Gerda Taro, la piccola ragazza “interrotta” e il suo sogno di libertà
di Diego Lorenzi
Quando pensiamo a Gerda Taro il pensiero corre inevitabilmente incontro a Robert Capa, tanto è forte il ricordo che sale dalle contrade polverose del secolo scorso e che li consegna ad una comune eternità. Ma, al di là di qualche appuntamento specifico ed occasionale (un libro, un convegno, una mostra) di Gerda si parla quasi sempre ricordandola come la compagna del grande fotografo ungherese e quasi mai come donna e artista indipendente, anticonformista, colta, appassionata, grande e coraggiosa fotoreporter di guerra.
Gerda Taro (soprannome adottato quando conobbe Robert Capa) si chiamava in realtà Gerta Pohorylle; era nata a Stoccarda (Germania) il 1 agosto del 1910 da una famiglia di ebrei polacchi che provenivano dalla Galizia occidentale, regione passata alla Polonia dopo la prima guerra mondiale. L’educazione giovanile fu ispirata dalla cultura ebraica dell’epoca, ma venne influenzata dalla ventata di rivoluzione democratica seguita alla nascita della Repubblica di Weimar e dai nuovi fermenti culturali che si svilupparono nella rigenerata società tedesca nel campo dell’arte, dell’architettura, della letteratura, della musica, della drammaturgia. Erano gli anni del «Bauhaus», della pittura di Paul Klee e di Kandiskij, dei film di Fritz Lang e di Friedrich W. Murnau, del teatro di Bertold Brecht.
Ma fu a Lipsia, città che la ospitò intorno agli anni ’30, che Gerda maturò la sua vocazione anticonformista e più prettamente politica, avvicinandosi ai circoli filocomunisti che in quegli anni combattevano l’ascesa del nazismo – la presa del potere di Hitler avvenne infatti nel 1933 – e soprattutto a giovani militanti del SAP (Partito socialista operaio). La sua adesione – su cui concordano molti studiosi – avvenne comunque in un clima di dura contrapposizione alla politica repressiva nazista, esercitata nei confronti delle libertà di pensiero, delle opinioni politiche e delle manifestazioni culturali di stampo «occidentale», riferite in particolar modo alla nuova diffusione della musica jazz – bollata come «musica degenerata» (salvo poi, in privato, promuoverla come musica da ballo ad uso e consumo anche dell’élite militare hitleriana) –.
Nell’autunno del 1933, in seguito alla persecuzione di cui è vittima come ebrea e come militante comunista e del clima soffocante che gravava ormai sull’intero paese, fugge a Parigi con l’amica Ruth Cerf, divenendo una «heimatlose», una «senza casa e senza stato», come ebbe a dire Hanna Arendt del poeta W.J. Auden. La fuga dalla Germania rappresentò comunque per Gerda anche l’occasione per allargare il campo dei suoi interessi condividendoli con altri e per cogliere nuove opportunità artistiche e professionali. Parigi la entusiasmò: la capitale francese le offrì la possibilità di conoscere artisti e personaggi legati alla cultura e alla militanza politica antifascista, intraprendere nuove relazioni ed intrecciare la nuova vita rigenerata a quella di altri con cui condivideva ideali, affetti, sentimenti e passioni artistiche.
Uno tra questi era Robert Capa, soprannome di Endre Ernő Friedmann, fotografo di origine ungherese, che Gerda conobbe nel settembre del 1934 e del quale si innamorò, ricambiata. Con lui iniziò una nuova vita umana e professionale: Robert la introdusse alla conoscenza dell’arte fotografica, trasmettendole la passione per un lavoro comune. Lei lo contraccambiò infondendogli forza, coraggio, dinamismo e trascinandolo all’impegno politico e alla lotta, armati l’un l’altro delle sole armi di cui disponevano, le macchine fotografiche. Diventò sua agente e sua stretta collaboratrice, un ruolo che la spinse a «battere» le redazioni dei giornali parigini per vendere le loro foto ed è grazie anche a lei che Capa diventò presto un fotoreporter molto stimato e quotato.
