«Resta quasi dovunque sfregiato il volto antico delle città e le campagne vengono infiltrate da una specie di sfilacciato tessuto urbano, proliferante in costruzioni amorfe, come quelle villette-benessere che, se saziano un’antica fame di abitazioni per tutti, oscurano con la loro caotica disseminazione ogni angolo del paesaggio». Così scrive Andrea Zanzotto nella raccolta di scritti “Luoghi e Paesaggi” e la riflessione attorno al paesaggio cui il poeta veneto ha incentrato gran parte delle sue opere mi è sembrata riecheggiare nel film “Le città di pianura” di Francesco Sossai presentato in anteprima al Festival di Cannes nella sezione “Un Certain Regard”, film italiano in concorso insieme a “Testa o Croce” del duo Alessio Rigo de Righi e Matteo Zoppis.
“Le città di pianura”, in uscita al cinema il 2 ottobre con anteprime nel triveneto dal 25 settembre, è un road movie divertente e malinconico insieme, che nasconde dietro le vicende dei suoi strampalati personaggi, una riflessione critica sulla perdita graduale e incessante di un complesso paesaggistico stratificato, inteso nella sua valenza non solo ambientale, storica e culturale, ma altresì linguistica ed esistenziale.
Il film si apre su una sequenza di immagini di case illuminate da luci rossa e verde. È la luce di un semaforo in un incrocio di un anonimo paese della provincia veneta che illumina ad intermittenza frammenti di case, un’auto ferma davanti alle strisce pedonali, una chiesa sullo sfondo. In auto due amici, Carlobianchi (Sergio Romano) e Doriano (Pierpaolo Capovilla), storditi dall’alcol, dormono indifferenti ai clacson delle macchine bloccate dietro di loro.
Già da questa prima sequenza si nota una intenzione precisa di rappresentare il paesaggio senza retorica e trattandolo non come sfondo, ma come un protagonista nel quale si muovono i personaggi. Carlobianchi e Doriano infatti partono nella notte da un paese montano – un lungo camera car ci precipita verso la pianura – per andare a bere l’ultimo bicchiere a Venezia in attesa di andare a prendere in aeroporto un amico di vecchia data, il Genio, che arriva dall’Argentina. A Venezia incontrano un giovane studente, Giulio (Filippo Scotti) che imbarcano in un viaggio pieno di devianze alcoliche e geografiche che si concluderà alla Tomba Brion ad Altivole. Un itinerario scoordinato attraverso uno spazio che si colloca tra la montagna e il mare, uno spazio attraversato dalla Treviso – Lisbona – Budapest, chiaro riferimento alle nuove infrastrutture che hanno devastato il paesaggio veneto, un luogo colonizzato da case a schiera, capannoni e cemento, frammentato da campagne, capitelli e storiche ville venete.
In questa rappresentazione dello spazio mi è sembrato di riconoscere l’eredità di un nuovo modo di guardare al paesaggio, penso a Guido Guidi e Luigi Ghirri. Come hai lavorato in questo senso?
«Per me la guida vera sono stati Gianni Celati e Luigi Ghirri con i vari lavori che hanno fatto insieme. I documentari di Celati “La strada provinciale delle anime” e “Case sparse”. Un altro riferimento importante è stato il libro fotografico “In Veneto” di Guido Guidi, un libro stupendo.
Questi riferimenti non mi interessavano a livello stilistico, ovvero inquadrare nello stesso modo in cui hanno inquadrato loro, ma piuttosto mi interessava la lettura che ha fatto Celati di tutto questo, ovvero che le cose si danno alla vista in un certo modo.
Così ho cominciato a fotografare in giro per il Veneto, ho fotografato per anni ed ho costituito una sorta di archivio personale che mi è servito moltissimo per il film. Ho scattato con la Kodak 100, la pellicola che si usava nei film degli anni Settanta, Ottanta. Parallelamente ho cominciato a scrivere, a scrivere anche quello che sentivo come storie e dialoghi, nei bar ad esempio. Dal momento in cui ho pensato di fare un film su un luogo ho pensato di cercarlo nei luoghi: vado in giro, faccio foto, scrivo scene.
E poi come i fotografi, che fanno migliaia di foto e poi ne selezionano una cinquantina, così ho fatto anch’io. Ed ho fatto lo stesso anche con la sceneggiatura, nel senso che il metodo visivo era parallelo al metodo narrativo, perché più scrivevo, più avevo scene, più facevo foto, più mi chiarivo l’idea di cosa e dove volevo girare. Ho scritto con lo stesso principio fotografico, fai tante foto e poi le metti in ordine.
Poi a partire dalle mie foto abbiamo lavorato con il direttore della fotografia Massimiliano Kuveiller, ho lasciato perdere i maestri e tenuto il principio teorico, che le cose si danno alla vista in un certo modo. E poi volevo che non ci fosse differenza tra gli elementi del paesaggio, un’estetica del bello e del brutto. Lo sguardo si posa sulle cose allo stesso modo, che sia una casa lungo la statale, un capannone o una villa veneta. Tutto inquadrato allo stesso modo, non mi interessa dare un giudizio di valore alle cose. Il pubblico non deve avere la sensazione che io ho un pregiudizio rispetto a quello che devono sentire, ma deve poter guardare il paesaggio così come è, esplorarlo e forse capirlo.»



