«Simbolismo mistico»
Il Salon de la Rose+Croix a Parigi 1892–1897 in mostra alla Collezione Guggenheim di Venezia
L’insostenibile leggerezza dell’invisibile
di Anna Trevisan
«Don Chisciotte, vecchio paladino, gran vagabondo, / Invano la folla assurda e vile ride di te […] / Hurrah! noi ti seguiamo, noi, i poeti santi, / dai capelli cinti di follia e di verbena. / Guidaci all’assalto delle grandi fantasie, // e presto, nonostante i tradimenti, /sventolerà alto lo stendardo delle Poesie / sul cranio canuto dell’inetta ragione!». Così scriveva un giovane Paul Verlaine nella poesia intitolata A Don Chisciotte nel 1861.
A Don Chisciotte forse potrebbe essere paragonata oggi la figura quasi dimenticata dell’eccentrico quanto discusso Joséphin Péladan, autore e critico d’arte. A lui si deve la fondazione del Salon de la Rose+Croix, del quale si autoproclama Gran Maestro, fregiandosi dell’altisonante titolo di Sâr Mérodak, termini che rimandano rispettivamente al significato di «guida» (nelle lingue antiche ebraica e assira) e al nome di un leggendario re babilonese. A lui sono attribuite frasi ad effetto come: «Artista tu sei sacerdote». E ancora: «Se si chiudono le chiese, saranno i musei che officeranno. Se Notre Dame è profanata sarà il Louvre ad officiare». A lui si deve il tentativo di «risacralizzare l’arte», per riorientarla verso la rappresentazione dell’invisibile.
Nonostante la polvere del tempo abbia parzialmente fatto dimenticare la sua figura, insieme a quelle di molti artisti a lui legati, quando si inaugurò il primo Salon de la Rose+Croix a Parigi, nel marzo 1892, fu un vero successo, come ben documenta lo studioso Jean David Jumeau Lafond. «Le chiassose tattiche promozionali» adotatte da Péladan sortirono infatti l’effetto sperato, riuscendo ad attrarre non solo folle di curiosi, ansiosi di poter vedere «che cos’è questo Salon […] con opere esposte in penombra tra gigli ed incenso e un organizzatore che saluta […] vestito con un mantello scarlatto o una tunica viola», ma anche stampa ed establishment. Tant’è vero che, vent’anni dopo, Marcel Proust ne scriverà nel suo Alla ricerca del tempo perduto.
Benché la figura di Péladan si prestasse alla caricatura, «la grande sincerità» delle opere esposte in mostra disarmò ogni sarcasmo in critica e pubblico, come doviziosamente riporta Jumeau Lafond. Effetto, questo, che sembra riverberare ancora oggi dalle opere esposte nella mostra curata da Viviene Greene, Simbolismo mistico, in corso alla Collezione Peggy Guggenheim di Venezia. È con confessato stupore, infatti, che, una volta varcata la soglia d’ingresso al percorso espositivo, l’alone di pregiudizio nei confronti di una mostra fondata non «su una posizione estetica ma su una dottrina» vira in ascolto rispettoso, fino ad assumere gli imprevisti contorni di un viaggio sinestetico. L’odore rosso e vaporoso delle pareti raccoglie gli sguardi, invitandoli a indugiare sulle opere, illuminate da una luce soffusa e raccolta. Le note della musica di Érik Satie detergono la visione. I puff di velluto e i sofà blu notte collocati in alcune delle sale puntualizzano uno spazio che è concessione al riposo, alla contemplazione, alle domande. Gli zoccoli di velluto rosso collocati sotto i tre ritratti di Josephin Péladan sembrano suggerire l’opzione scandalosamente teatrale di inginocchiarsi al suo cospetto, in qualità di veri (o presunti) seguaci della misteriosa confraternita de la Rose+Croix, votata ad ermetici e vaghi ideali, improntati alla mistica cristiana.
Quello di Péladan, infatti, si propone come un «progetto di rinnovamento culturale […] il cui assunto estetico rimane […] però ostinatamente difficile da definire soprattutto perché i suoi membri preferiscono un contenuto indeterminato, evocativo», come scrive la curatrice. Il contesto in cui vede i natali il Salon de la Rose+Croix è quello di fine ‘800, periodo storico in cui si moltiplicano gli ordini esoterici e le società segrete come reazione al Positivismo e «in risposta ai mali conclamati della modernità e del capitalismo industriale».