Vissero per qualche tempo a Parigi, frequentando gli ambienti intellettuali e antifascisti. Poi, il richiamo della guerra civile spagnola e la possibilità di documentare sul campo l’esperienza bellica fu fortissimo: partirono nel luglio del 1936, lui diretto a Nord della Spagna, lei, forte di un contratto con il giornale «Ce Soir», nelle zone intorno a Madrid, a fianco delle Brigate internazionali che combattevano contro il nazionalismo e la dittatura franchista e di intellettuali come Ernest Hemingway, Dos Passos (sostenuti dalla Lega degli Scrittori Americani, con Richard Wright, John Steinbeck ed altri, che incoraggiarono molti compatrioti ad arruolarsi nella mitica «Brigata Lincoln»), George Orwell, Arthur Koestler, André Malraux, Stefen Spender, W.H. Auden,1 Pablo Neruda, ecc.
Fu in quelle circostanze che Robert e Gerda cominciarono a produrre dei veri e propri reportage fotografici, documentati in celebri foto: lui puntando l’obbiettivo dove si combatteva, immortalando atti di eroismo e azioni di guerra; lei cercando invece di cogliere il lato più umano della tragedia spagnola, svelando e rivelando al mondo l’immane sofferenza della povera gente, i bombardamenti sui civili e sui combattenti asserragliati nelle trincee, la fame e la disperazione dei bambini abbandonati e quella dei feriti negli ospedali.
Gerda rimase in Spagna più a lungo di Capa, partecipando anche a pericolose azioni militari in parecchi fronti dove combattevano i compagni repubblicani, fino al giorno in cui rimase vittima di un brutto incidente in località Brunete, nei pressi di Madrid, che le causò pochi giorni dopo la morte. Era il 26 luglio del 1937. I funerali si celebrarono il 1 agosto a Parigi, il giorno del suo 27mo compleanno, alla presenza dello stesso Rober Capa che la salutò per l’ultima volta sconvolto, ricordando a tutti che si trattava del «grande amore della sua vita», di poeti come Louis Aragon e Pablo Neruda che lessero l’elogio funebre e di migliaia di compagni con le bandiere rosse. Un’enorme folla composta da 200.000 parigini accompagnò la «piccola ragazza bionda» (la pequeña rubita, come la chiamava Robert) al cimitero di Père Lachaise, sulle note della Marcia funebre di Chopin. Qualche mese più tardi Capa dette alle stampe il volume Death in the making, una selezione di immagini scattate insieme, con una dedica: «A Gerda, che trascorse un anno in Spagna. E lì rimase per sempre».
A lei, come alle centinaia di migliaia di donne e uomini che hanno sacrificato la loro vita per un ideale – inebriante infuso di emancipazione, di riscatto, di giustizia e di libertà – va tutta la nostra perenne riconoscenza, irrorata da un flusso appagante della memoria storica e dalla ricchezza del ricordo.
Diego Lorenzi
© riproduzione riservata
Gerda Taro. La cacciatrice di luce
di Anna Trevisan
La veggenza del Fotografo non consiste tanto nel “vedere”
quanto piuttosto nel trovarsi là. Ma soprattutto, imitando Orfeo,
bisogna che non si volga verso ciò che egli reca con sé e mi offre.
Roland Barthes, La camera chiara
Dimmi il segreto della tua esistenza;
voglio sapere perché la pietra non è piuma
e non è il cuore un delicato albero,
perché la bimba che muore là tra due vene-fiumi
non scorre verso il mare come tutti i vascelli.
Vicente Aleixandre, Voglio sapere
«Parigi estate 1937: un corteo enorme si snoda dal centro verso la parte orientale della città, accompagnato dalle note della Marcia funebre di Chopin, fino al cimitero di Père-Lachaise.[…] In migliaia danno l’ultimo saluto all’emigrata scappata dalla Germania hitleriana. Il poeta Louis Aragon tiene un discorso sulla tomba, giovani donne stringono un grande ritratto della defunta. Perché mai il Partito comunista francese rende gli onori, con un funerale di “prima classe”, a una straniera che non era nemmeno iscritta?»1. Così descrive il funerale di Gerda Taro la sua biografa Irme Schaber.
