RIVISTA DI CULTURA MEDITERRANEA

Festival Biblico di Treviso. I Salmi come “cibo” dell’anima, di Raffaele Vertucci

Dall’incontro svoltosi domenica 18 maggio 2025 a Treviso presso i Musei civici di Santa Caterina per il Festival Biblico e dal titolo Il pane dei Salmi: vita, dono e giustizia a cura della rivista Finnegans, è emersa in maniera importante la valenza dei Salmi da intendersi come lode gioiosa e supplica sofferta; quei Salmi di cui S. Girolamo nella sua Lettera 53 indirizzata all’amico Paolino scrive: “Davide è il nostro Simonide, il nostro Pindaro, il nostro Alceo, il nostro Orazio, il nostro Catullo e il nostro Sereno. È la lira che canta il Cristo”1. É emerso inoltre tutto il fascino mistico del Salterio espresso da Sant’Agostino, che nelle sue Enarrationes in Psalmos esclamava semplicemente: “Psalterium meum, gaudium meum”2. Infatti i loro effetti sul lettore o ascoltatore sono assimilati a quelli suggestivi del suono, del canto: «La musica della lira riempie l’animo di dolcezza e lo ricrea e imbeve e sospende, rendendolo estraneo a ogni dispiacere a ogni sofferenza»: “l’Amato è la musica silente, perché (l’anima) in lui conosce e gusta questa armonia di musica spirituale”. 

Da quando Agostino ebbe la possibilità di entrare nel mondo dei Salmi, grazie ai commenti fatti da sant’Ambrogio durante il suo catecumenato a Milano, e di commuoversi nell’ascoltarli, come narra nelle sue Confessioni, non se ne staccò più. Ne fece la struttura della sua preghiera quotidiana, dentro la quale rileggeva la sua vita, fecondandola, e la vita dei suoi fedeli. Gli erano diventati familiari. E, per esprimerci con un termine a lui caro, li ‘ruminava’ a lungo, cogliendone il messaggio profondo. Per questo seppe tradurli in modo efficace al suo pubblico, assai vario, ma sempre affascinato e interessato, nell’intento di farli entrare nel circuito della fede, che tutto misura sull’eterno. Per Agostino i Salmi sono luce per la vita quotidiana, non voli pindarici o tematiche teoretiche da accademia. Sono il respiro della preghiera quotidiana, non solo sua, ma del cristiano in genere, adatti ad accompagnare, come un sottofondo musicale da giubilo, la sua vita spirituale. Per questo, esortava anche i fedeli a “ruminare”, cioè a meditare, a pensare il salmo per assimilarne il contenuto di salvezza, come puntualmente ed efficacemente si era lui stesso espresso: “Ammoniamo dunque la vostra carità affinché le cose che nell’ascolto deponete nel, per così dire, ventre della vostra memoria, meditandole e ripensandole nuovamente, in un certo senso le ruminiate”. Da pastore d’anime sensibilissimo e finissimo evangelizzatore, proprio nell’esporre ai fedeli il mistero contenuto nei versetti dei Salmi, corredandoli ampiamente di tanti altri testi biblici, li educava all’ascolto della Parola di Dio come paradigma su cui costruire la loro vita di cristiani.

Vittore Carpaccio, Visione di Sant’Agostino, 1502 (Wikimedia Commons)

