RIVISTA DI CULTURA MEDITERRANEA

“BARLUMI”, APPUNTI DI VITA VERA. Commento critico e conversazione con Valeria Salvador, di Diego Lorenzi

Conosco l’autrice, una parte del suo mondo – un mondo condiviso mano nella mano con il marito Tobia Scarpa – alcuni dei suoi percorsi umani ed esistenziali battuti da piogge torrenziali alternate a splendide giornate di sole, vissuti con consapevolezza, fermezza d’animo, sensibilità, determinazione, altruismo. E leggerezza. Il tutto disseminato da una impenetrabile e timida grazia, lenta e avvolgente.

Tutto ciò si intuisce – al di là delle molte frequentazioni – scorrendo le pagine di questo schietto e originale racconto autobiografico, scritto in virtù di un imperativo morale e di un’esigenza intima e risoluta di fare i conti con un passato crudele eppur felice e spensierato, su cui volteggia l’ombra tenebrosa e dura di una madre autoritaria, egoista, a tratti violenta, incattivita da una vita troppo chiusa: una rappresentazione in tutto simile a molti personaggi femminili protagonisti di alcuni romanzi e racconti di Alberto Moravia degli anni ’50 e ’60.

Un racconto – in molte parti affine a un intenso monologo interiore – che è un delicato ‘ancoraggio all’essere’, a un’identità familiare, a un’esistenza distribuita tra un’infanzia, un’adolescenza e una giovinezza trascorse sulle colline del coneglianese, immerse in un paesaggio umano e ambientale di grande fascino quanto di ottusa e meschina routine esistenziale, inquinata da squallidi e banali personaggi di provincia, descritti dall’autrice con arroventato impeto morale, quale indennizzo esistenziale per un percorso umano e civile non condiviso.

Pagine, comunque, su cui scorrono alcuni decenni (dal 1949 al 1975) carichi di storia e di ricordi, congiunti – a tratti in modo volutamente saltellante e discontinuo, per un’immediatezza espressiva – da una narrazione fluida e spontanea, scandita da lunghe e sofferte pulsazioni affettive, che si immergono nella dolce e intensa familiarità con il padre, la nonna, la sorella, gli zii, gli amici e tutto il contesto comunitario.

Dunque, barlumi… in lontananza, una rarefazione della memoria, quasi una sorta di lessico famigliare di un tempo vissuto e ritrovato che si espande a tratti in modo dilatato e stringente e che si lascia attraversare da un caleidoscopio multiforme di immagini che si rincorrono, struggenti quanto scintillanti e senza alcuna velatura di rimpianto. Un ritratto del passato vissuto al presente e proiettato verso il futuro, a partire dalla bellissima foto di copertina del libro, che ritrae una bambina di famiglia colta nella sua veste più gioiosa e sfavillante. 

Veduta prealpina autunnale dal castello di Conegliano, foto di Paolo Steffan

Fin qui una breve recensione critica a proposito di Barlumi, un racconto che rispecchia molte affinità elettive con una modalità ed un’autenticità dell’essere che oggigiorno è difficile ritrovare anche solo nelle persone a noi più familiari, ma che caratterizzano l’essenza più intima e preziosa dell’universo interiore dell’autrice.

Di seguito la trascrizione di una chiacchierata avuta con l’autrice nell’oasi ovattata di un piccolo borgo del coneglianese, in una dimora che condivide con il marito Tobia Scarpa.

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DL Ebbene, proseguendo nell’indagine introspettiva, quello che emerge con chiarezza è la capacità del racconto di portare alla luce ricordi, episodi e riflessioni su personaggi e avvenimenti del proprio entourage familiare e sociale con una naturalezza e schiettezza che sembrano il frutto di un lungo lavoro di analisi e di elaborazione psicanalitica, attraverso un’emersione di rievocazioni, emozioni, pensieri e osservazioni davvero singolare.

Sono dell’avviso, comunque, che non si tratti di una ‘liberazione’ dell’inconscio, quanto piuttosto di un’esigenza di andare alle radici di un passato per ritrovare in qualche modo “la via di casa”, una mappatura del sé, attraverso un percorso di scavo e di riflessione emotiva. Che ne pensi?

