RIVISTA DI CULTURA MEDITERRANEA

CONTROVENTO – Voci, volti e racconti da un centro d’accoglienza

[Tempo di Lettura: 3 minuti]

Io Moussa, 22 anni, uoma
di Diego Lorenzi

Ho avuto l’opportunità (e il privilegio) di assistere ad un corso di lingua italiana presso il centro di accoglienza “Hilal” di Treviso, una di quelle benedette o maledette strutture (a seconda) che accolgono i profughi, in questo caso i richiedenti asilo. È stata un’esperienza formativa, un tuffo rigeneratore dopo un’alienante quotidianità che si alimenta e si riproduce quasi meccanicamente, una manifestazione quasi epifanica del lento e inesorabile declino del sistema socio-culturale in cui noi tutti, volenti o nolenti, siamo immersi.

Così come l’abbiamo vissuto, amato o odiato, questo immenso groviglio di interessi, valori, ideali, certezze, atti di fede e di devozione, sta lentamente scivolando verso una deriva insidiosa, preludio più o meno prossimo di un probabile incagliamento di una civiltà che naviga a vista.

Ma per fortuna la storia rigenera se stessa, e lentamente ma inesorabilmente, una piccola parte di essa si insinua dentro l’orizzonte crepuscolare e piatto accendendo i mille volti di mille giovani speranze, in una rigenerazione che immette nuova linfa e nuova vita nel corpo esausto di un Occidente sfibrato da secoli di rappresentazioni, più o meno condivise, sul consunto palcoscenico internazionale.

Ed ecco, allora, che nel buio di una notte mediterranea, il volto di Moussa si staglia all’orizzonte di un porto italiano, annaspando tra gli incagli di una burocrazia che si nutre ormai solo di se stessa e dopo alcune peripezie giunge finalmente al centro d’accoglienza trevigiano, dove potrà ricostruirsi un’identità, una vita e forse un giorno avrà una storia da raccontare.

Ho fissato per molto tempo il volto di Moussa – maglietta verde con scritte in bianco di un noto marchio trevigiano – mentre l’insegnante cercava di attirare la sua attenzione su una figurina che rappresentava una donna, chiedendogli qual era il termine in italiano: “uoma” ha risposto Moussa, mentre i suoi occhi brillavano. E anche quando alcuni suoi compagni lo correggevano, il suo viso tratteneva a stento l’emozione di un coinvolgimento sincero, di una condivisione che cercava in tutti i modi un ancoraggio solido e sicuro prima di gettarsi all’inseguimento di un sogno: un riscatto dalla sofferenza e dalla miseria di una vita grama attraverso un piccolo, quasi banale apprendimento.

La sua è stata una raffigurazione struggente dei nuovi volti di un’immigrazione in rotta di collisione con i vecchi viaggi della disperazione – immortalati dalle immagini dei barconi stracolmi provenienti dall’Albania –.

Moussa e questi ragazzi dagli occhi tristi e dallo sguardo luminoso e perduto, ci raccontano invece una ben diversa odissea, un nuovo tragitto verso una difficile “integrazione” (parola ormai abusata e consunta che dovrebbe convergere verso una comune e civile “convivenza”).

E mentre il mio sguardo incrociava gli occhi di un altro ragazzo come Moussa, in fuga dalla guerra, pensavo alla crudeltà, all’ostilità e al feroce pregiudizio che cova nell’animo di molti comuni cittadini, vittime a loro volta della paura per un “diverso” che non si conosce e di una crescente frustrazione sociale, per essere stati abbandonati da qualsiasi politica di accoglienza e di “ospitalità” attiva, come fossero profughi a loro volta: vecchi pensionati, disoccupati, giovani senza prospettive che vagano nelle praterie del disagio sociale, che ogni giorno lottano per una improbabile redenzione, per un improbabile riscatto.

Scatto qualche foto-ricordo mentre, divisi in due gruppi, i ragazzi giocano ad indovinare la parola magica che permetterà loro piano piano di accedere ad una lingua che probabilmente un giorno li salverà dall’emarginazione e dall’indifferenza.

Non posso non pensare al viaggio di Moussa e compagni in cerca della terra promessa, come l’eroe di Virgilio, Enea, che partito da Troia con la famiglia approdò alla foce del nostro fiume Tevere, come un profugo dell’antichità.

Come non posso non pensare, congedandomi da loro, alla necessità di un dialogo sempre più serrato e costruttivo con quanti cercano di chiudere nel recinto delle loro inospitali coscienze il cavallo imbizzarrito della paura e dell’angoscia, dimenticando che l’apertura, lo scambio e la ricerca del bene comune è l’unica via d’uscita per la società solidale del futuro.

Perché, come ricordava Tolstoj in Resurrezione: “Il bene è in tutti gli uomini, manca solo il coraggio di usarlo”.

Diego Lorenzi

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Nota: le immagini sono tratte da Google, tranne la foto di copertina che ritrae alcuni ospiti del Centro d’accoglienza Hilal di Treviso durante un corso di educazione artistica

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