
“Per diciotto anni era stato suddito dell’Imperatore. Ludovico era nato il 9 ottobre 1900 a Fiavé, un paese trentino, in Welschtirol, sul confine meridionale del glorioso impero austro-ungarico”. Ester “era una giovane magrissima e dai folti capelli neri… Il suo viso era altero, il portamento orgoglioso, le braccia nude incrociate sul petto… Più che la bellezza mediterranea a colpirlo fu il suo sguardo…”.
Ce li presenta così Pierluigi Pedretti i protagonisti del suo primo romanzo. L’autore è uno scrittore calabrese di origini trentine per linea paterna. Appassionato di mountain bike, studioso di storia, animatore di circoli culturali nella sua città, insegna Storia e Filosofia al Liceo Telesio di Cosenza. Ha esordito nel 2018 con Un demone in bicicletta (Ed. Le farfalle 2018), raccolta di racconti in bicicletta tra i monti della Calabria. Nel 2022 ha dato alle stampe Roma sul Savuto (Ed. Ilfilorosso 2022) saggio sulla latinizzazione di una valle calabrese. E nel 2025 si cimenta con la narrativa, pubblicando Ester e il sovversivo (Edizioni Efesto 2025), una storia suggestiva ed intrigante, ambientata in Calabria, nella valle del Savuto, a Grimaldi. Un intreccio di vicende individuali e collettive, di tesori nascosti e di rovine di antichi monasteri, di misteriosi omicidi e sparizioni, di un amore delicato e quasi nascosto che scalda il lungo inverno calabrese del confinato Ludovico. Siamo alla vigilia della seconda guerra mondiale. È il settembre del 1938. L’Italia imperiale ha da poco scoperto ragioni e radici della sua superiorità storica e razziale. Qualsiasi forma di dissenso viene intercettata e repressa. Il regime fascista sembra al suo apice.
Mi piacerebbe iniziare la nostra conversazione chiedendoti di raccontarci il contesto nel quale tu ambienti e fai sviluppare il romanzo.
«Il contesto specifico, nel quadro complessivo della grande storia da te delineato, è quello riguardante due regioni italiane, che sembrano agli antipodi, il Trentino e la Calabria. L’estrema regione meridionale, terra difficile e problematica, assiste al passaggio dal liberalismo al fascismo in modo apparentemente indolore, in realtà in essa cova un profondo malessere causato dalla persistenza al potere del notabilato padronale che subito si adegua ai nuovi governanti. I braccianti continuano ad essere soggiogati. Il Trentino, dopo secoli di dominio asburgico, è “costretto” invece ad integrarsi nel nuovo stato, subendo le conseguenze post belliche: in Italia molti diffidano dei trentini considerandoli “austriacanti” e molte questioni sociali restano irrisolte. Non si dimentichi anche che migliaia furono i trentini che morirono – soprattutto poveri contadini – combattendo per l’imperatore Francesco Giuseppe, mentre solo una minoranza di essi si erano arruolati per l’Italia».
In questo quadro, quindi, si articola e sviluppa la narrazione. Iniziamo da Ludovico. Lo vediamo scendere da un treno ad Amantea. Lo seguiamo nelle cinque faticose ore di cammino in una tarda estate di strade polverose, osservandone lo smarrimento del primo incontro con Grimaldi, il piccolo paese dove è stato confinato.
Questo nuovo mondo, così lontano dalla sua valle in Trentino, lo sconcerta. Il Trentino era pieno di storie spaventose sulla Calabria, di viaggiatori “rapinati o peggio rapiti, a cui era seguita l’amputazione di orecchie o nasi”. Ma Ludovico sa osservare oltre lo sguardo. I suoi occhi sanno percepire quanto di familiare possa incontrare in una terra così diversa dalla sua. Scopre che la gente calabrese ha gli stessi visi dei trentini cotti dal lavoro nei campi. Che la povertà parla la medesima lingua pur con accenti diversi. Vero?