Viene pertanto spontaneo osservare che, da qualunque parte si consideri l’opera intera sui Salmi, ne risulta una miniera di spiritualità anche per l’oggi. In questo contesto, emoziona il fatto, evidenziato dal suo biografo e discepolo, il vescovo Possidio, che Agostino abbia voluto che la sua camera fosse tappezzata, come fosse la sua volta celeste, dall’intero salterio, che sentiva echeggiare nella sua mente e nel suo cuore come una sinfonia celestiale, fino alla morte, avvenuta il 28 agosto del 430 d.c., con Ippona sotto assedio dei Vandali. Che cosa avranno suggerito all’animo di Agostino, ormai sulla soglia dell’eternità, versetti come questi: “O Dio, Tu sei il mio Dio, dall’aurora ti cerco… Il tuo volto, Signore, io cerco… Il Signore è il mio Pastore, se anche vado per valle tenebrosa, non temo alcun male perché Tu sei con me… Mi rallegrai quando mi dissero: ‘Andremo alla casa del Signore’ (come pure gli altri salmi delle ascensioni)…”. Con gli occhi, soprattutto della fede, fissi sulle pareti della sua stanza affrescata dai Salmi, si è ancora una volta ulteriormente familiarizzato con il volto di Dio, che di lì a poco, finalmente, avrebbe visto “a faccia a faccia”. 

E il Salterio è stato prima fonte di molti autori, primo tra tutti il mistico Giovanni della Croce:


Dove ti sei nascosto, 

Amato, abbandonando me gemente? 
Come il cervo fuggisti, 
dopo avermi ferita;
uscii invocandoti e te n’eri andato (Cantico Spirituale, Strofa I). 

Come non pensare a quello che è un vero gioiello di fede e poesia, il Salmo 42, aperto da una cerva assetata, con la gola riarsa, che lancia il suo lamento davanti al deserto arido, anelando alle fresche acque di un ruscello3. Qui l’orante è immerso in un presente tenebroso illuminato però dalla brama del ritorno e direi meglio della scoperta di quell’Amato che è fonte di tutto ma al di sopra di tutto, e quindi è tutto e nulla di tutto (come nel Salmo)4. La scoperta è scoperta appunto: non implica un’assenza perciò, ma una presenza nascosta che se vuole essere trovata ha bisogno che “chi deve trovare una cosa nascosta, deve entrare altrettanto nascostamente fino al nascondiglio dove essa sta; quando la trova, anche lui è nascosto nello stesso modo” (Commento alla Strofa I). 

Da sinistra, Luigi Viola, Rav Alberto Avraham Sermoneta, Mons. Michele Tomasi e Massimo Donà

Mi piaceva però insistere sull’uso del rapporto tra poesia e salmo: credo davvero che, come scrive David Maria Turoldo, altro grande mistico citato da Mons. Michele Tomasi durante l’incontro, la poesia segnali la svolta della storia (di una storia): la poesia infatti è immediatezza, semplicità, purezza. Per Giovanni della Croce ad esempio, e lo sottolineo, la “poesia”, ossia la scrittura in “versi” (ma non solo) è, come aveva pensato prima di lui già San Pier Damiani, non un mero diletto, un’opera di pura letteratura, la semplice espressione di un’“intuizione” soggettiva (il termine crociano è qui usato di proposito, poiché richiama alla “distinzione” della poesia dalle altre attività spirituali umane, qui, in particolare, dalla preghiera), bensì è sempre, se vera poesia, preghiera. E la poesia come “preghiera” è al contempo “pensiero” e dunque “vita singolare che pensa”!5 Sarebbe perciò più appropriato dire che il Cantico di Giovanni della Croce (e penso qui anche alle Laudes Dei Altissimi) rappresenta la testimonianza di un pensiero poetante6 che è solo il messaggero di un Fondamento, di un Nulla, della Verità che si colloca fuori di ogni possibilità di essere afferrata con la ragione calcolante ma pure in ogni pensiero si invia come ineliminabile: «È ciò che lo Spirito volle significare nel libro della Sapienza: “Spiritus Domini replevit orbem terrarum, et hoc quod continet omnia, scientiam habet vocis”: Lo Spirito del Signore ha riempito l’orbe terrestre, e questo mondo che contiene tutte le cose fatte da lui, è a conoscenza della voce – che è la solitudine sonora; cioè la testimonianza che tutte le cose danno di Dio nel loro essere» (Commento alla Strofa XV). 