VS In realtà la mia intenzione era di raccontare ad altri quel mondo difficile, un pezzo di storia minima che aveva ovvie radici nel passato, ma che si lanciava nel futuro senza paracadute.
I personaggi autentici, e strambi per lo più, di cui ognuno conosceva la storia, facevano parte, comunque, dello scenario sociale di quegli anni.
Volevo raccontare le mie strategie di sopravvivenza, e la mia ricerca della felicità che sembrava sempre da un’altra parte.
Ho imparato a cercare l’affetto dove c’è, non dove volevo che fosse.
È vero, cercavo “la via di casa” anche se non era a casa.

Il racconto è stato un momento del mio percorso esistenziale, quello cioè di cercare di fare pace col mondo e soprattutto con l’idea che avevo costruito su me stessa; non una strada a ritroso, ma il percorso verso l’ampliamento del mio essere che ha bisogno di tutto il ‘vissuto’ per capire sempre qualcosa di più.
A dire il vero, la consapevolezza non ha niente a che fare con la consolazione… in ogni caso, insieme al mio valore, ora sto capendo anche i miei limiti, i miei sbagli, le mie incapacità, anche se ho sempre cercato di fare del mio meglio, con caparbietà e determinazione.

Vecchia casa di nonno, 1920 circa. Nonno Giovanni, al centro papà e a destra zio Giuseppe

DL Il racconto si snoda attraverso il periodo dell’infanzia e della giovinezza, caratterizzato dall’esplosione di una vita tutto sommato felice, libera e spensierata, anche se funestata dalla presenza di una madre alquanto dispotica, severa e oppressiva, quasi mai disponibile a stabilire una forte e affettuosa relazione materna con te. Quanto ha influito questa condizione di pesante e continua vessazione nella formazione della tua personalità e nelle relazioni familiari e sociali successive?

VS Per tutto il tempo dell’infanzia e della giovinezza l’ombra del ‘giudizio’ e conseguentemente della ‘condanna’ materna ha pesato sulla mia testa. Lei non mi lasciava mai. Quando vedevo nei suoi occhi la delusione, accompagnata da una profonda tristezza, a causa – secondo lei – del mio modo di essere e di comportarmi, mi sarei nascosta per sempre. A dire il vero, anch’io mi sentivo delusa da me stessa, inadeguata e incapace, ma, a differenza sua, non mi sono mai immedesimata in lei, giacché nella mia sconfitta intravvedevo anche la mia libertà: un atteggiamento esistenziale che ha sempre caratterizzato tutti i miei percorsi difficili e dolorosi nel rapporto con lei.

Comunque, verso di me mamma non ha mai usato atteggiamenti ipocriti o falsi (quantunque nemmeno io), dato che qualsiasi cosa le chiedessi la sua risposta era sempre ‘no’. Inoltre, non ascoltava mai i miei bisogni e desideri, tant’è che smisi di chiedere. Anche se, per questa sua indisponibilità all’ascolto e freddezza mi sentivo sempre frustrata, triste e scontenta, giacché pensavo che le premure e la sensibilità di una madre verso la figlia fossero una cosa del tutto naturale.
Così mi allontanavo da lei più che potevo, non tollerando che, per il semplice fatto di avere dei ‘desideri’, sollecitando una maggiore attenzione nei miei confronti, facesse di me una figlia ingrata e priva di riconoscenza.

DL Ciò nonostante hai più volte manifestato nei suoi confronti un atteggiamento di comprensione e di benevolenza, giustificando i suoi soprusi nei tuoi confronti con i pesanti carichi di lavoro cui era sottoposta, prima in fabbrica dove lavorava come operaia e poi a casa.

VS Partendo dalle mie relazioni sociali, posso dirti che quel lavoro di ricerca continua per farmi capire e apprezzare da lei ha affinato la mia sensibilità nei confronti degli altri, anche di più di quello che avrei desiderato, aiutandomi a capire le situazioni e le aspettative anche in contesti che non mi appartenevano.
Ho poi imparato il silenzio e a occupare uno spazio limitato rispetto a quello degli altri – un modo anche per dimostrare la mia riservatezza –, sempre preferendo, in ogni caso, in tutti i campi delle relazioni la libertà alle più convenienti ‘alleanze’.

Ad ogni modo, per rispondere alla tua domanda, consideravo mamma eroica, perché una distanza abissale la separava dalla mediocrità e perché era una donna dotata di grande forza d’animo ed energia, con le quali riusciva a ‘muovere le montagne’.
E, se fosse stata più scaltra, avrebbe potuto schiacciarmi; invece era troppo orgogliosa per abbassarsi a strategie e comportamenti indiretti e ambigui, lasciandomi così delle ‘vie di fuga’ e la possibilità di sfidarla, invitandola indirettamente ad avere con me un confronto positivo.

