Natalia Lenzi ed altri, che hanno sostenuto con costanza le attività di educazione all’ascolto e alla lettura, per trasmettere alle nuove generazioni l’importanza dei libri come veicolo concreto per scoprire l’essenza del mondo e i risvolti dell’umanità. Nunzia Pasturi, laureatasi con il Prof. Nuccio Ordine in Lettere Moderne all’Università della Calabria, è attiva come giurata presso Premi Letterari, relatrice di convegni e autrice di presentazioni ai libri. Ha trasformato in azione l’indagine della scrittura come strumento di lotta contro l’ignoranza e l’indifferenza.

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  • Delilah Gutman è compositrice e pianista, cantante e poetessa. È attualmente docente in Teorie e tecniche dell’Armonia al Conservatorio “G.Verdi” di Ravenna. Svolge la sua attività di musicista in Italia e all’estero – Cina, Repubblica Ceca, Israele, Messico, Francia, U.S.A., India, Svizzera e ancora. Trale pubblicazioni si annoverano le raccolte di brani e le composizioni edite da Sinfonica e Ut Orpheus, attualmente pubblica con Stradivarius e Curci. Come solista e in formazioni cameristiche, esplora nel contesto del suo personale progetto di ricerca musicale MAP – musica, arte e poesia – la frontiera tra arte, musica e repertorio etnico, in relazione al linguaggio della musica d’arte in Occidente. Per il suo costante impegno nel dialogo interculturale è stata insignita nel 2012 “Ambasciatrice dell’amicizia Israele-Italia” in occasione di un suo concerto in Israele. Poetessa, ha pubblicato con Raffaelli Editore i libri di poesie “Alfabeto d’amore”(Menzione d’onore al Premio Mario Luzi), con la prefazione di Manrico Murzi e la postfazione di Lucrezia De Domizio Durini,  “Alfabeto degli opposti” (Menzione d’onore al Premio Alda Merini), con la prefazione di Manrico Murzi, e “Esistenze/Canto a due voci”(Menzione d’onore al Premio Montano) con il poeta turco Erkut Tokman, con cui fa parte del movimento poetico Açik Şiir (Poesia Aperta). È autrice delle Singing Sculpture #1 “Il seme genera la parola” – installazione permanente presso il Museo J.Beuys di Bolognano, nella Piantagione Paradise – e Singing Scuplture #2 “L’amore genera la terra”, installazione permanente presso la Fondazione Verità di Locarno. Presiede l’Associazione Culturale DGMA.

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