Forse è con una canzone che si dovrebbe raccontare di Gerda Taro e, soprattutto, delle sue fotografie. Perché la canzone è musica, che non si arresta e non si ferma ma continua a scorrere, nota dopo nota, scavallando le parole e ingoiando il pianto. E di canzoni, in effetti, ce n’erano molte che Gerda Taro amava cantare, come documentano Irme Schaber e la scrittrice Helena Janeczek, autrice di un romanzo di recente pubblicazione, La ragazza con la Leica, a lei dedicato. Fin dai tempi di Lipsia e della sua fuga dalla Germania nazista quando, incurante del rischio a cui si esponeva, portava con sé una fisarmonica e «suonava di continuo canzoni di Rosa Luxemburg e robaccia del genere», come ricorda un’amica2. E fu cantando che Gerda affrontò le drammatiche notti di Spagna nel ‘36, dopo le giornate passate in prima linea a fotografare i combattimenti aspri e sanguinosi di quella guerra fratricida. «Di Gerda e di queste canzoni notturne scrisse anche lo scrittore argentino Córdova Iturburu. Chiamò questo gruppo il “coro di guerra dell’Alianza” […]»3.
E le sue prime foto della Guerra civile spagnola risuonano come canzoni, come marce, come inni. C’è un ritmo musicale e gioioso negli scatti pieni di entusiasmo che ritraggono bambini che giocano tra le barricate abbandonate (Due bambini sulle barricate, Barcellona agosto 1936); che immortalano con inquadrature liriche e solenni gli sguardi rapiti di miliziani sotto cieli luminosi (Alcuni miliziani repubblicani, fronte di Aragona, agosto 1936) e con inquadrature dall’angolazione spericolata e diagonale immortalano le donne partigiane che si apprestano a combattere (Tre miliziane, Barcellona, agosto 1936; Miliziane repubblicane in addestramento sulla spiaggia nei pressi di Barcellona, agosto 1936; Miliziana repubblicana in addestramento sulla spiaggia nei pressi di Barcellona, agosto 1936). C’è il ritmo della vita e della terra nelle fotografie di contadini che raccolgono il grano (Alcuni contadini caricano un carro, fronte di Aragona, agosto 1936). C’è il ritmo enfatico della certezza della vittoria nel ritratto corale dei bambini che avanzano sorridenti e senza paura insieme ad un miliziano, sotto un cielo immenso (Un miliziano repubblicano con un gruppo di bambini, fronte di Aragona, agosto 1936). C’è un ritmo incalzante nelle fotografie che ritraggono la vita quotidiana dei partigiani (Il taglio dei capelli al quartier generale del 5° Reggimento, Madrid, agosto 1936).
«Ich weiss nicht zu wem ich gehöre» (Non so a chi appartengo) cantava Marlene Dietrich, con un refrain che sembra scritto su misura non solo per Gerda Taro ma anche per le sue fotografie, la cui attribuzione è stata per anni confusa come opera di Robert Capa. Al secolo Gerta Pohorylle, la memoria di questa «noticina a margine della Storia», come la definisce Irme Schaber, per molto tempo è stata contesa tra due mondi, venendo ricordata ora come «l’accessorio ornamentale di Capa a Ovest» ora come «la comunista da manuale a Est»4, subendo semplificazioni e cliché del tutto inadeguati a raccontare e rendere ragione della sua vitalità e della sua indipendenza intellettuale, politica, professionale e umana.
Un destino altrettanto controverso ha avuto l’identificazione della sua opera. Per molto tempo, infatti, non si è saputo a chi appartenessero molte delle fotografie relative alla Guerra civile spagnola, se al compagno e sodale Robert Capa oppure a lei, audace inventrice dei loro pseudonimi e del loro mito. Ed in fondo, questa confusione, in parte intenzionale, non ha affatto nuociuto a queste fotografie, che si difendono da sole perché raccontano di una generazione intera, che all’«Io» ha preferito il «noi».
In fondo, questa confusione di attribuzione è figlia non solo dell’esemplare amore tra Taro e Capa ma anche dello «spirito collettivista così diffuso a quei tempi»5, come osserva il biografo di Capa, Richard Whelan, che aggiunge: «Di certo lavorare insieme su un terreno di assoluta pariteticità e condividere l’attribuzione di ogni lavoro fatto insieme era l’idea di Capa di un matrimonio perfetto che non avrebbe mai smesso di rimpiangere»6. Di certo, in questa relazione «Gerta non ricopriva il ruolo della musa e non contava sul sostegno finanziario di lui […][che] già affermato come fotografo professionista, non usò la sua posizione per sfruttare Gerta come assistente, ma al contrario favorì l’espressione del suo talento artistico»7. Un sodalizio umano e professionale così simbiotico e profondo, il loro, da trasformare in un vero «romanzo poliziesco»8 l’identificazione e l’esatta attribuzione delle fotografie di Gerda Taro, la cui firma era spesso coperta dall’etichetta autoadesiva della PIX oppure risultava come «Reportage Capa & Taro».
