RIVISTA DI CULTURA MEDITERRANEA

Donna, Vita, Libertà

[Tempo di Lettura: 6 minuti]

di Reza Rashidy

È trascorso ormai quasi un anno dalla morte di Mahsa (Jina) Amini (16 settembre 2022), la ragazza ventiduenne assassinata a causa delle violente percosse subite dalla famigerata polizia morale. Una tragedia che ha scosso l’intero Paese e che ha fatto esplodere una rabbia stratificata e assopita da 43 anni di terrore e violenze inflitte dal regime teocratico dando avvio ad una rivoluzione culturale, sociale e politica, sintetizzata nello slogan “donna-vita-libertà”.

La protesta ha visto inizialmente la partecipazione delle donne e dei giovani, a cui si sono poi uniti gli uomini; ma in pochi giorni essa si è estesa a tutti gli strati della popolazione superando qualsiasi divisione di censo, etnia e religione. Alla protesta ha fatto seguito una spietata repressione, che solo nei quattro mesi dall’inizio della rivoluzione presenta un terrificante bilancio: più di 600 persone uccise, tra loro più di 70 minorenni, più di 30 mila arresti, 5 le sentenze di morte già eseguite e oltre 120 le condanne a morte a seguito di sentenze emesse dai cosiddetti tribunali islamici a conclusione di processi farsa.

Alla vigilia dell’anniversario della rivoluzione, temendo il riesplodere della protesta, il regime sta moltiplicando la campagna intimidatoria contro famiglie e amici delle vittime e delle detenute. La conferma viene dall’ultimo rapporto di Amnesty International pubblicato il 21 agosto 2023: più di tremila universitari radiati dalle università, centinaia di docenti, registi, attrici e avvocati sono stati convocati dai tribunali e arrestati. Il regime è così convinto di prevenire e azzerare ogni protesta in occasione di questo anniversario.

Alcuni condannati a morte

Donna, vita, libertà: la prima rivoluzione dell’era moderna

Donna, vita, libertà” è una rivoluzione senza precedenti nella storia umana: pone al suo centro la donna e la dignità umana, rivendica la restituzione delle gioventù bruciate, delle vite non vissute, delle gioie represse e rivendica una vita normale e dignitosa. Il popolo sente che la realizzazione di una vita normale e umana è stata sistematicamente stuprata dal potere teocratico, un potere alieno, insensibile alle sue aspirazioni e sofferenze.
Il rapporto tra donna e vita è chiaro a tutti, ma in questa rivoluzione rivendicare la vita assume un significato profondo e una valenza potente. Ormai il mostro è uscito dalla bottiglia e nessuno può farlo rientrare.

La rivoluzione iraniana scoppiata con la barbara uccisione di Mahsa per mano della polizia morale, rea di aver portato male il hijab islamico, ha dato avvio ad una profonda destrutturazione dei valori tradizionali e culturali della società. Il movimento “Donna, Vita, Libertà” è un super movimento in divenire che colpisce i valori del maschilismo e del paternalismo insiti nel sistema teocratico e allo stesso tempo alimenta i valori del femminismo, del laicismo e dell’antidiscriminazione in seno della società.

Lo sconvolgimento subito da tutte le iraniane/i a seguito della morte di Mahsa e la successiva uccisione di centinaia di donne, giovani e adolescenti che protestavano per questo insensato assassinio, ha innescato inoltre negli uomini un processo di identificazione con le vittime: esse avrebbero potute essere la loro madre, moglie, figlia o sorella; al contempo ha fatto riemergere nella memoria tutto ciò che era stato rimosso: l’ingiustizia, le torture e le violenze subite durante i 44 anni della Repubblica islamica, portando alla consapevolezza che la via della giustizia e della libertà passa inesorabilmente attraverso il riscatto delle donne.

La rivoluzione ‘donna, vita, libertà’ è riuscita in breve tempo a trasformare un discorso teorico in uno straordinario slogan unificante e in una rivendicazione condivisa da tutti, indipendentemente dal genere, dal censo, dall’etnia, dal credo politico o religioso.

