Maurizio Armellin è quello delle facce, quello che dipinge dei faccioni grandi, stilizzati, con certi occhi che si aprono come oblò, dei nasi che occupano metà del viso e delle bocche sproporzionate, labbra grandi che neanche le più siliconate. Grandi ovali, grandi cerchi tracciati con pennelli grossi e pochi colori: neri, rossi. Ma poi lo trovate dappertutto: sui cartoni di certe aziende vinicole, sulle etichette delle bottiglie, nella reclame del prosciutto. Sempre con quel tratto inconfondibile, linee grosse e apparentemente buttate là con noncuranza, approssimative, eppure così marcate e definitive. Lo conoscete prima dalle linee che dalla persona tanto il tratto lo caratterizza, diventa stile, cifra.

È un personaggio, Maurizio Armellin, un po’ come i suoi personaggi: guardi il viso, i capelli e senti di voltare pagina, di entrare in un mondo un po’ pazzo, un mondo da artista appunto. L’ho conosciuto durante una mostra a Sesto al Reghena, poi ho girovagato in quella Wunderkammer che è il suo laboratorio a Vittorio Veneto chiacchierando con lui per più di due ore. E come in tutti gli artisti, opera dopo opera, scopri che coesistono in lui le due facce che oramai riconosci bene, inconciliabili. Almeno all’apparenza. La vena un po’ folle che sa regredire allo scarabocchio dei bambini, sa recuperare magicamente il gusto della semplificazione (che però è profondità di sguardo), fino al minimalismo delle forme, e dall’altro lato la consapevolezza, la tecnica, la fedeltà a certe regole e a certi schemi mentali precisi. Che diventano comunicazione articolata e complessa, prima condotta ad un livello emotivo, quasi istintivo, per svilupparsi poi in forma di ragionamento, provocazione o perfino denuncia. Vedere questi faccioni, o questi totem, o questi animali stilizzati è prima di tutto bello, attira e seduce perché riporta a quella stilizzazione di forme che ci apparteneva, in cui siamo cresciuti, ma è come se ci prendesse per mano e ci riportasse dopo poco al nostro sentire adulto. Ed ecco che allora i visi non sono più scarabocchio ma ci parlano di una condizione sociale, del nostro esserci in questo mondo, ridotti troppo spesso a facce, o peggio a maschere, senza più la capacità di essere volti (è una climax che rubo allo stesso Armellin, da un suo video, segno indiscutibile di una consapevolezza comunicativa precisa).

Penso a quel grande lavoro pittorico di Armellin, gigante nelle dimensioni e nella potenza iconica, grande come un lenzuolo, forse all’origine davvero lenzuolo: colpisce la capacità di sintesi, la reductio ad minimum, verrebbe da dire. Trentasette visi, solo corpo, senza collo, senza dettagli, ovali tendenti al rettangolo nella spigolosità maschile, più dolci e arrotondati dove riconosciamo qualche donna. “Faces”, giustamente, visi, che si affacciano perplessi su una scena, con i grandi occhi identici uno all’altro, attoniti. Incantati e irretiti come in tanta dell’arte contemporanea, terribilmente isolati in una magia che sa di Circe. Congelati dallo spettacolo che il mondo offre ai loro occhi.
Le bocche, ecco, le bocche esprimono un’individualità insopprimibile, una diversa dall’altra: qualcuna spalancata, qualcuna con le labbra chiuse, qualcuna perfino con le labbra strette dai denti che diventano una sorta di gabbia. La centralità di quella macchia rossa esplode nel bianco-nero della composizione, si impone. Sono bocche che vorrebbero parlare, che ascoltano le parole formarsi dentro e aspettano di articolarle in una proposta, in una protesta, in un grido che superi la babele dei social, dei pettegolezzi, dei proclami e delle banalità, e ritorni a essere logos dotato di senso. A me pare gente che sta lì, trepidante, in attesa di un’epifania epocale, in attesa di esprimersi, cioè di farsi comunità. E non sarà allora un caso che in un momento ben preciso l’attenzione dell’artista si concentri sulle mascherine: quel presidio sanitario che in realtà nasconde e chiude la bocca, va aggredito, esorcizzato proprio attraverso un’operazione estetica…