In fondo poco importa questa confusione. Perché, dietro all’invenzione dei personaggi di Robert Capa e Gerda Taro c’era molto più di una riuscita trovata pubblicitaria. C’era la risposta pragmatica e disincantata alle persecuzioni razziali. C’era la volontà politica di amplificare il più possibile attraverso moderne strategie di comunicazione il punto di vista di chi quella guerra la stava subendo, ben sapendo che l’attribuzione delle foto di Taro a Capa poteva facilitarne la vendita. C’era la volontà di dare voce alle vittime civili di quella Guerra: i profughi e gli esiliati, proprio come gli autori di quegli scatti.
«Voi conosceste la generosa luce dell’innocenza» scriveva il poeta spagnolo poi Premio Nobel Vicente Aleixandre in Creature dell’aurora. Quell’innocenza plurale riluce in tutte le prime fotografie di Gerda Taro, che dalla sua biografia personale di perseguitata, esule, rifugiata e resistente attinse a piene mani per raccontare con intensità ed empatia il suo sogno di resistenza e la sua utopia condivisi con i resistenti spagnoli all’alba della Guerra civile, quando l’illusione di poter contenere Franco e le sue truppe era ancora viva e al culmine dell’entusiasmo. «¡No pasarán!» aveva declamato alla radio la pasionaria comunista Dolores Ibárruri rivolgendosi alle donne delle milizie repubblicane.
A quei giorni di luminosa euforia appartengono anche le due fotografie di Taro e Capa che ritraggono il medesimo soggetto: una giovane coppia di partigiani seduti all’aria aperta, su delle sedie di vimini (Miliziani repubblicani, Barcellona, agosto 1936). Sui loro volti, colti mentre ridono, affiora una spensieratezza e una voglia di vita che raccontano le ragioni dei resistenti, ragioni condivise anche dai loro fotografi. «Il mondo è giusto che lo sappia. Deve vedere in un colpo d’occhio che da una parte c’è la guerra vecchia di secoli […] dall’altra parte gente che desidera difendere quel che sta vivendo, e si desidera l’un l’altra»9 – scrive la Janeczek commentando la struggente fotografia della coppia di miliziani scattata da Gerda Taro. «È la promessa che s’invera sui volti e sui corpi trasfigurati da quel riso felicissimo, l’utopia vissuta nel volgere di pochi istanti che rendevano quell’uomo e quella donna liberi di tutto» – prosegue la Janeczek, che riesce a descrivere in modo esatto la differenza complementare tra la fotografia della Taro e quella di Capa: «Robert Capa ha colto il desiderio di abbandonarsi senza ritegno l’uno all’altra, Gerda Taro una gioia spudorata che si lancia fuori a conquistare il mondo»10. Quel giovane uomo e quella giovane donna con la loro spensierata risata sono l’alter ego di Taro e Capa, della loro volontà di vita, di contro all’estetizzazione della morte propria di una certa cultura fascista.
Tutte le fotografie di Gerda Taro sono appassionatamente schierate e partigiane. Eppure la loro esplicita militanza non sottrae nulla alla loro verità. Come scrive Irme Schaber, «la tanto citata frase di Capa- “Se le foto non sono abbastanza buone, è perché non si è abbastanza vicini” – viene usata perlopiù come ostentazione di forza e di goffa spavalderia di un fotografo di guerra. Per quanto Gerda Taro e lui andassero, e ve ne sono prove, “vicino vicino”, la sua dichiarazione non deve essere semplicemente ridotta alla vicinanza nello spazio. La scelta di abbandonare il punto di vista distanziato e sicuro dell’osservatore nasceva dal bisogno di partecipare e d’esser parte di qualcosa, era la scelta della solidarietà. […] Questa vicinanza va considerata un elemento centrale dell’etica professionale di Capa e Taro. Non la distanza imparziale e l’osservazione pronta a sezionare, ma la partecipazione emotiva e l’esperienza intensa e diretta decidevano il loro modo di agire»11.