«Mio padre mi raccontava delle lacrime versate da sua nonna quando la famiglia dovette partire per la Calabria: “Attenti laggiù che quella gente gira armata di coltello e uccide per niente”. I pregiudizi sul Meridione violento erano sedimentati già da tanto tempo. Ricordo poi bene, nei miei viaggi da bambino al nord fra i ’60 e i ‘70, la poca differenza che coglievo tra la regione paterna e quella materna. Fiavè, il paese da cui provenivano con figli a carico i miei nonni, non era differente sotto l’aspetto sociale da Grimaldi: gente umile laboriosa, povero ma dignitoso tenore di vita ed emigrazione. Quanta differenza rispetto ad oggi!».

Arrivato a Grimaldi Ludovico scopre presto che anche nella valle del fiume Savuto, così lontana dalle montagne delle sue Giudicarie, c’è un mondo di “sovversivi” che vivono in clandestinità il dissenso verso il regime. In fondo, è un sovversivo, un tipografo sovversivo, anche lui…
«Ludovico è un “sovversivo” perché così viene definito dalle autorità fasciste. In realtà, neanche ne è pienamente consapevole. Al confino non si era inviati solo perché riconosciuti antifascisti, ma anche per vari motivi, che potevano essere i più banali: imprecare davanti a un capetto fascista, mandare a quel paese un gerarca, parlare male del Duce in osteria e così via… Ludovico scopre un mondo nuovo anche sotto questo profilo. La Calabria fu, per la sua perifericità, la terra ideale per il confino di migliaia di italiani, più o meno noti – uno tra tutti Cesare Pavese – e la sola valle del Savuto ne accolse a centinaia. Grimaldi non faceva eccezione e come gli altri paesi intorno aveva anche piccoli gruppi di ostinati antifascisti. Proprio a contatto con loro e con Ester Ludovico matura la sua totale repulsione al fascismo».
Il suo progressivo inserimento nella realtà quotidiana del paese gli fa anche scoprire il perbenismo borghese delle vecchie classi dominanti, prone al fascismo pur di conservare, esse stesse, il potere. E la delusione illividita dei miliziani fascisti che dell’ambizione politica degli esordi conservano solo il mito e la pratica della sopraffazione violenta, spesso per biechi motivi di interesse personale.
«Ludovico è un uomo molto curioso, amante delle buone letture e della vita. Ha sete di sapere e, pur in condizioni disagiate e di sofferenza, si informa su tutto. Arriva in Calabria con una sorta di baedeker in mano, una guida – certo non turistica – alla regione scritta da un misconosciuto (per lui) Corrado Alvaro, legge tanto e osserva molto parlando con le persone, soprattutto le più umili. Dai grimaldesi apprende che i vecchi padroni hanno legato coi nuovi per lasciare immutate le cose. Questo fa rabbia ai fascisti della prima ora, quelli che avevano creduto veramente nella rivoluzione mussoliniana, ma anche i più giovani tra di loro restano amareggiati e delusi, e per questo più pericolosi».
Ludovico vive quindi il suo confino tra lo stupore per questo mondo lontano e nuovo ed il dolore e l’assenza degli affetti più cari, soffre profondamente la mancanza del piccolo Teo, il figlio nato dal matrimonio con Erminia morta prematuramente di tetano. E come in un flashback emozionale ripercorre, nei lunghi pomeriggi vuoti, ricordi ingialliti dal tempo. Mi piacerebbe se ce ne ricordassi qualcuno.
«Il romanzo è costruito con un montaggio complesso, un andirivieni nel tempo, tra flashback e flashforward, funzionale a ripercorrere attraverso Ludovico, da una parte, e Ester, dall’altra, le vicende dell’Italia dagli inizi del ‘900 fino alla vigilia della seconda guerra mondiale. Veniamo così a sapere del passato dei due protagonisti. In particolare, riguardo a Ludovico, uomo di profonda moralità, è importante la vicenda d’amore con Erminia, coronata dal matrimonio e dalla nascita di Teo. Questa felicità immensa gli opacizza, è vero, la ragione, ma non gli impedisce totalmente di vedere quanta retorica e violenza lastricano la strada dello “stato etico”. Solo la morte della moglie con il dolore immenso che ne segue gli apre definitivamente gli occhi sul fascismo».