Di contro a «ciò che si vede», cavallo di battaglia della coeva pittura impressionista, le mostre del Salon de la Rose+Croix (tenutesi annualmente dal 1892 al 1897) privilegiano infatti tematiche che tentano di far vedere l’invisibile. Il trascendente, la spiritualità, l’amore e la morte, la religiosità sono i soggetti ricorrenti, rappresentati attraverso figure allegoriche e mitologiche.
Fu una aperta misoginia a far dichiarare a Péladan che «nessuna opera eseguita da una donna sarà mai esposta o commissionata dall’Ordine». Eppure, il soggetto allegorico che più (e forse meglio) rappresenta le istanze e gli ideali del simbolismo mistico rosacrociano è proprio il femminile, nella sua duplice versione di donna angelicata e femme fatale. È la delicata litografia Beatrice (1892-93) del francese Jean Aman ad aprire la prima sala del percorso espositivo: un’immagine stilizzata, colma di levità e di grazia, della quale i versi di Paul Verlaine sembrano, ancora una volta la parafrasi perfetta: «Andavo per perfidi sentieri/ incerto dolorosamente. / Le vostre mani mi fecero da guida. // Così pallida sull’orizzonte lontano / riluceva una tenue speranza d’aurora: / il vostro sguardo fu il mattino» (La buona canzone, XX).
Di fronte a Beatrice campeggia la raffinata litografia del primo Manifesto per il Salon de la Rose+Croix (1892), realizzato dallo svizzero Carlos Schwabe, nella quale sono raffigurate due donne che, vestite di una lunga tunica, salgono una scalinata, sopra la quale si profilano una manciata di stelle e picchi innevati. I gradini sono cosparsi di fiori di rosa (simbolo rosacrociano), che hanno messo radici dentro la pietra, e di fiori di giglio (simbolo di purezza). Ai loro piedi, c’è una terza donna che le guarda ascendere mentre è immersa, ancora corpo e carne, nell’acqua limacciosa.
A suggello di questa ouverture espositiva, c’è la piccola acquaforte, The Holy Graal (1893) dello spagnolo Rogelio de Egusquiza, lapidaria quanto ermetica sintesi delle sale successive. Queste immagini poco o nulla sembrano avere a che spartire con i toni smaccati e chiassosi del mentore nonché fondatore del Salon. A lui è dedicata la seconda sala, dove campeggiano tre suoi ritratti, il più grande dei quali è firmato dal belga Jean Delville: Ritratto del Gran Maestro dei Rosacroce (1895). In esso, Péladan è raffigurato quasi a grandezza naturale, con indosso abiti sacerdotali, in una posa ieratica che richiama l’iconografia bizantina del Cristo Pantocratore. Accanto, i ritratti di Alexandre Séon e Marcellin Desboutin.
Nelle sale successive, a spiccare sugli espliciti omaggi di Armand Point ai «primitivi» italiani è il conturbante Idolo della perversione (1891) di Jean Delville: un disegno in grafite su carta, che raffigura una donna nuda, impudicamente velata da un sottile drappo che lascia vedere il turgore dei seni, la rotondità del ventre.
A guardarla a lungo, questa figura dal volto indefinibile, gli occhi ridotti a due fessure luminose, i capelli di medusa, fatti di serpenti, il corpo nudo e sensuale eppure funereo, come sbiadito simulacro di vita sopraffatto dalla morte, sembra svaporare in vittima dell’idolatria più che in perverso idolo tentatore.
Il suo omologo, per contrasto, è la pastorella azzurra e luminosa de la Visione (1892) del francese Alphonse Osbert. Con sapiente sensibilità espositiva, la parete di fronte a quella su cui è affissa la tela è vuota, quasi a voler lasciar libera di vibrare e di espandersi intorno tutta la potente luminosità che, complice il leggero puntinismo, emana dalla figura celestiale della pastorella, raffigurata in piedi, a mani giunte, lo sguardo ineffabile rivolto verso l’alto. Ancora un volta, è la musica, che accompagna il visitatore per tutto il percorso espositivo, a sciogliere la fruizione dell’opera, sgombrandola da riserve e pregiudizi, e concedendo al corpo un ascolto visuale altrimenti difficile, calmando lo sguardo e liberandolo. Si impone con una forza lieve eppure decisa, tesa e ascensionale, questo quadro, che invade gentile la sala con dimensioni a grandezza naturale.