«La Guerra civile spagnola – come scrive la studiosa Elisabetta Bini nell’introduzione al libro di Irme Schaber – rappresentò la prima guerra mediatica della storia contemporanea, in cui la diffusione di macchine fotografiche leggere e maneggevoli, e l’importanza acquisita dalla fotografia sulla stampa internazionale, assegnarono un ruolo sempre più determinante al foto-giornalista. Per quanto il significato delle loro immagini finisse per essere spesso distorto dalle didascalie e dai tagli fatti dalle redazioni, Taro e Capa vissero la Guerra civile in Spagna con la coscienza dell’influenza che le loro immagini avrebbero potuto avere sull’opinione pubblica mondiale, e costruirono i loro scatti di conseguenza, tentando di raggiungere un linguaggio comprensibile universalmente»12.
Scrisse Walter Benjamin che «nella fotografia il “valore di esponibilità” comincia a sostituire su tutta la linea il “valore cultuale”. Ma quest’ultimo non si ritira senza opporre resistenza. Occupa un’ultima trincea, che è costituita dal volto dell’uomo»13. Ed è proprio il volto dell’uomo l’ultimo baluardo di speranza e di lucidità che affiora dagli scatti di Gerda Taro dedicati ai profughi di Almeria in fuga da Malaga, conquistata dalle truppe di Franco. In Profughi provenienti da Malaga e Almería (Spagna, febbraio 1937) c’è tutta la spontaneità affranta e preoccupata di un gruppo di donne, vecchi e bambini assiepati su un materasso arrotolato per terra. Una bambina si ritira vergognosa e spaventata dietro le sottane di una donna, che con la mano si preme il volto. Un vecchio dalla testa fasciata guarda spaesato verso un futuro che non vede. Una cecità che Taro fotografa esplicitamente in Alcuni musicisti di strada ciechi (Madrid, marzo 1937) dove alcuni bambini ascoltano due musicisti ciechi suonare la chitarra. Uno di loro ha degli occhiali scuri, l’altro ha uno sguardo vitreo e assente che, a distanza di cinquant’anni, esprime tutto l’orrore che si consumò in quei terribili giorni in Spagna. Una cecità che può essere intesa anche in senso figurato: una cecità politica e quindi colpevole, che Gerda Taro imputa ai Paesi non interventisti; una cecità messa crudamente a nudo con la foto bianca e struggente di Un piccolo profugo proveniente da Malaga e Almería (febbraio 1937), dove un bambino dorme esausto , disteso su un materasso, con le brache calate che gli scoprono indecentemente le gambe e la pancia.
Nelle prime foto delle azioni militari, prevale una retorica d’impronta sovietica, che riecheggia le prospettive marcate e robuste, con «inquadrature dall’alto, contorni sagomati e piani inclinati e spezzati, tipici delle linee forti del costruttivismo»14, come scrive Schaber. Ad esempio nella serie di scatti dell’incrociatore da guerra repubblicano «Jaime I» nel porto di Almería (La corazzata Jaime I, febbraio 1937), dove a prevalere sulle persone è il volume metallico e anonimo della nave, oppure nelle foto che documentano il Reclutamento e addestramento dell’esercito popolare Repubblicano (Valencia, marzo 1937).
Ma c’è un’attenzione ai volti dei civili, alle loro vite, alle loro morti che si accentua con l’inasprimento degli scontri: le vittime civili, i profughi, i bambini rimasti orfani, i morti diventano il soggetto privilegiato delle sue fotografie. Tanto che non sempre Taro riesce a venderli alle riviste con le quali collabora. Molte di quelle foto vengono utilizzate invece per volantini propagandistici e per la raccolta fondi per le vittime. Nelle foto della carneficina di Valencia, il tono è drammaticamente mutato: le immagini sono crude, disperate, come nella serie Vittime di un raid aereo all’obitorio (Valencia, maggio 1937), dove i corpi senza vita dei civili sono congelati per sempre in uno scatto scioccato e addolorato, a perentoria e inconsolabile denuncia dell’indecenza e dello scandalo della morte di innocenti. Come in Alcuni bambini in mezzo alle macerie degli edifici bombardati (La Granjela, fronte di Córdoba, giungo 1937), dove un bambino di spalle, con indosso un cappotto scuro, le gambe nude, guarda giocare altri bambini in mezzo alle macerie di case, letteralmente sbriciolate dalle bombe.
