Il carioca Geovani Martins, 28 anni, è considerato l’astro
nascente della letteratura brasiliana:
«La storia andrebbe riscritta dal punto di vista dei “favelados”»
di Lucia Capuzzi
da AVVENIRE del 30 ottobre 2019
I suoi riferimenti narrativi sono i classici Joaquín Machado de Assís e Jorge Amado. La prima scrittrice che ha conosciuto, però, è sua nonna. È stata lei a insegnargli a leggere nella casupola di una delle tante favelas di Rio de Janeiro. E a trasmettergli la passione del raccontare. «Mi parlava della sua vita: lo faceva in modo così coinvolgente da incantarmi. L’avrei ascoltata per ore», dice Geovani Martins, 28 anni, carioca doc (abitante di Rio), nuovo fenomeno della letteratura brasiliana. Il suo primo libro – Il sole in testa, appena arrivato in Italia per Mondadori (pagine 132, euro 16,00) – è stato tradotto in nove lingue. In patria, questa raccolta di tredici, potenti racconti brevi ha venduto cinquantamila copie e dovrebbe diventare presto un film.
“La voce delle favelas”, l’hanno soprannominato i media nazionali. Martins è nato a Bangú, nella periferia nord di Rio. A tredici anni, insieme alla madre, si è trasferito in un’altra baraccopoli – Vidigal –, stavolta nell’area sud. Un tragitto di non più di cinquanta chilometri, eppure il salto sociale è stato immenso. Perché Vidigal è incastonata fra i quartieri ultra-esclusivi di Copacabana, Ipanema e Leblón.
«Solo allora mi sono reso conto di essere povero. Nel mio quartiere precedente tutti vivevano più o meno nelle mie condizioni. Da Vidigal, per la prima volta, ho visto i ricchi veri, quelli che pensavo esistessero solo in tv…. Lasciarsi il vicolo alle spalle, dividersi con gli sbirri e ancora sbirri lo spazio della scalinata, attraversare gli scoli a cielo aperto, affrontare lo sguardo dei ratti, schivare i fili elettrici, vedere gli amici d’infanzia con addosso le armi da guerra, per ritrovarsi quindici minuti dopo davanti a un condominio con le piante ornamentali che abbelliscono le inferriate e guardare gli adolescenti che prendono lezioni di tennis. È tutto molto vicino e molto lontano. E più cresciamo, più alti diventano i muri», si legge in Spirale, secondo racconto de Il sole in testa.
Le barriere invisibili che separano “morro” e “asfalto” – cioè favelas e resto della città –, però, non sono più invalicabili. Martins ne è la dimostrazione. «Non sono un’eccezione. Sono parte di un grande movimento di scrittori, pittori, giornalisti, musicisti cresciuti nelle favelas – sottolinea –. Siamo il frutto del processo di trasformazione vissuto dal Paese nello scorso decennio quando, per la prima volta, con la politica delle quote, gli eterni esclusi – neri, poveri e favelados (abitanti delle baraccopoli) – sono potuti entrare all’Università. Ma siamo anche un fattore di ulteriore cambiamento». Perché questa generazione di giovani artisti venuti dai margini sta formando un nuovo pubblico. «Tanti ragazzi delle favelas si identificano con i personaggi miei e di altri autori di questo movimento. E, così, si avvicinano alla cultura, finora “cittadella blindata” dell’élite».
La letteratura brasiliana, spesso, ha raccontato le favelas da varie angolature. In che cosa si differenzia il suo stile e quello del movimento di cui si ritiene parte?
«È vero, sono state raccontate. Dagli altri, però, che le hanno rappresentate con personaggi in genere, stereotipati. C’è un immaginario disputato sulle favelas. I miei scritti parlano della frattura sociale che ha segnato il mio sguardo sul mondo. Il mio punto di vista, però, è quello dei favelados, perché sono uno di loro. Ora siamo noi a voler raccontare la nostra storia. Non ci basta essere oggetto della narrativa altrui: cerchiamo di diventare protagonisti, di riprenderci la scena».
Questo mutamento sta modificando l’immaginario sulle favelas del resto della società brasiliana?