In questo senso dunque le preghiere del Salterio, in quanto liriche, sono prima fonte per Giovanni della Croce: del resto il loro messaggio ha come veicolo di comunicazione proprio la dimensione stilistica, metrica, simbolica della poesia semitica; e per entrare in sintonia piena con i Salmi, allora è indispensabile aprirsi all’“intuizione” libera e al rigore proprio della poesia, realtà semplice e complessa, componente costante dell’umanità autentica, esperienza per molti versi affine a quella di fede. E solo una continua e amorosa assuefazione al testo poetico del Salterio può veramente svelarne i segreti e lo splendore. Si procede così riconoscendo in esso una vera teologia che sarà posta a fondamento del pensare: ovvero una teologia della preghiera, vale a dire un’implicita riflessione sull’incontro con Dio: un incontro che si attua in un luogo, centro di un duplice movimento. Alla “tenda del convegno” del tempio si dirige l’orante, ma vi giunge anche Dio e il dialogo inizia: è per questo che il Salterio è la celebrazione di una relazione, di un hesed: vocabolo che ricorre almeno un centinaio di volte e che scandisce antifonalmente il Grande Hallel (Sal 136), come sottolineato durante l’incontro da Rav Alberto Avraham Sermoneta, e copre un’area semantica molto ricca e personalistica (amore, fedeltà, fiducia, intimità)7

Da sinistra, Luigi Viola, Rav Alberto Avraham Sermoneta, Mons. Michele Tomasi e Massimo Donà

Una relazione interpersonale che è espressa anche con il “ricordo” di Dio: il “ricordarsi” di Dio è del resto l’atteggiamento fondamentale dell’alleanza nei cui confronti egli è costantemente fedele (Sal 105, 8): un ricordarsi che è sperimentabile nelle sue azioni storiche (Sal 78, 4-5; 105, 1) e cosmiche. Al ricordarsi di Dio deve corrispondere il “ricordare” dell’uomo che è sinonimo di “credere”: infatti il ricordo-memoriale è la professione di fede che rende attuale e contemporaneo l’atto salvifico passato di Dio introducendo nuovamente il fedele nella salvezza. Frequente è allora l’invito a “ricordare le meraviglie di un tempo” (Sal 77, 12), a “ricordarsi di Dio” (Sal 77, 4), a “ricordarsi del suo nome” (Sal 119, 55). Si, perché spesso l’uomo dimentica Dio, e i segni teologicamente più elevati di questa crisi della relazione Dio-uomo sono due: il silenzio di Dio e il peccato dell’uomo. Quel silenzio di Dio che è espresso in molte pagine dal sapore quasi giobbico (Sal 22; 73; cf. 4, 5; 37, 1.7-8; 38, 2-4) ed è dipinto con vigorose rappresentazioni simboliche, come l’“accendersi” dell’ira di Dio (Sal 2,5; 7,7.12; 44, 24; 79,5; 89,47), come l’“allontanarsi” di Dio (Sal 10,1; 22,2.12.20), il “nascondere il volto” da parte di Dio (Sal 4,7; 10,11).

Del resto i Salmi rappresentano, il giardino dei simboli e dell’immaginazione, la cui conoscenza evidentemente può essere solo una esperienza sapida, saporosa e affettiva. In questo senso la relazione con Dio nel Salterio è anche mistica, come insegna una pittoresca simbologia: la tavola del pasto di comunione (Sal 36, 9), la coppa di vino e il profumo dell’ospitalità (Sal 23, 5), la sazietà fisica e interiore (Sal 16, 11; 22, 17; 37, 19), la comunione di vita (Sal 42, 2.9) e di gioia (Sal 36, 8-10), l’abitazione comune sul santo monte (Sal 5, 4; 15, 1; 23, 6; 52, 10; 92, 13-15), l’ombra che ripara dall’ardore bruciante del sole (Sal 96,3-6), le ali che proteggono (Sal 17,8; 36,8-10), l’intimità del nido (Sal 84,4).  

Ritornando al silenzio dell’uomo, questo invece è espresso dal suo peccato (Sal 50, 21; 5, 5-6) approfondito nelle sue dimensioni morali dai salmi d’ingresso alla liturgia (Sal 15; 24;26) e dai celebri Sal 51 e 131. 

