Mario Meléndez
Il mago della solitudine
Versioni e nota di Stefano Strazzabosco
Tiro sassi
ai cigni
che abitano
le mie lagune
mentali
ma i sassi
diventano
lagune
e le lagune
altri cigni
che fuggono a piedi
per delle terre inospiti
5
Vidi il Papa svegliarsi
da un orribile incubo
Iddio gli aveva detto
che leggeva Rimbaud
Era il primo dell’anno
Il Papa dormiva abbracciando
il suo Gesù di peluche
7
Vidi Dio che baciava la morte
in un caffè di Parigi
Aveva una barba di secoli
e un ombrello
Era d’estate
La sua ombra si faceva aria
con l’orecchio di Van Gogh
10
Vidi la morte che piangeva al funerale di Cervantes
La gente gridava: “Compagno Miguel”
“Presente”, dicevano i vermi
mentre lo calavano nella sua ultima dimora
A pochi metri di distanza cremavano il corpo di Dio
12
Vidi Marilyn Monroe che allattava la sua ombra
aveva tette tristi
e usava una camicia di forza per dormire
Si era tatuata sulla schiena una scritta che diceva
Anche Dio è stato mio amante
19
Vidi Cappuccetto Rosso perduta nel bosco
Aveva trent’anni
e il suo vestito le stava attillato
Il Lupo e la Nonna l’aspettavano
nell’aldilà
Sono vecchia per questo, si diceva
ormai nessuno mi ricorda
Il mondo è vasto e ostile
come il bosco in cui sono e morirò
Mi resta soltanto un mantello stracciato
e un cesto in cui porto le ossa di Dio
23
Vidi Picasso montato su un cavallo verde
indossava una camicia di forza e una maschera africana
Le sue donne lo seguivano (a piedi) in un deserto di sale
portavano in spalla i suoi quadri e un ombrello di Matisse
Il cavallo sfoggiava una strana parrucca
le sue zampe ortopediche si aprivano in tutte le direzioni
esasperando Picasso che lo colpiva con un palo di cenere
Per la noia smontò dal cavallo
e cominciò a tracciare per terra delle figure amorfe
linee strappate a un alfabeto impossibile
Qui scaverò la tomba di Dio, si disse
i vermi non me lo perdoneranno mai
E ordinò alle sue donne di tagliarsi le vene
mentre dipingeva il suo cavallo d’eternità
31
Vidi Kafka nella stanza dei giochi
Guidava un suo treno infinito
su binari che parevano anguille
Sotto il letto un altro bambino smontava
un bruco fluorescente
Il bruco aveva il volto di Kafka
anche i mobili, gli orologi
i muri avevano il suo volto
i ragni annoiati nelle ragnatele
i giocattoli della stanza
L’unico a non avere il volto di Kafka
era lo stesso Kafka il cui volto
pareva una pagina in bianco
39
Vidi Dio nello specchietto retrovisore
mentre uscivamo da un tunnel trasparente
Andavamo a tutta velocità
vestiti per una festa di ceneri
Ognuno portava una maschera
e una pietra legata al collo
per buttarci nel primo fiume
Vagammo tutta la notte in un deserto di sale
delirando la terra promessa
Sui sedili posteriori le muse sbadigliavano
mettevano i seni fuori dal finestrino
come fossero resti archeologici
I gatti che avevamo dimenticato nel bagagliaio
ci avevano predetto il futuro
Nessuno vedrà l’alba, confessarono
con una certezza che ci rizzava i capelli
All’ultima pompa di benzina comprammo tabacco
e demmo da mangiare ai gatti prima di abbandonarli
Miagolavano sul ciglio della strada
quando avviammo i motori
La luna era una treccia d’aglio
attaccata al parabrezza
le stelle sembravano pali appuntiti
che avessero nostalgia del nostro cuore
Ai primi raggi di luce
cominciammo a sparire
Avevano ragione i gatti, dissi
alzando il volume della radio
mentre vedevo i Sex Pistols
nello specchietto retrovisore
Cartelli stradali
Se ti perdi nel bosco del linguaggio
pensa alla poesia che ti piace di più
e dilla ad alta voce
Le parole ci portano per mano
mi grida Dio
da una stella a pedali
Arrivato all’ultimo verso
troverai l’uscita
Arte poetica
Una vacca pascola nella nostra memoria
il sangue le esce dalle mammelle
il paesaggio è stato ucciso da uno sparo
La vacca continua il suo tran tran
la sua coda scaccia la noia
il paesaggio resuscita al rallentatore
La vacca se ne va dal paesaggio
continuiamo ad ascoltare i suoi muggiti
la nostra memoria ora pascola
nella sua immensa solitudine
Il paesaggio abbandona la nostra memoria
le parole cambiano nome
restiamo lì piangenti
sulla pagina in bianco
Ora la vacca pascola nel vuoto
le parole le stanno sulla groppa
il linguaggio si burla di noi
Mario Meléndez è nato a Linares, in Cile, nel 1971.
