Esce in questi giorni il libro Da Leopardi ad Artaud. Una costellazione di letteratura assoluta, nei cui sedici capitoli Rolando Damiani interpreta particolari aspetti e opere di poeti e scrittori per i quali l’attività letteraria fu l’esperienza più alta di assolutezza, nel senso della conoscenza e della ricerca di verità sugli uomini e sul mondo. Pur diversi e distanti si può paragonarli nella visuale dell’osservatore a una costellazione di “stelle”, che hanno i nomi di Baudelaire e Tolstoj, di Irène Némirovsky e Simone Weil, o quelli italiani come d’Annunzio e Comisso, Parise o Ceronetti o Calasso. Sono preceduti nel titolo dai nomi di Leopardi e Artaud, scelti come punti d’orientamento nello spazio, specialmente noti all’autore per i lunghi studi svolti su di essi, e anche in questo libro testimoniati.
Per gentile concessione dell’editore Longo pubblichiamo due paragrafi del capitolo IX dedicato a Emil M. Cioran, scrittore e filosofo d’origine romena emigrato sin dal 1937 a Parigi e dieci anni dopo esule pure nella lingua francese. Per l’ambientazione e la precisa memoria che conservano, si è dato ai due paragrafi un titolo specifico.
Cioran a Venezia
Ho conosciuto Emil M. Cioran in un suo soggiorno a Venezia dell’ottobre 1982, durante il quale l’accompagnai in passeggiate, cenando una sera in trattoria con lui e Simone Boué, che mi parve una sua compagna perfetta, invulnerabile dall’amicizia o historiette un anno prima sorta tra lui e la giovane e bella studiosa tedesca Friedgard Thoma – che nel libro Per nulla al mondo, edito in Italia nel 2010 da l’Orecchio di Van Gogh, parlò invece apertamente sin dal sottotitolo di «Eine Liebe» – , di cui seppi solo in seguito.
La mattina dopo si recò all’isola di San Michele per giungere tra le tombe a quelle di Pound e di Strawinsky. Al pomeriggio dello stesso giorno sulla Riva degli Schiavoni, nelle cui vicinanze c’era il suo piccolo albergo, mi chiese tra la folla poco dopo l’Hotel Danieli la direzione verso un possibile “quartier prolé”, e l’accontentai suggerendo una calle che poteva condurre al sestiere di Castello e per altre calli ai Giardini della Biennale e alla pineta di Sant’Elena. Nel percorso si transitò davanti alla porta d’entrata all’Arsenale, Cioran si fermò a guardare il Leone del Pireo preso sul finire del Seicento da Francesco Morosini come bottino di guerra. Superato poi il ponte di legno sul rio dell’Arsenale, si giunse nel “quartier prolé” di via Garibaldi. Agli opposti sbocchi di quel popoloso e lungo rio terà si va da una parte alla maestosa Basilica di San Pietro di Castello (fino al 1807 cattedrale del Patriarcato, essendo nei precedenti secoli titolare di San Marco il Doge, che delegava le funzioni liturgiche a un vescovo di sua esclusiva nomina: il ricordo storico incuriosì Cioran) e dall’altra si sbuca davanti al Bacino di San Marco con la vista ravvicinata, malgrado la lontananza, dell’isola di San Giorgio, della Salute e di un profilo del Palazzo Ducale. Mi parve perciò scherzosamente ambiguo che nel mezzo di quel “quartier prolé” Cioran mi dicesse che lì avrebbe potuto abitare, aggiungendo forse per la mia espressione perplessa: «Io sono assolutamente un rivoluzionario».
A Sant’Elena si infilò in un modesto bar dotato di telefono pubblico, con una simpatica aria che mi sembrò stranamente furtiva, per fare una interurbana. Dalla porta aperta sulla strada che costeggiava i prati alberati lo vedevo impegnato, a tratti con un lieve sorriso, nella conversazione durata alcuni minuti. Credo che la scelta di quella camminata un po’ lunga gli sia piaciuta, del resto aveva già confidato a Mircea Eliade in una lettera del settembre 1971 dalla località spagnola di Valcarlos (ora leggibile nel loro carteggio edito da Adelphi nel 2019): «la vita è sopportabile solo a Venezia – oppure in un qualsiasi luogo della Spagna».