E scopre Ester, la prima persona che incontra a Grimaldi e presso cui va ad abitare. Per guadagnare qualcosa, Ester affitta stanze della antica casa di famiglia, nella Judeca oltre il fiume, passato l’arco, dove vive con la nonna Rachele ed il famiglio Antonio. La sua famiglia vive lì da secoli…
«Come molti paesi calabresi anche Grimaldi aveva un quartiere ebraico, la cui memoria persiste fra i più anziani. Alcuni stemmi ed epigrafi, che riproducono stilizzate la Menorah, il candelabro a sette bracci, sono lì a rammentarlo. Lo attestano anche i ricordi delle famiglie che si tramandano la loro origine ebraica, così come i loro nomi e cognomi. Parliamo, in realtà, degli eredi dei marrani, i finti convertiti al cristianesimo che continuarono segretamente per secoli a praticare la fede degli avi, dopo che gli spagnoli li costrinsero nel ‘500 alla fuga o alla conversione forzata. Rachele Aiello è depositaria di questa lunghissima tradizione e la trasmette alla nipote Ester. Lei è forse il primo vero incontro con l’alterità assoluta in cui Ludovico si imbatte. Ester lo guida nella scoperta di un mondo nascosto e di tradizioni e rituali ormai limitati esclusivamente al ristretto ambito familiare di cui lei è l’ultima erede».

Così Ludovico scopre l’accensione rituale delle candele al tramonto del venerdì per introdurre lo Shabbat, il pane intrecciato avvolto nel canovaccio, le benedizioni sul pane e sul vino, l’attesa delle prime tre stelle alla sera del sabato…
«Vero. Un mondo nuovo e affascinante si spalanca davanti al trentino che, curioso com’è, non si sottrae a questa esperienza straordinaria. Sicuramente la forte personalità di Ester, la sua risolutezza, e il suo fascino hanno avuto un forte impatto emotivo sul più anziano Ludovico, tanto da spingerlo verso una maturità piena e più consapevole».
La nonna Rachele le ha fatto da madre dopo la morte di Giuditta per influenza spagnola. Ostinata antifascista, Rachele muore improvvisamente e misteriosamente. Ester ora è completamente sola. Ed unica depositaria della saggezza antica delle sue antenate. La gente dice che Ester è una “magara” (ma come, le “strie” anche qui, come nelle mie Giudicarie, pensa Ludovico) che conosce i segreti delle erbe e della guarigione. Per generazioni le donne della sua famiglia se li sono trasmessi, fin da quando fu scritto il Libro che la nonna Rachele ha sempre tenuto nascosto nella cassapanca in cantina.
«La tradizione delle streghe guaritrici è antichissima e attraversa secoli e terre di ogni dove. Strie trentine e magare calabresi sono donne in sospetto delle Chiese, ma in realtà praticavano antichi riti pagani che miravano alla guarigione dei malati attraverso decotti, pozioni, infusi, unguenti e quant’altro forniva la natura. Rachele e Ester vi aggiungono la tradizione della magia di ambito ebraico, di cui il Liber Razielis non è che uno degli innumerevoli aspetti. Mille erano le voci incontrollate su Rachele. La più incredibile di esse sosteneva che avesse la capacità di levitare dal suolo: in molti giuravano di averla vista sollevarsi in cielo nelle notti di luna piena. I malevoli dicevano che nonna e nipote, da vere magare, usavano formule magiche per piegare le persone al loro volere. In un contesto di pregiudizi e miseria culturale alle due donne non restava che l’(auto)isolamento».
Inevitabile allora l’amore tra queste due personalità. A cui tu dai profondità storica e spessore emozionale utilizzando flashback narrativi per condurre il lettore a comprendere le ragioni di quell’amore accarezzato fra le righe come un sogno, delicato e resistente nella violenza di quei giorni, di quell’Italia. Violenze che troveranno un colpo di scena finale che evidentemente non possiamo svelare per non togliere ai lettori il gusto del suspense.
«Appunto lasciamo al lettore il gusto di “scoprire l’assassino”. Bando agli scherzi, ma non troppo. Anche se ci sono degli efferati omicidi il mio non vuole essere né un giallo né un thriller, quanto un romanzo mainstream, ambientato in un difficile periodo della nostra storia, che racconta l’Italia attraverso un uomo e una ragazza che scoprono di apprezzarsi e, poi, amarsi poco alla volta e con delicatezza. Proprio per questo motivo ho raccontato le vicende per sottrazione, facendo largo uso di ellissi e “dissolvenze”. Volevo che fosse il lettore a riempire i presunti buchi nella narrazione. Ci sono riuscito? Spero di sì».