«Sta facendo qualcosa di ben più importante. Non mi interessa molto cambiare la percezione dell’élite nei confronti dei quartieri poveri e dei loro abitanti. A me importa che, per la prima volta, i ragazzi delle favelas si accostino a un racconto perché lo sentono loro. Che prendano un libro in mano. Non solo i miei. Ripeto: in Brasile, è in atto un grande movimento di appropriazione della cultura – sia come consumo, sia come fruizione – da parte di quei settori che prima ne erano esclusi. All’inizio, quando i docenti mi chiamavano a parlare in una scuola, gli alunni rimanevano sorpresi perché dicevano che “non avevo la faccia dello scrittore”. In effetti, a lungo, gli scrittori non avevano la pelle nera, i capelli lunghi o i tatuaggi. Ora, però, la realtà sta cambiando. Uno dei motori, anche nel mio caso, è stato la “Festa letteraria delle periferie” (Flup)».
Di che cosa si tratta?
«È un festival creato nel 2012 dagli scrittori Julio Ludemir e Écio Salle. Per circa una settimana, non solo la Flup porta la letteratura dentro le favelas: dà anche spazio alla cultura prodotta dai suoi abitanti. Per Rio è stata una rivoluzione. Io stesso ho potuto trovare un editore grazie alla Festa, dove ho iniziato a partecipare fin dal 2013. Scrivevo da sempre: ho composto le prime poesie a nove-dieci anni, poi mi sono dato alle canzoni, ai blog. Tutti mi dicevano che sarebbe stato molto difficile che i miei lavori venissero pubblicati. Non ho, però, mai mollato. Alla fine, nel 2017, ho presentato qualcuno dei racconti che fa parte di Il sole in testa alla Flup. Li avevo scritti a macchina perché il pc si era rotto e non avevo i soldi per farlo riparare. Per fortuna mia madre mi ha rimediato una Remington 22… In quell’occasione, ho conosciuto Ricardo Teperman della casa editrice Companhia das letras. Così è iniziato tutto. E non solo per me: dalla Festa vengono narratori come Ana Paula Lisboa o Jessé Andarilho. Purtroppo, iniziative come la Flup sono ancora un’eccezione in America Latina. Quando sono stato a Bogotà, ad esempio, ho cercato romanzi di autori delle comunas, come là si chiamano le baraccopoli. Non ne ho, però, trovato…».
Una delle peculiarità di suoi racconti è il linguaggio. Gergo, parlato, portoghese classico si mescolano conferendo ai personaggi uno straordinario realismo. Per certi versi, Il sole in testa ricorda il pasoliniano Una vita violenta. Che cosa ne pensa?
«Mi farebbe molto piacere. Adoro Pasolini, sia come scrittore sia come regista. Amo molto il cinema italiano novecentesco: Fellini, De Sica, Bertolucci. Il linguaggio è fondamentale per dare carne e sangue ai personaggi. Per farli uscire dalla carta e divenire reali. Ben poco di quanto racconto in Il sole in testa l’ho vissuto personalmente. Tutto, però, è vero perché appartiene alla realtà in cui sono immerso. Semplicemente lo trasformo».
Sta lavorando a un nuovo libro?
«Nell’ultimo anno e mezzo sono stato travolto dalla promozione di Il sole in testa. Ho, così, interrotto delle ricerche che stavo facendo sulla situazione della favela di Roçinha tra il 2011 e il 2013: il periodo della cosiddetta pacificazione. Conto, però, di rimettermi presto al lavoro e consegnare il romanzo entro la fine del 2020».
Perché ha scelto proprio il momento in cui alcune favelas sono state poste sotto il controllo della polizia di pace per espellere i trafficanti?
«In realtà, questa storia andrebbe riscritta dal punto di vista dei favelados a cui nessuna autorità ha chiesto un parere al riguardo. Non si è trattato di una pacificazione bensì di un’occupazione da parte di corpi di polizia del tutto impreparati che vedevano in ogni persona un potenziale bandito. È questo a dover cambiare. Se no le singole politiche falliranno».
Il carioca Geovani Martins, 28 anni, è considerato l’astro nascente della letteratura brasiliana: «La storia andrebbe riscritta dal punto di vista dei “favelados”, a cui nessuna autorità ha chiesto un parere prima della “pacificazione” del 2011-2013. In realtà è stata un’occupazione da parte di corpi di polizia che vedevano in chiunque un potenziale bandito» Lo scrittore brasiliano Geovani Martins
Articolo pubblicato il 30 ottobre 2019 da Avvenire.it
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