Al ritorno nella celebre mansarda di rue de l’Odéon 21 mi scrisse, prendendo lo spunto da un mio articolo uscito sul quotidiano di Venezia e del Nord-est «Il Gazzettino», in cui raccontavo delle sue giornate in città e di qualche luogo visitato, come la chiesa di San Salvador nei pressi del ponte di Rialto nella quale aveva sostato a fissare la pala d’altare con l’Annunciazione di Tiziano. Gli risposi e da allora cominciò uno scambio epistolare non fitto ma durato alcuni anni, inframezzato dal dono di suoi libri. Nella dedica per la copia di Des larmes et des saints mi disse, sapendomi veneziano di “vieille souce”: «J’ai la nostalgie de Venise»; in quella di Aveux et Anathèmes fu allarmante: «Je n’ai plus envie d’écrire. Ce petit livre met un terme à une activité de toute façon inutile. Bien amicalement». Solo nel 2019 lessi nel carteggio con Eliade pubblicato da Adelphi alcune righe di una lettera del dicembre 1982 sul suo viaggio in Italia e a Venezia: «A voler credere a un ottuagenario che vedo ogni tanto, gli anni migliori cominciano tardi. […] Per quanto mi riguarda questa teoria sarebbe vera se tutte le mie giornate assomigliassero a quelle d’ottobre trascorse in Italia, dove non tornavo da vent’anni».
Cioran appartiene alla cerchia degli scrittori di cui si vorrebbe conoscere ogni riga lasciata. Trascrivo qui le prime frasi della sua lettera inviatami in quell’occasione, che ha acutezze della prosa cioraniana:
Paris, le 5 nov. 1982
Cher monsieur et ami,
si j’étais moins vieux, je me servirais de votre article pour demander la nationalité vénitienne. Rêve d’apatride…
Depuis que j’ai quitté le paradis idéalement fragile que vous habitez, tout me semble laid, prosaïque, utile, “durable”, même l’automne.
C’est comme si tout ce que j’ai jamais pensé n’était au fond qu’un commentaire sur Venise.
Merci d’avoir évoqué si amicalement nos promenades et nos entretiens. Nous les continuerons, j’espère, un jour ensamble.
Poco dopo la metà del secolo scorso Albert Caraco (autore di due scarne summe di totale disincanto quali Post mortem e Breviario del caos) scrisse in una sua dedica a Cioran: «Nous sommes les plus grands inconnus du siècle». Con pronta ironia Cioran rispondeva di essere comunque meno sconosciuto di lui, e tuttavia l’affermazione di Caraco, cercatore aureo dello sconcerto sia nella vita che in letteratura, conteneva allora una verità che soltanto da poco ha trovato una fortunata smentita. Per Cioran è addirittura giunta l’ora del vasto pubblico, delle edizioni in varie lingue. Sull’onda di un’occasione editoriale, la pubblicazione di Storia e Utopia, si è spinto in Italia, approdando a Venezia «città in cui un viaggio deve concludersi, mai iniziare», nelle sue parole subito all’arrivo.
L’intelligenza spietata che splende nei suoi aforismi, il disinganno degno di Qohélet che informa la sua prosa, s’incarnano all’opposto in un uomo amabile, il cui solo sguardo, più che vivo e ironico, sembra lanciare il messaggio della sua anima tumultuosa. Passeggia per Venezia «con l’aria meno turistica possibile», parlando di sé o delle sue vecchie conoscenze parigine: Paul Celan, che tradusse in tedesco il suo rabbioso e lirico Precis de décomposition del 1949 (e fu un fiasco completo perché la Germania – dice Cioran con sarcasmo – «voleva solo letture amene dopo una tale vittoria»), e poi Henry Corbin “normanno” fino al midollo, anche nella cautela riguardo al denaro, cui suggerì il titolo della raccolta in più tomi di En Islam iranien, e poi Mircea Eliade, Samuel Beckett, Raymond Queneau, Susan Sontag, Marguerite Yourcernar… A proposito di Ernst Jünger racconta divertito l’imbarazzo della moglie, curiosa di sapere durante un ricevimento in che modo vivesse, e gelata dalla risposta di Cioran: «Ho sempre vissuto come un maquereau». Trascinato da una vecchia osteria “Il Milion” a un tavolino del “Florian”, confessa in amicizia di detestare la società, specialmente quella buona: quando ancora faceva l’insegnante in Romania, aveva finito per interessarsi soltanto a Shakespeare e non voleva trattare con nessun altro; una volta un collega in trattoria si sedette non invitato al suo tavolo e Cioran gli chiese seccamente se fosse Shakespeare, l’altro rispose di no e gli fu richiesto di cambiare posto.