‘Donna, vita, libertà’, manifestazione di solidarietà con le donne iraniane (Wikimedia Commons)

Le radici della rivoluzione

La rivoluzione non nasce dal nulla, ma affonda le sue radici nella crescita del livello di istruzione, nella consapevolezza di genere, nei processi di globalizzazione e nella dura resistenza delle donne alla misoginia del regime islamico durante i 44 anni del potere teocratico.

Sin dalla nascita la Repubblica islamica ha scelto l’obbligo di Hejab come logo e simbolo distintivo del potere, oltre che principale strumento di controllo del corpo delle donne e di ogni dettaglio della vita privata dei cittadini; l’Ayatollah Khomeini, a 3 settimane dall’insediamento nel febbraio 1979, ha abolito la giornata internazionale delle donne ordinando di schiacciare nel sangue la grandiosa e storica manifestazione dell’8 marzo. Ma le donne non si sono rassegnate e perseverano a sfidare il regime approfittando di ogni possibile occasione per promuovere numerose campagne di protesta.

Lottando quotidianamente, le donne hanno subito inaudite e sistematiche violenze da parte della polizia morale. Non c’è famiglia nella quale, almeno una volta, una sua componente non sia incappata nell’infernale maglia della repressione, subendo indicibili e umilianti sevizie fisiche e psicologiche, vessazioni, arresti, frustate e multe per non aver rispettato appieno le regole della morale islamica.

Secondo fonti governative nei primi otto mesi del 2016 sono state fermate e diffidate oltre un milione e trecentomila donne per trasgressioni alle regole islamiche. L’anno seguente, secondo la stessa fonte, “nel giro di 3 giorni erano state arrestate più di 150 mila donne”.

Tutti gli iraniani si sentono oppressi dal regime, ma le donne sentono doppiamente il peso delle discriminazioni e ancor più le minoranze etniche e religiose. Ma l’avversione delle donne non è rivolta solo contro il regime ma anche contro le discriminazioni che sono costrette a subire nella società, in famiglia e nella vita quotidiana.

La rivoluzione ‘donna vita libertà’ rispecchia esattamente i brutali incubi stratificatisi in 44 anni. La struttura della discriminazione di genere alimentava nella mentalità dei maschi l’idea che il rispetto dei diritti delle donne potesse precludere loro il facile accesso al mercato del lavoro e agli spazi sociali, così da inficiare la superiorità e il controllo dei maschi sminuendone la mascolinità. In un paese storicamente maschilista questo assunto può trasformare di fatto gli uomini in alleati inconsapevoli dell’ideologia retrograda del regime teocratico.

Donne iraniane protestano contro l’obbligo dell’hijab, 8 marzo 1979

Femminismo Occidentale e “donna, vita, libertà”

Le donne occidentali, per lo più appartenenti alle classi medie, sono riconosciute come pioniere del femminismo, le donne del sud del mondo, invece, sono considerate sorelle minori e vittime passive. Paradossalmente anche in Iran, in virtù di una visione centripeta, si credeva che le donne istruite, appartenenti alla classe media della grande città, si sollevassero per prime contro le discriminazioni di genere, per coinvolgere poi le donne culturalmente arretrate  delle regioni periferiche. È successo invece esattamente il contrario: sono state le donne Curde e Baluchi di due regioni depresse e povere della periferia a sollevarsi per prime. Lo slogan ‘donna, vita, libertà’ è stato scandito per la prima volta a pochi minuti dall’uccisione di Mahsa proprio nella sua terra natale, il Curdestan, seguito poi dalle donne e dagli uomini della città di Zahedan (capoluogo della “dannata” Regione del Sistan e Beluchestan) e solo dopo la protesta è divampata in tutte le altre città grandi e piccole dell’Iran.

L’ininterrotta lotta e l’eroico coraggio delle donne, senza puntare alla dicotomia tra uomo e donna, è riuscita in poco tempo ad incorporare al proprio fianco gli uomini sfidando pregiudizi eurocentrici e centripeti.