Ha studiato Giornalismo e Comunicazione Sociale, e da qualche anno vive in Italia.
Ha pubblicato varie raccolte di poesia, tra le quali: Apuntes para una leyenda, Vuelo subterráneo, Un día volveré a tus ojos (Un giorno ritornerò ai tuoi occhi, trad. di E. Coco, Raffaelli 2013) El circo de papel (Il circo di carta, trad. di E. Coco, ibidem 2015), La muerte tiene los días contados (La morte ha i giorni contati, trad. di A. Metaponte, ibidem 2013), Esperando a Perec (Aspettando Perec, trad. di R. Vaselli, ibidem 2015). Altre sue poesie sono apparse in riviste di letteratura latinomericana e in antologie nazionali e straniere.
Nel 1993 ha ottenuto il Premio Municipale di Letteratura nel Bicentenario di Linares. Agli inizi del 2005 è stato pubblicato dalle prestigiose riviste “Other Voices Poetry” e “Literati Magazine”. Nello stesso anno ha ottenuto il premio “Harvest International” alla migliore poesia in spagnolo assegnato dall’University of California Polytechnic, negli Stati Uniti.
Oltre che in italiano, la sua opera è stata tradotta anche in inglese, francese, portoghese, olandese, tedesco, rumeno, bulgaro, persiano e catalano.
Nota
di Stefano Strazzabosco
Le poesie che presentiamo, tratte dalla recente antologia El mago de la soledad (Il mago della solitudine; Valparaíso, México 2017), sono un esempio convincente sia della sua poetica, sia dei risultati cui giunge. Meléndez propone una poesia apparentemente pop, in cui i grandi temi – su tutti, quello di Dio – vengono frullati insieme alla paccottiglia della società di massa – Marilyn Monroe, l’orecchio di Van Gogh, Cappuccetto Rosso, i Sex Pistols, etc. – e ad alcuni numi tutelari dell’arte: Cervantes, Rimbaud, Kafka, Picasso. Ma sotto questo kitsch, trattato con umorismo e non senza ironia, si percepisce la disperazione di chi ha vissuto la sua infanzia in una dittatura e, uscitone, ha dovuto confrontarsi con altre privazioni: prima fra tutte quella del linguaggio, delle parole che si “burlano di noi”, dell’impossibilità di costruire un rapporto armonico tra sé stessi e il mondo, la cui sostanza resta inaccessibile. È il sintomo di una profonda crisi della quale siamo tutti partecipi, e complici più o meno involontari. Quali sono le nostre prospettive? “Ora la vacca pascola nel vuoto”, dice Meléndez. Siamo dunque in pieno territorio barocco, giusto nell’horror vacui che ben conoscevano poeti come Giacomo Lubrano o Ciro di Pers, altrettanto interessati agli orologi, alla polvere, ai vermi, altrettanto propensi a riempire il terribile vuoto di oggetti, citazioni, metafore a catena: come teorizzavano Balthasar Gracián, in Spagna, e il nostro Emanuele Tesauro, nel Cannocchiale aristotelico (1654), dal covo di Torino. Ma siamo anche vicini, ci sembra, al creazionismo di Vicente Huidobro, il grande poeta cileno che – più di Neruda o di Vallejo – può avere influenzato la poesia di Mario Meléndez.
In questo vuoto spinto e postmoderno, popolato di creature spettrali quanto noi, la poesia è un cartello che indica il luogo geometrico in cui tutto quaglia, o vorremmo quagliasse. Non ci sembra poco, sia pure con tutte le riserve del caso.
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