Negli anni Quaranta, dopo l’arrivo a Parigi, «il punto più lontano dal paradiso ma l’unico dove sia bello disperare» («cauchemar modèle», la chiama anche in una lettera), Cioran si chiuse in quella misericordiosa misantropia di cui ha parlato il suo amico Ceronetti a proposito di Squartamento, edito in Italia nel 1981. In un aforisma, della solita nera nitidezza, Cioran scrive che «soltanto un mostro può permettersi di vedere le cose come stanno». Per alleggerire il peso insopportabile del tristo vero sogna un mondo «dove si morirebbe per una virgola». In un punto dei Sillogismi dell’amarezza, egli riconosce di non aver trovato nell’edificio del pensiero nessuna categoria sulla quale riposare la sua fronte, ma in compenso – in bilico nel vuoto – «quale cuscino può apparire il caos».
Nella chiesa di San Salvador questo mistico ulceroso resta in silenzio davanti a un Tiziano; impossibile sapere cosa pensi: la torre d’avorio d’ogni uomo – ha scritto una volta – non è la gioia della contemplazione ma la paura nella quale egli si confina. Dopo la sosta a San Michele davanti alla tomba di Ezra Pound un bizzarro sconosciuto lo ha guidato a quella di Baron Corvo; conserva nel portafogli la pianta dell’isola dei morti e la dispiega quasi con soddisfazione. Passeggiando di sera, sotto le finestre dell’antico Panada dove soggiornò Nietzsche, Cioran parla rabbuiato di un litigio a Parigi con un’astiosa commessa del Magasin Mille Chemises: voleva una camicia qualsiasi e lei continuava a mostrargliene innumerevoli.
«Lancinato funambolo dell’Intollerabile» è stato definito, e «un antidoto contro le stregonerie, e le intossicazioni del secolo». Di questo balsamo amico resta una traccia nei polmoni dopo una conversazione con Cioran o un’escursione nella sua prosa. Il finale aneddoto privato, in puro stile dell’assurdo, con cui quella sera si è congedato, ha attraversato l’atmosfera veneziana con il flash della sua intransigenza, disposta talora a transigere su tutto e a farsi gioco di ogni strategia nella vita. L’aveva peraltro già detto, con uno dei suoi geniali bons mots, in un aforisma perfetto: «Le secret de mon adaptation à la vie? – J’ai changé de desespoir comme de chemise».
Rolando Damiani
Da Leopardi ad Artaud
Una costellazione di letteratura assoluta
(Longo Editore Ravenna, € 20,00)
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Rolando Damiani ha insegnato dal 1975 all’università di Padova e poi di Venezia, dove è ora Senior Researcher. Ha curato nella collana dei Meridiani l’opera di Leopardi e pubblicato pure per Mondadori la biografia All’apparir del vero (tradotta all’estero) e un Album Leopardi. Nei Meridiani sono anche uscite a sua cura le Opere di Comisso e di Arpino. Ha tradotto per Bompiani e per Adelphi, curando in particolare per la prima Lo spirito di perfezione di Georges Roditi e per la collana della Biblioteca Adelphi gli Scritti di Rodez di Antonin Artaud, stampati nel 2017. Ha svolto per molti anni un’intensa attività pubblicistica, con articoli e ampie interviste a personalità anche di spicco della cultura internazionale, come ad esempio Jacques Derrida, John Cage, Karlheinz Stockhausen, o Mario Luzi o Harold Bloom o Adonis. Vari suoi studi di critica letteraria sono raccolti in sei volumi, editi dal 1987 al presente.
È socio ordinario dell’Accademia Olimpica fondata nel 1555 da Palladio ed altri.
Ringraziamenti
La rivista Finnegans ringrazia L’intellettuale dissidente (lintellettualedissidente.it) per l’immagine di copertina. E per le altre foto:
La Gazzetta filosofica (gazzettafilosofica.net)
Sovrapposizioni (sovrapposizioni.com)
Doppiozero (doppiozero.com)
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