Disobbedienza civile: la rivoluzione continua

Con il silenzio dei media internazionali, negli ultimi mesi e malgrado l’accentuarsi della repressione infinita da parte dello stato islamico, la determinazione delle donne a liberarsi dal giogo della tirannia non é stata scalfita: la formidabile trasformazione della lotta, dopo mesi di protesta di piazza, è diventata un possente movimento di disobbedienza civile. Infatti, sono mesi che le donne si presentano in massa negli spazi pubblici senza hejab sfidando apertamente le leggi arbitrarie dello stato islamico. La macchina repressiva, di fronte alla compattezza e al coraggio delle donne, volendo evitare il rischio di un corpo a corpo, ha attivato centinaia di migliaia di “telecamere intelligenti” nei luoghi pubblici minacciando vendette esemplari per i trasgressori della morale pubblica attraverso riconoscimenti facciali. Ha istituito leggi draconiane in materia di “morale” pubblica che prevedono per i trasgressori una serie di pene che vanno dall’azzeramento dei diritti civili, al taglio delle utenze telefoniche e dell’accesso a internet, al sequestro dei passaporti e dell’automobile fino a esorbitanti multe.

Nelle ultime settimane sono stati inviati milioni di avvisi agli utenti e si é provveduto alla chiusura forzata di migliaia di esercizi pubblici e di numerosi grossi centri commerciali che hanno “tollerato” l’accesso di donne senza hejab.

La crescente sfida delle donne ha inferto, comunque, un ulteriore colpo all’autorità del regime e gettato il regime stesso in uno stato di profondo smarrimento e confusione.

Proteste di solidarietà per Mahsa Amini, ph Sima Ghaffarzadeh (Pexels)

L’impossibile è diventato possibile

Anche se il regime totalitario potesse sopravvivere ancora per un breve periodo grazie al proprio apparato repressivo e al soccorso dei suoi alleati stranieri, il movimento ‘donna, vita libertà’ ha già ottenuto grandi e irreversibili successi.

L’impossibile è avvenuto: basta uno sguardo alle strade e piazze delle principali città dove milioni di donne senza hejab, ignorando i minacciosi proclami delle autorità, attuano la loro sfida quotidiana sotto gli occhi sconcertati degli agenti impossibilitati ad arrestare e imprigionare milioni di donne. Il mutamento più straordinario è però l’atteggiamento degli uomini che guardano ora a queste donne con uno sguardo di ammirazione, incoraggiamento e solidarietà.

Immagine di copertina
Manifestazione a favore di Mahsa (Jina) Amini (Wikimedia Commons)

(Traduzione in inglese di David Benedetti)

  • Reza Rashidy

    (Tehran, Iran, il 31 agosto 1950), scrittore e attivista dei diritti umani. Dopo aver conseguito il diploma di liceo scientifico si è trasferito in Italia nel 1968. Nel 1976 ha conseguito la laurea in Architettura presso l’IUAV di Venezia. Nel 1979, dopo la rivoluzione islamica si è trasferito in Iran.Nel 1980 ha lavorato come giornalista presso l’ufficio ANSA di Teheran. Dal 1981 al 1985 ha lavorato come interprete, mediatore e organizzatore dei programmi culturali presso l’Istituto Italiano di Cultura dell’Ambasciata italiana a Teheran. Ha tradotto dall’italiano in farsi vari saggi, articoli e libri. Dal 1985 si è stabilito definitivamente in Italia dove, tra l’altro, collabora con il progetto Con-Tatto, Città solidale-Comune di Venezia, per la realizzazione dei percorsi formativi nelle scuole superiori di Venezia. In Italia ha pubblicato: Mi racconto, Ti racconto… Storie e ricette del nostro mondo, a cura di Reza Rashidy, con prefazione di Massimo Montanari. Editrice Coopconsumatori, Bologna, pagine 319, anno 2007. Il mondo è servito – La cucina e le ricette degli immigrati in Italia, Edizioni C.I.D, Venezia, pagine 95, anno 2008.