Accanto, la piccola tela Testa di Santa (1896) di Edgar Maxence, che, nonostante il titolo, ha toni, sembianze e cromie poco sacri e molto profani: più che un’aureola sembra un nobile copricapo, quello che cinge la testa della Santa. Le vetrate colorate della chiesa, alle sue spalle, brillano come gioielli mondani e la Bibbia è dipinta come un massiccio oggetto prezioso, mentre la luce di candela si irradia materica intorno.
In filigrana al disegno in matita su carta montato su tela, Aprile o Santa Cecilia (1896), di Armand Point sembrano risuonare i versi di Baudelaire: «Sono bella, o mortali, come un sogno / di pietra, ed il mio seno su cui ognuno / alternativamente s’è ammaccato / è fatto per far nascere nel poeta/ un amore immortale e muto come / la materia […]» (La Bellezza). La Santa, patrona della musica, arte molto amata dai rosacrociani, è ritratta scalza, con indosso un peplo, mentre suona la lira. Ma la rigidità segnica del panneggio sembra pietrificare in statua il disegno, congelandolo in fissa materia.
Alla fissità ieratica delle femme fragile e delle femme fatale si contrappone invece il complesso dinamismo compositivo di Charles Maurin, che con i suoi oli su tela dimostra una maestria grafica anticipatrice e quasi contemporanea. Il vezzo di marcare con evidenti contorni le sagome e le figure dei suoi quadri, conferisce infatti una chiarezza segnica e narrativa nuova e diversa. In L’alba del lavoro (1891) l’innocente serenità dei corpi nudi di donne, uomini e bambini viene disturbata dal fumo emesso in lontananza dalle ciminiere industriali, mentre una livorosa lingua di terra fende la montagna che li separa da una folla nera. In L’alba del sogno (1891), il Poeta/Artista sta assiso, livido e verdognolo, in mezzo a bianche nudità femminili.
Di tutt’altra cifra stilistica ed esecutiva le xilografie di Félix Vallotton, che sembra rendere orizzontale il rapporto con il trascendente, immortalando folle e paesaggi come macchie nere. Suoi i ritratti di Baudelaire e Verlaine. Suo il ritratto di Wagner, musicista caro a Péladan che per il suo geste esthétique si ispirò proprio agli ideali della Gesamtkunstwerk. Come scrive la curatrice, «il Salon diviene spazio per concerti, conferenze e rappresentazioni teatrali» e, tra le arti, «la musica è di cardinale importanza per la teoria simbolista». Tant’è vero che Érik Satie compone diversi brani sperimentali per Péladan, tra cui Sonneries de la Rose+Croix.
Controcanto maschile alla donna angelicata, è la figura mitologica di Orfeo, molto cara ai simbolisti. Un abisso stilistico separa Il lamento di Orfeo (1896) di Alexandre Séon, dall’Orfeo (1897) di Pierre Amédée Marcel-Béronneau: alla pulizia formale e quasi metafisica del primo si contrappone la confusione cupa e materica del secondo. Spiazzante perché fuori da ogni schema stilistico è il quadro che conclude il percorso espositivo: La nuova generazione (1892), dell’olandese Jan Toorop. Tra cromie folli e pastose, in mezzo ad un turbinio vegetale e onirico di rosa e di verdi, su un bianco seggiolone munito di pallottoliere sta una bambina. A proprio agio tra i tronchi incantati degli alberi, le radici degli antenati e il palo del telegrafo, questo sorprendente soggetto suona come colorata profezia di un futuro eco-sostenibile.