Parè, 1960. Mamma tiene in braccio Liliana, io e papà

DL La statura umana e familiare di tua mamma si erge arcigna e totalizzante in quasi tutto il racconto, oscurando la figura di tuo padre, che nell’ambito domestico è visto e vissuto da lei come una persona marginale, anche se benvoluta. Tuttavia, dal modo in cui ne parli in molte pagine, tuo padre è una presenza positiva, viva e fondamentale nel contesto sociale e familiare. È così?

VS Ho sempre considerato papà un uomo buono, ma di poco carattere. Era per lo più impossibile confrontarsi con mamma ad armi pari e, sinceramente, non ho mai capito come abbia fatto a resistere per tutto il tempo della loro vita in comune.
Comunque, per me la sua presenza è stata un sollievo nei momenti più difficili.
Lei lo disprezzava e lo umiliava, lui taceva sempre. Solo adesso capisco che papà ha fatto tanto per noi, senza apparire o sopraffare mai nessuno. Accettava me e mia sorella per come eravamo, e ci rispettava. La sua sensibilità, onestà e gli alti valori morali e sociali in cui credeva non vennero mai meno.

Anche lui, come me, in ambito familiare e sociale occupava poco ‘spazio’ e ho sempre ammirato la sua capacità eroica di non lamentarsi mai, di non recriminare, di non criticare nessuno, manifestando lealtà e affetto nei confronti della sua famiglia di origine e anche per noi. Allora non avevo capito che stava sempre dalla mia parte, mentre oggi mi rendo perfettamente conto della sua silenziosa e affettuosa complicità.

Lo intuisco anche dalle vecchie foto che conservo, soprattutto in una mentre dava la mano a mio cugino, che avrà avuto 5 anni. Aveva il volto sorridente e tranquillo, un’aria rilassata e mio cugino gli teneva la mano con un piccolo sorriso. In effetti, quello era il mio adorato papà, sempre amorevole e premuroso.

Venezia, 1958. Papà, io e mamma

DL La tua è una narrazione che copre più o meno un quarto di secolo, un periodo contrassegnato dalla rinascita economica e sociale del dopoguerra. Anche se sfiorati, sono comunque presenti alcuni riferimenti al clima di fervente dinamismo che caratterizzava la società italiana dell’epoca, accompagnati da molte contraddizioni, laddove tu accenni, ad esempio, alle condizioni di vita e di lavoro nelle piccole fabbriche del coneglianese, agli scioperi e alle manifestazioni di protesta.

E, contemporaneamente, al protagonismo predatorio di molti uomini nei confronti delle donne, in particolare delle ragazze, che vige tuttora, anche se in forma molto più appariscente. Ma per i costumi di allora questo fenomeno rappresentava in qualche modo una novità, tenuta tuttavia nascosta da un doppio standard morale (a questo proposito ci sono alcuni episodi che racconti dei quali sei stata vittima, comunque protagonista, combattiva ed intransigente).

Ebbene, come hai vissuto realmente quel periodo così entusiasmante (sono gli anni del boom economico) e così contradditorio, dalla piccola periferia trevigiana, lontana dagli assordanti frastuoni politici e sociali delle grandi città?

VS Il periodo della rinascita economica ha coinciso con un mio profondo malessere, sia fisico che psicologico; continuavo a ingrassare e dormivo sempre. Solo più tardi ho capito che ho sofferto di una profonda depressione che mi spegneva dentro piano piano. La mia natura dinamica e ottimista si stava affievolendo, l’incapacità di non sentirmi adeguata al mondo che stava cambiando rapidamente mi trascinava a fondo. Tutto quel proliferare di cose nuove non mi entusiasmava. Niente era alla mia portata e tutto si rivolgeva ad un mondo altro.
È stato casuale il fatto che in quel periodo non mi sia avvicinata al mondo della droga, oppure che il mondo della droga non si sia avvicinato a me. Forse è stato anche per merito della lettura se non sono entrata in quel vortice subdolo e illusorio. Infatti, leggevo, leggevo di tutto, soprattutto gli scrittori che raccontavano della guerra, i grandi romanzieri russi, americani, pochi italiani, cercando storie lontane da me, dalla mia vita, anche difficili, purché mi facessero volare in altri mondi. 
Mi chiedi del protagonismo maschile… In effetti, in quegli anni – parliamo dei ’60 e ’70 che coincisero con la cosiddetta ‘liberazione sessuale’ – la carica e la tensione erotica percepibile sia nei posti di lavoro che in situazioni di convivialità, era forte ed esplicita.