Ma colpiscono tante cose nell’opera di questo artista, man mano che giri lo sguardo. Intanto la confluenza intelligente di tanti stimoli a cui l’arte contemporanea ci ha abituati e che connotano nel profondo l’oggi: penso alla serie degli Otages di Fautrier, tragico punto di partenza dell’informale, o alla serie di opere dell’art brut di Dubuffet (fra l’altro esposta di recente a Milano). Per il tratto, rapido e sicuro non può che venire in soccorso tutto il lungo lavoro della pop art, da Keith Haring al fumetto, dai writers a certo linguaggio della pubblicità. Ma, detto questo, colpisce soprattutto la capacità di Armellin di fare sintesi, di trovare un tratto nuovo, estremamente personale e soprattutto riconoscibile. È un fatto importante perché nella molteplicità dei settori in cui la sua attività esplica la riconoscibilità, il sapore del tratto funziona da potente amalgama, da cifra decisiva. Pur nello spaziare dei modi, con lavori a volte molto stilizzati, minimalisti, “vuoti”, altre volte saturi di cose e colori fino a riempire gli spazi come fossero vetrate medievali o fino alla ripetizione ossessiva di un oggetto-modulo, pur in questa varietà infinita chi guarda riconosce uno stile, si ritrova in un segno. Deciso, sicuro, sempre vitale.

Anche questo colpisce: la capacità di passare da opere di riflessione profonda, se non decisamente di denuncia sociale (i visi, per esempio, o i totem) a lavori destinati al mondo del commercio, con una propensione decisamente pubblicitaria, o magari a composizioni di stampo più “estetico”, giocate su eleganti variazioni cromatiche di gusto quasi liberty (la splendida serie del mare, per esempio). Va rilevata questa capacità di spaziare, di lasciarsi intridere dal mondo a 360 gradi, dalla sua dimensione tragica a quella più consumistica ed effimera. Facendo sintesi, come dicevo, e questa è la cosa più ammirevole, e facendo sintesi attraverso lo stile, ovvero l’arte. E allora non ti stupisci più di trovare nello stesso catalogo, nella stessa mostra, un quadro-denuncia e l’etichetta di un vino, un totem che scava nelle profondità ataviche del nostro essere uomini e uno splendido pannello decorativo destinato a una piscina.

E colpisce ancora l’apertura comunicativa, anch’essa a 360 gradi, quella ridondanza che chiama a raccolta tutti i codici, dal colore al segno alla scrittura. Le tele si popolano di oggetti, stilizzati e deformati, di facce allucinate, di grafemi, ma c’è come un desiderio di farsi interpreti di se stessi, di guidare una lettura attraverso gli slogan e le frasi annotate con graffiante ironia. La fantasia attinge a piene mani ai giochi di parole (“faccia da schiaffi”, “faccia wow”, “faccia libro”) in un gioco inesauribile di richiami, ironia, perfino autoironia.
E ancora a 360 gradi, sulla stessa linea, sono gli ambiti di intervento e i supporti: dalle tele ai totem, dalle installazioni per piscine ai manifesti pubblicitari, dalle sculture in plexiglas ai menu, alle borse, ai gadget, fino alla straordinaria serie delle mascherine dipinte ai tempi del Covid. Dal duraturo all’effimero, perfino all’usa-e-getta. Come se tutto attorno a sé potesse e dovesse essere coinvolto (travolto!) dal colore e dalla forza comunicativa dell’idea artistica. Come un’ondata vigorosa e liberatoria, capace di abitare, a suo agio, tanto il contesto di un’aula universitaria quanto lo scaffale di un supermercato.

Visitare un atelier è sempre una rivelazione: qui da Maurizio Armellin la disposizione dei locali diventa percorso chiarificatore. Sopra, ben in vista, in vetrina letteralmente, la sua produzione più recente, la serie affascinante dei concept destinati alle aziende, al mercato: bottiglie e packaging con etichette elegantissime destinate ad aziende di pregio (Bellenda, Keber Renato e Keber Edi, Blazic, Picech, Radikon, Milazzo, Casa Roma, Pajo), personalizzazione di menù e prodotti per ristoranti “Michelin guida” (La Madia, Uovodiseppia, Caino, I Due Cippi, Al Cjasal, Osteria al Castelletto dalla Clemi), e artigiani del gusto come D’Osvaldo prosciutti di Cormòns e Macelleria Bonelli, in cui domina un’idea forte, che attinge all’anima del fare artistico: l’idea cioè che la “cosa” promossa, venduta, non va dimenticata, fino a una sorta di appello etico contro lo spreco alimentare. Certo, va consumata, digerita ma deve rimanere nel ricordo, magari attraverso un packaging di qualità eccelsa. L’effimero che deve avere un destino, insomma, che deve essere salvato dall’eterno fluire e dall’oblio (la dice lunga in tal senso un copy azzeccato come “Fuori dal tempo” dedicato a un vino di Stanko Radikon di Oslavia).