Anche le foto di azioni militari mutano: alla fissità corale e retorica degli inizi si sostituisce il movimento della fuga, dell’azione di attacco: corpi sparpagliati in corsa, come nella serie Soldati repubblicani (La Granujela, fronte di Córdoba, giugno 1937). Poco a poco, dalle fotografie di Taro esala «l’odore della polvere da sparo» come scrive trionfante il settimanale Regards, che pubblicò le foto di Gerda sull’offensiva repubblicana nel villaggio di Brunete. Tuttavia, «né a Guadalajara, dove aveva visto le montagne di cadaveri italiani, né a Brunete, Gerda Taro fece sui campi di battaglia fotografie della morte di massa. La censura militare fu sicuramente un motivo che le impedì di documentare quelle atrocità. […] Il racconto di Ted Allan mette in luce […] lo shock e il dolore che Gerda provò di fronte ai nemici caduti a Guadalajara. […] I mucchi di cadaveri di giovani uomini che andavano in putrefazione impedivano qualunque interpretazione. Le fotografie di Gerda Taro, dagli inizi a Barcellona fino ai documenti di guerra di Brunete testimoniano del suo sforzo di ritrovare l’individuo nella massa, di rompere l’anonimato dei molti nel ritratto del singolo. Lo stesso valeva per i morti»15.
Forse è la poesia che può soccorrere il commento a quelle fatidiche ultime immagini scattate da Gerda Taro, immagini che poi le costarono la vita. Nella serie Alcuni soldati repubblicani (Battaglia di Brunete, luglio 1937) si vedono soldati in trincea, di schiena, che scrutano dalla feritoia il nemico; scene concitate di esplosioni, con soldati che tentano di sfondare una porta, e poi quel camion militare in fiamme, sulla strada sterrata (Un camion in fiamme, battaglia di Brunete, luglio 1937) sul quale si chiuse per sempre lo sguardo e l’obiettivo della «cacciatrice di luce», come amava chiamarla il poeta Jose Bergamin.
«Tempo di fuoco. Addio. Urgentemente // Chiudi gli occhi. È il monte. Tocca. // Saltano le cime frantumando la roccia// e si uccide un bosco, inutilmente»16 scrisse Rafael Alberti,che ricordava la coppia Taro-Capa come «una coppia bellissima, due persone votate l’una all’altra, due persone innamorate».
«Quella grande disponibilità ad affrontare il rischio» che contraddistinse tutto il suo lavoro al fronte, e che le fu fatale, «le offriva la possibilità di [mostrare] quel massacro mostrando in che modo si producono i rifugiati. Attraverso l’obiettivo Taro si trasformò da ragazza impotente, senza casa e in cerca di asilo, in fotografa di guerra impegnata, in testimone attiva», come scrive Irme Schaber. Con la sua morte, La Pequeña Rubita (La biondina) – come la chiamavano affettuosamente gli spagnoli – ha consegnato al mondo tutta la sincerità del suo lavoro di denuncia, scavalcando la censura e cantando più forte del fragore della propaganda.
Anna Trevisan
© riproduzione riservata
La piccola ragazza «interrotta» e il suo sogno di libertà
Note
1 Wystan Hugh Auden (1907 – 1973) è stato un poeta britannico. Partecipò alla Guerra civile spagnola in qualità di autista, ma uscì da quella drammatica esperienza molto turbato, soprattutto per le atrocità di cui fu testimone, e in ricordo di quell’esperienza compose la poesia Spain (1937), di cui vi proponiamo i versi finali:
(…)
In quell’arida piazza, quel frammento strappato al calore
dell’Africa, rozzamente saldato all’inventiva Europa,
su quell’altopiano inciso dai fiumi,
le minacciose forme della nostra febbre sono precise e vive.
Domani, forse, il futuro: le ricerche sulla fatica
e sui movimenti degli imballatori: l’esame graduale di tutte
le ottave della radiazione;
domani la dieta e il respiro per allargare la coscienza.