Certo che ci sei riuscito. Costruendo un’ampia trama narrativa con una tecnica di scrittura particolare: capitoli brevi, attenzione scrupolosa ai dettagli, linguaggio evocativo. Come se tu abbia voluto, per il tramite di parole, portare il lettore in quel mondo che hai pensato per immagini e sequenze quasi cinematografiche.
«La mia esperienza si esauriva prima di “Ester e il sovversivo” in trent’anni di scrittura critica per giornali e riviste, poi – come ricordavi tu – ho provato la narrazione antropologica (Un demone in bicicletta) e la divulgazione storica (Roma sul Savuto). Quando mi sono capitate tra le mani due storie vere, una trentina e l’altra calabrese, non potevo fare altro che – come consigliava John Berger – raccoglierle e metterle insieme. Ovviamente mi sono sentito pronto solo dopo un anno di studio e tenendo a mente i consigli di Giorgio Bassani, che ricordava che scrivere un romanzo è prima di tutto costruire la struttura. Certo non basta, ma è fondamentale, poi conta la qualità dello scrivere. Per farlo ho utilizzato un lessico ampio, un narratore esterno a focalizzazione interna (ai singoli personaggi), una sintassi ipotattica ma dalla lettura scorrevole, e ho arricchito il tutto con dialoghi e lettere. Sono convinto che “Ester e il sovversivo” piacerà perché ci sono altre appassionanti (piccole) storie attorno alla principale. Esse raccontano di uomini, donne e ragazzi che provano a resistere al dolore inferto dai potenti del mondo. Le microstorie contro la macrostoria».
“Ester e il sovversivo” è, quindi, un romanzo corale che disegna un affresco dall’inizio del secolo fino al 1945. Con una ultima sequenza in cui il verosimile diventa storia, quando narri dell’eroe partigiano Basilio Bianchi, partito coscritto da Grimaldi, in Calabria e ucciso dai nazisti in una valle del Piemonte. Nelle tue pagine troviamo il dolore della guerra; il dramma dei trentini (italiani o welschtiroler?) guardati con sospetto prima dagli austriaci poi dagli italiani; la nascita del fascismo squadrista e le prime forme di resistenza clandestina; la fatica della vita nelle valli di montagna, siano esse le Giudicarie in Trentino, il Savuto in Calabria. Quanto c’è di te e del “vivere per addizione” le tue due origini?
«Per parlare di Basilio, ragazzo grimaldese di soli diciannove anni, torturato e fucilato dai nazisti a Biella nel dicembre del ’43, perché proteggeva la ritirata dei suoi compagni, ci vorrebbe una intervista a parte. Riguardo alla tua domanda vera e propria, provo a rispondere con quanto scrivevo in “Un demone in bicicletta”: Fin da bambino ho ascoltato racconti di laghi e montagne davanti al tabiel fumante di polenta, condita con pocio di carni, preparata dalla nonna, oppure storie di briganti e tesori ammucciati, mentre mia madre affettava supressate per gli ospiti che stavano arrivando. Ricordo ancora quando nelle giornate d’inverno trascorrevo lunghi pomeriggi tra casa dei nonni, dove ascoltavo in lingua trentina saghe familiari del freddo Nord, mangiando canederli e strudel di mele, e casa materna, dove le comari si raccoglievano attorno al focolare a raccontarsi nel calabrese più aspro le vicende paesane, assaggiando rusedde e turdiddi».
Vorrei chiudere questa conversazione dando voce a Giuditta, la mamma di Ester morta di spagnola. “La vita è magnifica e spaventosa insieme, può finire in ogni istante perché tutto è stato vissuto e allora contano solo i ricordi”. Ecco, in queste parole che Giuditta lascia, in punto di morte, alla figlia Ester sembra poter riassumersi il senso dell’intera narrazione. Grazie, Pierluigi, per questo bel libro e per il tempo che mi hai dedicato.
«Grazie a te e soprattutto a chi, magari incuriosito da questa nostra conversazione, vorrà leggere questo mio esordio in narrativa».
Michele Andronico
Immagine di copertina Grimaldi-Courtesy of Rosario Pedretti
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