È solo attraverso la confessione e il ripudio di questo nemico insito nell’uomo stesso (Sal 32, 5; 38, 19; 41, 5; 51, 6; 106, 6) che fiorisce la riconciliazione (Sal 51, 9) e si restaura il dialogo, sigillato dal perdono di Dio che è la vittoria dell’amore più forte dell’offesa. Anche il lessico del perdono è suggestivo: “non ricordare” il peccato, “rivolgere il volto”, “coprire-kipper il peccato”, cancellarlo, “ritornare” a Dio da parte dell’uomo e di Dio verso l’uomo misero, “aver pietà”, “dominare il furore”. Come il cielo è alto sulla terra, così domina il suo hesed (amore) su quanti lo temono. Come dista l’oriente dall’occidente, così allontana da sé le nostre ribellioni8.

San Francesco: il Cantico delle creature

Le dimensioni verticale e orizzontale di un nuovo mondo pacificato si incrociano così nel cuore dell’uomo “convertito” e perdonato da Dio, che è in Cristo condizione indispensabile di intendimento del Suo nome, ed è in Cristo l’Amato di cui si sa con un sapere che è anche percezione di colore, profumo, suono, silenzio, fruizione di solitudine e di comunione. È questa la mistica estetica il cui principe è San Francesco, colui che dimostrò nel miglior modo, con il linguaggio più adeguato, che vi è un’altezza qualitativa anche del senso e che esso, in tale altezza, rivela Dio, lungi dall’ostacolarne la comprensione. All’occhio asceso nella solarità, il sole astronomico visibile, con tutto ciò su cui risplende, «le montagne, le boschive convalli solitarie, […] i fiumi risonanti» “portano significatione” dell’“Altissimo” direttamente: nascono così le Laudes Creaturarum che «cantano le opere del Signore in quanto splendore di bellezza» (Salmo 110), che cantano addirittura la notte goduta però nelle presenze che la chiarificano appunto quali sora luna e frate foco.

Dio è l’Altissimo per San Francesco: per Giovanni della Croce Dio è Altura9 per la sua somma altezza “e perché in lui, come dall’altura, si esplorano e si vedono tutte le cose, sia gli addiacci superiori sia gli inferiori» (Commento alla Strofa II). Pertanto noi uomini dobbiamo «rispecchiarci nella tua bellezza” (Strofa XXXVI) attraverso la “salita” al monte, “che è esperienza mattutina ed essenziale di Dio, che è conoscenza nel verbo di Dio” (Commento alla Strofa XXXVI), e la “salita” al colle, cioè alla esperienza vespertina di Dio, che è conoscenza di Dio nelle sue creature e opere e costruzioni meravigliose; la quale è simboleggiata dal colle, perché è una conoscenza meno alta di quella mattutina» (Commento alla Strofa XXXVI)10

Qui emerge il Principio che è Verità, che è Vita, e che fa vero il mondo perché lo trae a sé11. Superando così quell’antitesi eventuale facendosi sintesi, come sottolineato dal Prof. Massimo Donà citando il grande filosofo dell’Ottocento G.W. Hegel!  

L’“itinerarium” del pensare è allora un “itinerarium” della Verità: scrive infatti Magdalena del Espìritu Santo, che è un’altra testimone della vita di San Giovanni della Croce: «Poiché mi meravigliarono la vivacità delle parole e la loro sottile bellezza, gli chiesi un giorno se era Dio a dargli quelle parole così ricche e belle, e mi rispose: Figlia, a volte era Dio a darmele e altre ero io a cercarmele». Proprio per questo San Juan si chiede nel Prologo del Cantico spirituale: “chi saprà scrivere ciò che egli fa comprendere alle anime innamorate in cui abita? Chi potrà manifestare con parole i sentimenti che ispira? Certo nessuno lo può”. L’unico modo per parlarne è l’utilizzo di termini positivi in maniera metaforica, analogica o simbolica, lasciando ben intendere che quei termini positivi riferiti al Cristo indicano qualcosa di più e di diverso rispetto a quello che significano nel linguaggio comune, e in questo senso i termini positivi vengono ridimensionati mediante la negazione della loro finitezza e determinazione.