Antesignano della contaminazione tra linguaggi artistici e della multidisciplinarietà, precursore della figura del curatore istrione, Josephin Péladan sdoganò strategie di comunicazione che vennero sposate anche dai Dada e dai Surrealisti, persino dal Futurismo italiano. E la schiera di artisti che intorno a Péladan si diede consesso, creò qualcosa di molto indeterminato eppure poetico e molto inattuale. Se è un fatto la precoce scomparsa delle mostre dei Salon (1892-1897), lo è anche la loro eredità spirituale, intaccata anche da artisti al di sopra di ogni sospetto, come Mondrian e Kandinsky . Il loro granitico astrattismo formale infatti affonda le radici «nel risveglio religioso di fin-de-siècle e nella teoria esoterica e spirituale», come ampiamente documenta nel suo saggio L’Aldilà. I legami importanti e talvolta imbarazzanti tra occultismo e nascita dell’arte astratta Kenneth E. Silver, professore di storia dell’arte alla New York University. Ancora una volta, sembrano rilucere in filigrana i versi di Verlaine: «Vinti ma non domati, esiliati ma vivi, / e malgrado gli editti dell’Uomo e le sue minacce, /non hanno certo abdicato, serrate le mani tenaci /su tronconi di scettro, e corrono nei venti. / […] Dal Corano, dai Veda e dal Deuteronomio, / da ogni dogma, pieni di rabbia, tutti gli dèi / sono usciti in guerra: all’erta! e occhi aperti.» (Gli dèi)
Anna Trevisan
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Note
1 Carlos Schwabe (Altona, Germania 1866 – Avon, Francia 1926) Manifesto per il Primo Salon de la Rose+Croix 1892 / Litografia 198 x 80,5 cm., The Museum of Modem Art, New York – Donazione anonima 1987
2 Jean Delville, L’idolo della perversione, 1891, grafite su carta (81,5 x 48,5 cm) – Museum Wiesbaden, Germania,Collezione F. W. Neess / Primo Salon de la Rose+Croix, 1892
3 Alphonse Osbert Visione (Vision), 1892 Olio su tela / Oil on canvas 235 x 138 cm / 92 1/2 x 54 5/16 inches frame: 264 x 165.5 x 10 cm / 103 15/16 x 65 3/16 x 3 15/16 inches – Musée d’Orsay, Paris, Gift of Yolande Osbert 1977 X.2014.423
4 Pierre Amédée Marcel Béronneau, Orfeo (Orpheus (Orphée), 1897 Olio su tela / Oil on canvas 194 x 156 cm / 76 3/8 x 61 7/16 inches 224 x 187 x 10 cm / frame: 88 3/16 x 73 5/8 x 3 15/16 inches – Musée des Beaux Arts, Marseille X.2014.437
Foto di copertina: Alexandre Séon Il lamento di Orfeo (Lamentation d’Orphée) The Lament of Orpheus, ca. 1896 Olio su tavola / Oil on panel 73 x 116 cm / 28 3/4 x 45 11/16 inches frame: 104.7 x 148.5 x 6 cm / 41 1/4 x 58 7/16 x 2 3/8 inches – Musée d’Orsay, Paris, Gift of Fleury Gromollard, nephew and heir of the artist 1917 X.2014.439
Anna Trevisan è blogger, giornalista pubblicista e mediatrice interculturale. Si è laureata in filosofia all’Università Ca’ Foscari di Venezia. Ha conseguito un Master in Comunicazione a Il Sole 24 Ore e un Master in Studi Interculturali all’Università degli Studi di Padova. Ha studiato anche a Berlino e a Londra. Per diversi anni ha collaborato con la Biennale di Venezia, nei settori D.M.T. (Danza, Musica, Teatro), Arte e Architettura. Ha insegnato italiano L2 ai bambini e agli adulti immigrati in Italia e ha lavorato come operatrice di sportello dell’Ufficio Immigrati. Ha svolto e svolge attività editoriale.
Scrive da più di dieci anni per il mensile “Venezia News”. È redattrice della rivista “Finnegans”. Collabora con il blog “Cult Tv Live Reviews”. Scrive per il suo blog “Multiculti” e per “ABCDance”, blog di danza del quale è co-fondatrice e redattrice. Per il progetto europeo “Migrant Bodies” di Operaestate Festival ha pubblicato un omonimo report e ha scritto due brevi testi teatrali, rappresentati nella tappa italiana dello spettacolo “Ethnoscape” (2015) di Cécile Proust. Per Tracciati Editore ha pubblicato i racconti brevi: “In viaggio verso dove”, nella raccolta “Tre d’amore” (2014) e “La bicicletta”, nella raccolta “Dammi Cinque” (2017).
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