Ma poi tenti una domanda imbarazzante, forse stupida, fatta prima a te che a lui: “L’arte, cioè… l’arte in tutto questo dialogo con il mercato…”. E allora, senza una risposta diretta, ecco che i passi dell’ospite scendono al piano di sotto, uno scantinato grande come la sala espositiva che sta sopra, male illuminato, forse neanche imbiancato. Lì ci sono le cose vecchie, lì c’è il percorso, la ricerca, le radici. Lì trovi vecchi lavori bellissimi che testimoniano il passaggio dalla pop-art all’optical art, dal collage al graffitismo: “elettropitture”, collage ottenuti da ingrandimenti progressivi di disegni in miniatura e polaroid realizzati con il fotocopiatore, poi intelaiati e ripresi con tempere fluorescenti che restituiscono effetti magici alle luci al neon o alla lampada di Wood, lavori materici, fette di muro graffiate e dipinte.
E scopri un altro segreto di Armellin: il gusto per la sperimentazione, la ricerca di tecniche nuove che allarghino le possibilità espressive. Ieri le fotocopie, oggi le “puntesecche” incisioni ottenute scrivendo direttamente su lastre di metallo con il taglio al plasma. Ecco qua, la risposta alla domanda è sotto i nostri occhi: l’arte è tutto questo, ricerca, sperimentazione, provocazione, dialogo continuo, desiderio di esprimere. E se poi serve a vendere, a rendere belli gli oggetti di cui ci circondiamo, se diventa packaging, beh, fa bello il mondo, fa bene al mondo.
E con questo si spiega anche la serialità, quello slancio quasi compulsivo a insistere su un grafema, a riprodurlo in infinite variazioni per saggiarne tutte le possibilità. Perché scoperta una possibilità espressiva (un viso, la linea di un naso, per esempio) c’è bisogno di popolare lo spazio che ci circonda, di sperimentarne la permanenza nel variare dei dettagli.

Così alla fine, a lasciarci conquistare dai lavori di Armellin, ci ritroviamo davanti ad un mondo, anzi siamo dentro un mondo. Di colori, di forme bizzarre, di sagome e sculture in cui, come in una partitura complessa, si modulano i toni della pienezza vitale (il cibo, l’allegria, il vino) e dell’angoscia (certe bocche serrate o spalancate, alla Munch…), della leggerezza e della polemica, del sorriso e del sarcasmo. Della vita, insomma.

I AM, 2024
E si spiegano anche altre due cose, le ultime su cui vorrei attirare l’attenzione. La sensibilità didattica, intanto, che nasce dai lunghi anni di insegnamento al Liceo artistico ma continua in laboratori destinati ai più piccoli. Perché una volta scoperto il segreto per ridisegnare il mondo è quasi un obbligo liberare la fantasia dei bambini e contagiarli con questa onda di creatività vibrante (Foto: Laboratorio durante il festival Educhiamoci – I AM © 2024).
E i colori. La ricchezza dei cromatismi, pieni, esibiti, ricercati fin nel campo del fosforescente o con le tecniche di stampa più innovative, perfino per assurdo nei lavori in bianco e nero, è l’altra cosa che colpisce. Vi è un’energia vitale che incanta, ruba gli occhi di chi guarda. Invita a partecipare del mondo, fosse bevendo un bicchiere, mangiando del prosciutto, accendendo una lampada policroma a forma di improbabile cactus o circondandosi semplicemente di colore, tanto colore da nuotarci dentro.

Faces si è, al più visi,
tondi, rotondi, inverecondi,
con occhi grandi e attoniti,
ciclopi doppi e strabici,
allucinati a quanto sta dintorno,
a questa sarabanda
di visi, visi, visi men che vivi.
Non più volti si è, e non è vólto
lo sguardo all'altro, al prossimo:
guarda solo atterrito
a quanto minaccioso sta davanti.
Né parlano le bocche più, cucite,
serrate, sigillate. Siliconate.
Maschere e mascherine.
Finché le fecondi un colore,
un tratto, un segno ardito,
un bacio a risvegliarle dal torpore.
Paolo Venti, scrittore e docente di greco e latino

Immagine di Copertina: Faccia neon2013
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