Facendo un passo indietro, ho capito che in quella società povera di mezzi e di cultura, il corteggiamento e l’erotismo erano una delle poche fonti di interesse e di svago, rappresentando uno sfogo non solo della libido, ma anche dallo stress causato dalla fatica di vivere. In questo contesto, però, non si teneva in nessun conto la libertà della donna, che poteva accettare o rifiutare l’eventuale approccio. Infatti, in molti casi questa libertà di tipo fisico e mentale veniva bloccata dall’aggressione sessuale.
Nelle grandi famiglie contadine, ad esempio, vigevano spesso delle regole non scritte, come quella della promiscuità, che veniva tollerata per il bene comune. In base a tali ‘norme’, al maschio era riconosciuto il diritto al ‘piacere’, visto anche come ‘necessità fisiologica’. E quindi il maschio non era passibile di nessuna condanna, o anche di semplice riprovazione. Per la donna, invece, era tutt’altra cosa, non essendoci nessuna parità in fatto di diritto al ‘piacere’ o allo ‘svago’. E la donna che si ribellava era malvista sia a livello familiare che sociale. In pratica si doveva solo tacere, tacere ed ancora tacere.

Parè, 1960. Io e Liliana

DL Per chiudere questa conversazione, vorrei che tu parlassi brevemente di nonna Cristina, da te molto amata, anche perché da come l’hai descritta rappresentava l’antitesi di tua mamma: una nonna dolce, affettuosa, gentile, premurosa. Una figura che svetta sopra tutte le altre per una straordinaria sensibilità d’animo, per una disponibilità incondizionata, per uno spirito di sacrificio raro e prezioso.

Ed è infatti con una testimonianza d’amore e di affetto, associata ad una calda e calorosa riconoscenza verso di lei, che chiudi sommessamente il racconto, facendo scorrere nella sequenza del passato che scivola verso il futuro una fantastica vita che finisce ed una che si apre, rappresentata, come già ricordato, dall’immagine della bambina in copertina che dà inizio al tuo racconto.

VS Nonna era una donna che accettava tutto: essere maltrattata dai figli, essere povera in canna, dover allevare il nipote ‘bastardo’. Non metteva mai confini. Ha attraversato due guerre, rimanendo con il sorriso sempre pronto per qualunque gentilezza. A quei tempi non si parlava mai di “emozioni”, anche perché le trepidazioni interiori – che facevano parte del mio essere e delle mie relazioni sia familiari che sociali – erano qualcosa di segreto e nascosto, altrimenti ognuno poteva prenderle e rovinarle, deriderle, o mortificarti. Senza mai parlarne, non riuscivo nemmeno io a capire se erano “normali” o strane e vergognose. Ma erano la cosa più potente che avevo.

A nonna piacevo, anche se non mi accarezzava e baciava, cosa a cui io anelavo con tutta me stessa. Ricordo che quando arrivavo i suoi piccoli occhi celesti brillavano, ed io mi accoccolavo vicino a lei, annusando quel miscuglio di odori di cipolle, cenere, burro, e altro, confuso ma rassicurante.
Un bellissimo ricordo che mi ha sempre accompagnato, è stato quando, in un giorno caldo, nonna mi ha dato un vecchio scolapasta e mi ha mandato nell’orto a raccogliere i piselli; i filari erano più alti di me e io ero avvolta da quella luce verdognola che si combinava con un odore lieve di piselli crudi. Non so quanto tempo rimasi in mezzo al verde a cercare baccelli, andando avanti e indietro. Ma quando rientrai nonna era felice di quel cesto colmo, anche se ci avevo messo un sacco di tempo. Così li ‘stegolammo’ e cucinammo con tanto burro, mangiandoli poi con la pasta a forma di farfalle.
Ricordi semplici, da bambina, ma che restituiscono a chi li ha vissuti con gioia, affetto e gratitudine, un’immagine familiare calda e commovente, che ti accompagnerà per tutta la vita.

Valeria Salvador


Immagine di copertina
Foto di Chiara Becattini

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