Saper udire questo linguaggio “inaudito” significa perciò seguire un itinerario o meglio ancora per San Juan percorrere tre stati o vie di esperienza spirituale: la purgativa, l’illuminativa e l’unitiva12. Più precisamente c’è un momento in cui, e qui credo che San Juan sia di una profondità estrema, l’uomo si renda conto guardando il mondo e rispecchiandovi in esso, e pensando alla morte, di quanto vane e ingannevoli siano le cose del mondo, che tutto ha fine e viene a mancare come l’acqua fluente, come sia incerto il tempo, risicato il possesso […] quando sente che Dio è molto in collera, e si è nascosto perché ella ha voluto scordarlo fino a tale punto in mezzo alle creature (Premessa al Commento). 

Il ritratto di san Giovanni della Croce dipinto nel 1680 circa da Cesare Gennari

È il momento della “notte oscura” che è anche il titolo di una sua famosissima opera, e che è “la via stretta che conduce alla vita eterna”13, è la via dei travagli e degli stenti, è la via delle tenebre, quelle tenebre però che nascondono il senso del vivere e del pensare e che, se riconosciute come tali, ce li restituiscono totalmente. 

Riconoscerle significa sentire la ferita dell’Amore di Dio inferta attraverso il Cristo (l’Amato), che dunque incide il sicomoro e lo rende “saporoso” all’uomo che lo vuole “sposare”14. Qui siamo al culmine del “pensare” (che è iper-coscienza, iper-razionale) di San Juan, a quello che lui chiama “matrimonio spirituale” (che riempie l’uomo di Dio, che lo accresce): è l’unione perfetta con Dio, è l’anima che si “india”. Il “desiderio” della sposa si compie in un’unione intima con un amore folle da parte di Cristo nei suoi confronti, amore più grande di un amore materno, in cui addirittura l’Amato diventa servo della sposa, in cui è delizia, carezza, è tenero con la sposa, e anche quest’ultima reciprocamente si dona a Lui per intero15.

In questa maniera l’Amato mostra la “scienza saporosa” che è la “teologia mistica”, che è la “contemplazione”16. Siamo di fronte a pagine straordinarie di contemplazione (avere Dio come “contemplum”, veramente), di sapienza, scienza, di volontà, di memoria17.

Emerge, inoltre, il Dio come Carità, cioè come Dono Gratuito; ed emerge la tridimensionalità: esse, nosse, velle che deve essere ogni persona se vuole vivere l’esperienza del Cristo. Emerge l’illuminazione da parte di Dio nei confronti dell’uomo! Tutti “concetti” altissimi di cui si “sa” solo se li si sperimenta! 

Nell’intima cantina 
dell’Amato ho bevuto; e fuori uscita 
per tutti questi campi 
più nulla ormai sapevo, 
e ho perso il gregge cui badavo prima (Strofa XXVI).

“Più nulla ormai sapevo: nescivi”, dice la sposa dei Cantici dopo aver parlato della sua trasformazione d’Amore nell’Amato, se non la “sapida scientia”, che è la “scientia Christi” sentita, assaporata con tutta sé stessa: è l’“estasi” mistica di alta “scientia di Dio” (il “di Dio” è da intendersi in maniera soggettiva, non oggettiva). Se non si sa di Dio, non si sa nulla: “Fides supra opinionem et infra scientiam costituta”18

In questa maniera si realizza l’Amore tra l’Amato e la sposa che è recupero edenico del mondo, poiché ella si sente come “Adamo nello stato di innocenza, quando non sapeva cosa fosse il male, perché è così innocente che non lo intende” (Commento alla Strofa XXVI). Tutto ciò non annulla però l’anima, ma la ricomprende totalmente nel suo rinnovamento di uomo nuovo19