Domani la riscoperta dell’amore romantico;
le fotografie dei corvi; tutto il divertimento
all’ombra dominante della Libertà;
domani l’ora del regista teatrale e del musicista.
Domani per i giovani poeti che esplodono come bombe,
le passeggiate sul lago, l’inverno della comunione perfetta;
domani le corse in bicicletta
fuori porta le sere d’estate: ma oggi la lotta.
Oggi l’inevitabile aumento dei rischi di morte;
la conscia accettazione della colpa nei casi di omicidio;
oggi l’impiego delle forze
per lo squallido opuscolo effimero e per la riunione noiosa.
Oggi le consolazioni di ripiego; la sigaretta fumata in due;
le carte nel capanno a lume di candela, il concerto stonato,
le barzellette sporche; oggi
l’abbraccio maldestro e insoddisfacente prima di ferire.
Le stelle sono morte; gli animali non guarderanno:
rimaniamo soli col nostro giorno, e il tempo è breve e
la Storia agli sconfitti
può dire Ahimè ma non darà aiuto né perdono.
W.H. Auden (da Un altro tempo, Adelphi, 1997, a cura di Nicola Gardini)
Gerda Taro. La cacciatrice di luce
Note
1 Irme Schaber, Gerda Taro. Una fotografa rivoluzionaria nella guerra civile spagnola, DeriveApprodi, 2007
2 Irme Schaber, Gerda Taro. Una fotografa rivoluzionaria nella guerra civile spagnola, DeriveApprodi, 2007, pag. 74
3 Idem, pag. 186
4 Idem, pag. 18
5 Gerda Taro, Irme Schaber, Richard Whelan e Kristen Lubben (a cura di), Contrasto, 2009, pag. 46
6 Ibidem
7 Gerda Taro, Irme Schaber, Richard Whelan e Kristen Lubben (a cura di), Contrasto, 2009, pag. 18
8 Ibidem
9 Helena Janeczek, La ragazza con la Leica, Guanda, 2017, p. 11
10 Idem, pag. 18
11 Irme Schaber, Gerda Taro. Una fotografa rivoluzionaria nella Guerra civile spagnola, pagg. 132-133
12 Irme Schaber, Gerda Taro. Una fotografa rivoluzionaria nella Guerra civile spagnola, pag. 8
13 Walter Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Einaudi, 1991, pag. 29
14 Gerda Taro, Irme Schaber, Richard Whelan e Kristen Lubben (a cura di), Contrasto, 2009
15 Irme Schaber, Gerda Taro. Una fotografa rivoluzionaria nella guerra civile spagnola, DeriveApprodi, 2007, pagg.186-187
16 Rafael Alberti, Tra il garofano e la spada; Newton Compton, 1977
Anna Trevisan è blogger, giornalista pubblicista e mediatrice interculturale. Si è laureata in filosofia all’Università Ca’ Foscari di Venezia. Ha conseguito un Master in Comunicazione a Il Sole 24 Ore e un Master in Studi Interculturali all’Università degli Studi di Padova. Ha studiato anche a Berlino e a Londra. Per diversi anni ha collaborato con la Biennale di Venezia, nei settori D.M.T. (Danza, Musica, Teatro), Arte e Architettura. Ha insegnato italiano L2 ai bambini e agli adulti immigrati in Italia e ha lavorato come operatrice di sportello dell’Ufficio Immigrati. Ha svolto e svolge attività editoriale.
Scrive da più di dieci anni per il mensile “Venezia News”. È redattrice della rivista “Finnegans”. Collabora con il blog “Cult Tv Live Reviews”. Scrive per il suo blog “Multiculti” e per “ABCDance”, blog di danza del quale è co-fondatrice e redattrice. Per il progetto europeo “Migrant Bodies” di Operaestate Festival ha pubblicato un omonimo report e ha scritto due brevi testi teatrali, rappresentati nella tappa italiana dello spettacolo “Ethnoscape” (2015) di Cécile Proust. Per Tracciati Editore ha pubblicato i racconti brevi: “In viaggio verso dove”, nella raccolta “Tre d’amore” (2014) e “La bicicletta”, nella raccolta “Dammi Cinque” (2017).
© finnegans. Tutti i diritti riservati
Devi effettuare l'accesso per postare un commento.