L’Amato è dunque il Cristo la cui venuta, per San Juan, con la Nascita e la Croce20 è un evento che trae le persone verso l’eternità e conferisce loro durata nella dimensione dell’“aevum”: è qui che è proprio parlare di “kairos” in cui consistono e durano le persone in forza della grazia loro data e che è attimo presente che in sé con-implica ogni evento. Incrociando il tempo, il Verbo eterno trae a sé per grazia coloro che accettano e desiderano di essere costituiti nella dignità dei redenti21.

“Re Davide suona la cetra”, pagina miniata da un Salterio e Innario ambrosiano dell’XI secolo (Biblioteca Apostolica Vaticana)

Non solo, ma chiamato o non chiamato, Dio è sempre presente: ecco ciò che è la mistica, ossia scoprire che non si è solitari, scoprire, come scrive San Giovanni della Croce nel Prologo della Subida del Monte Carmelo, che si è sempre in Unione, che è la perfezione. Tutto ciò è possibile che Giovanni della Croce lo contempli alla luce proprio del Salterio che rappresenta il testo della meditazione orante cristiana, come già testimonia la comunità apostolica che riserva ai Salmi una vera ermeneutica: in questo spirito Tommaso d’Aquino nella sua In Psalmos Davidis Expositio scriveva che: “a differenza degli altri scritti biblici, il Salterio abbraccia nella sua universalità la materia di tutta la teologia. La ragione per cui questo libro biblico è il più usato nella Chiesa è che esso contiene in sé tutta la Scrittura. La sua caratteristica è quella di ridire, sotto forma di lode, tutto quello che gli altri libri espongono secondo i modi della narrazione, dell’esortazione e della discussione. Il suo scopo è quello di far pregare, di elevare l’anima fino a Dio attraverso la contemplazione della sua maestà infinita, attraverso la meditazione dell’eccellenza dell’eterna beatitudine, attraverso la comunione alla santità di Dio e l’imitazione effettiva della sua perfezione”.

Raffaele Vertucci, filosofo e docente


Immagine di copertina Il pane dei Salmi, Festival Biblico 2025 di Treviso. Da sinistra, Luigi Viola, Rav Alberto Avraham Sermoneta, Mons. Michele Tomasi e Massimo Donà

Note:

  1. PL 22, 547. ↩︎
  2. PL 37, 1775. ↩︎
  3. Mi piace rimandare alla musica, che è esercizio metafisico precipuo e che si è alimentata per secoli del Salterio ricordando qui il Sicut cervus di Giovanni Maria da Palestrina. ↩︎
  4. Si rimanda alla Strofa XIII e al relativo commento. ↩︎
  5.  La totalità delle poesie veramente tali composte da SAN PIER DAMIANI fu raccolta da Costantino Gaetani, il curatore dell’“editio princeps” dell’“opera omnia” dell’avellanita, nel quarto volume della sua edizione, che è poi passato nella raccolta del Migne al volume CXLV colonne 911-986. Il primo volume dell’“editio princeps” del Gaetani è del 1604, l’ultimo, che il dotto benedettino pubblicò ormai ottantenne, del 1640. E alla raccolta di poesie il Gaetani dette un titolo assai significativo, come subito si vedrà: Carmina sacra et preces. Si tratta di un complesso di 227 carmi; o meglio, di carmi e “preghiere”; perché insieme alle poesie vere e proprie esso raccoglie anche numerose preghiere: per lo più “orationes” della Messa immediatamente successive al “Gloria”, o preghiere di “Secreta” o di “Postcommunio”; v’è anche un “prefazio” (XLVI), un “introito” (CV) e una preghiera di “communio” chiaramente tale (CXV). ↩︎
  6. Rimando a tal proposito a Teodorico MORETTI-COSTANZI, Meditazioni Inattuali sull’Essere e il senso della vita, cit., cap.VI, p. 112, nota 1: “Nell’immediatezza della sua espressione poetica, la mistica si dimostra debitamente consapevole dell’impossibilità in cui si trova di tradursi (senza tradirsi) nel linguaggio di un pensiero filosofico-concettuale che la precede su un altro piano di esperienza e che quindi dovrebbe essere, più che riformato, sostituito. In questo senso è singolarmente preziosa la testimonianza mistica del Cantico delle Creature, che San Francesco mantenne incontaminato da ogni chiarificazione nel concetto, già esplicitamente e chiarissimamente giudicato nella maledizione al filosofante Fra Giovanni da Sciacca (Speculum pefectionis)”. ↩︎
  7. Cfr. Gianfranco RAVASI, I Salmi, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo, 2007. ↩︎
  8. Sal 103, 11.12. ↩︎
  9. Si rimanda alla Strofa II e al relativo Commento ↩︎
  10. Credo che per assaporarne la bellezza sia necessario leggere il testo del Commento alla Strofa XXXVI per intero. ↩︎
  11. Il cristianesimo è cogitor ergo sum, che significa che, in quanto pensato, in Dio, io sono. Cfr. Anselmo d’Aosta, Proslogion, cap. XVI. ↩︎
  12. Si rimanda all’Argomento che precede l’inizio del Commento del Cantico spirituale. ↩︎
  13. Mt. 7, 14. ↩︎
  14. Rimando a SANTA CATERINA DA SIENA, mistica per eccellenza che esprime la sua più alta spiritualità soprattutto nel Dialogo della Divina Provvidenza, nelle Orazioni e nelle numerose Lettere; cito da una sua Orazione la XXI: “Nella tua luce si conosce la cagione della luce e la cagione delle tenebre […]. È straordinario che, mentre siamo nelle tenebre di questa vita mortale, conosciamo la luce e impariamo a conoscere l’infinito nelle cose finite, permanendo nella morte conosciamo la vita”. ↩︎
  15. Si rimanda, all’interno del Commento, alla Premessa alla Strofa XXVII.
    ↩︎
  16. Si rimanda alla Strofa XXVII e al relativo Commento. ↩︎
  17. Si rimanda al Commento della Strofa XXVI. ↩︎
  18. UGO DI SAN VITTORE, De Sacramentis. ↩︎
  19. Si rimanda al Commento della Strofa XXVI. Si tratta di “un potenziamento di noi stessi, da effettuare tota mente, toto corde, tota anima, secondo ciò che siamo per costituzione naturale; non solo come ragione e come spirito, ma anche come senso (un senso che fa parte della mens). Che nel senso medesimo sono da distinguere un piano o stato di deiezione, dovuto allo scadimento nel peccato, e un piano di purezza naturale… Che questa purezza del senso, in cui l’anima si unisce a Dio, si deve senza tregua desiderare e ricercare. Ricercarla non solo nella vista e nell’udito, ma a pari titolo nel gusto, nel tatto e nell’olfatto. Che i cinque sensi infine sono tutt’altro che esclusivi del materiale e del corporeo. Fino al senso spirituale: «recuperati i sensi -scrive il Serafico quasi in estasi- mentre l’anima vede il suo sposo, lo ascolta, ne sente il profumo, lo gusta e lo abbraccia, può cantare come la sposa del Cantico dei Cantici” (SAN BONAVENTURA Itinerarium mentis in Deum, IV, 2). Ecco dunque l’ascesi estetica, etica e pensante insieme! ↩︎
  20. Ricordo che in origine San Giovanni della Croce si chiamava Juan de Yepes, poi Juan de Santo Matìa; egli sceglie l’appellativo della Croce poiché a suo avviso essa indica il suo modello di vita che è la sofferenza accettata o cercata come fonte di redenzione dello spirito. ↩︎
  21. Teodorico MORETTI-COSTANZI, Il senso della storia, ed. Maurizio MALAGUTI, Armando, Roma, 2002, p. XLIV. ↩︎

Autore