Ci sono due sequenze in cui lasci a Giulio, lo studente fuori sede con la passione per l’architettura, esplorare il paesaggio. In particolare mentre i nostri protagonisti Carlobianchi e Doriano cercando un ristorante mitologico della loro giovinezza, “da Mary”, ritrovandosi perduti in piena campagna veneta con una cartina in mano, Giulio si allontana e la sua soggettiva ci svela una carrellata di case, capitelli, piloni e campi arati.
«Abbiamo girato la sequenza in un modo che si sentano i passi dell’operatore – che sono i passi di Giulio – e quindi hai la sensazione di una distanza fisica reale dentro quella carrellata che in quasi neanche cinquanta metri ci mostra la informalità del paesaggio veneto: le villette non terminate, uno scorcio di un vecchio canale con sopra i gelsi, poi di colpo una rete protettiva, un cancello, un traliccio con delle palme, e ancora un campo di soia ed un’edicola sacra. In questi cinquanta metri c’è una varietà fortissima di elementi del paesaggio e quello che mi interessava era il ritmo del paesaggio veneto dove non c’è un elemento uguale all’altro.
Quando giriamo in pianura, in campagna, abbiamo la sensazione che non sia più solo campagna, ma uno strano posto inframezzato dalla zona industriale, dalla zona residenziale, dal centro del paese con un tabacchi, un baretto, un vecchio negozio di vestiti e la chiesa. E poi di nuovo: zona residenziale, zona industriale, campagna che non è più campagna. C’è questo ritmo continuo, che ti dà la sensazione di non uscire mai da questo luogo».
In questa sorta di macroarea come spettatori non ci si rende mai conto di dove si è a livello geografico, anche Venezia per esempio non è riconoscibile.
«Venezia non è riconoscibile perché non è un punto d’arrivo, non è un punto d’arrivo estetico del film, è uguale al resto. Di Venezia si vede solo l’acqua nella carrellata in cui Carlobianchi, Doriano e Giulio camminano a Baia del Re. Non vediamo i canali, i palazzi fastosi, paradossalmente chi conosce veramente Venezia capisce di essere a Venezia vedendo la scritta “Bacareto Da Lele”.
I paesi ormai sono dei portatori di nomi oppure hanno dei landmark come il ristorante “Da Mary”, la sensazione che volevo dare guardando un film è che sia una sorta di moto perpetuo da un luogo all’altro, ma senza un posto dove andare».
Nel film hai cercato di raccontare il cambiamento del paesaggio, se Ghirri e Celati hanno raccontato le rovine del paesaggio agricolo, tu cerchi di raccontare il mondo post industriale in qualche modo.
«Celati diceva che dobbiamo accettare queste rovine come parte del paesaggio, negli anni ‘80 c’era un tipo di rovina che era la rovina del mondo contadino, adesso abbiamo la rovina del mondo industriale. La rovina del modello economico che quando Celati girava era in pieno sviluppo, quello della crescita delle aziende, del benessere economico, del costruirsi le case.
Nel film c’è la sequenza del 2008 che racconta la distruzione di quel modello economico, con la crisi economica, i licenziamenti, i cartelli vendesi. Quella sequenza finisce con Doriano che, avendo perso il lavoro in fabbrica per gli esuberi, è finito a lavorare in una ditta di sgomberi e distrugge una cassettiera simile a quella della pubblicità dei mobili Rampon che poco prima reclamizzava che quei mobili sarebbero durati cent’anni. Nel 2008 è crollato un modello e adesso ci sono le rovine di quel mondo lì. Nella stessa sequenza a casa di Genio – l’amico di Doriano e Carlobianchi che si era fatto i soldi negli anni Ottanta contrabbandando occhiali rubati dall’azienda in cui lavorava – percepiamo proprio la fine di un sogno, un mondo che non esiste più. Il mio istinto mi ha portato in quei luoghi che so che già non esistono più».


Nel film hai inserito un personaggio, quello di Giulio, che ha uno sguardo altro. Appartiene ad una generazione più giovane, è uno studente di architettura, viene dal Sud Italia ed ha una ossessione per un luogo: la Tomba Brion progettata dall’architetto Carlo Scarpa.
«L’idea che avevamo con il co-sceneggiatore Adriano Candiago era proprio di far vedere questo luogo ad un alieno. Siccome non potevamo avere un personaggio da Marte abbiamo immaginato uno studente di Napoli che comunque ci sembra a livello di astrazione abbastanza forte lo stesso.
Ogni storia che racconti devi fingere che la stai raccontando a un alieno che non sa niente, che non ha il contesto, e facendo un film iper locale era una sfida capire come raccontare a qualcuno che non ne sa nulla. Quindi mi serviva un personaggio che potesse guardare al paesaggio permettendo anche a me di inquadrarlo come se fossi da fuori, libero dai condizionamenti del mio sguardo, dal fatto che sei assuefatto alle cose che vedi. Il personaggio di Giulio mi ha permesso di immedesimarmi nello sguardo di qualcuno che vede per la prima volta le cose».

Ed in questo viaggio dal ritmo ondivago ed incerto, in cui i nostri protagonisti attraversano luoghi e fanno incontri improbabili, ad un certo punto il terzetto finisce in una residenza nobiliare, Villa Roberti a Brugine, dove si fingono degli architetti venuti a fare un sopralluogo. Qui Giulio si ferma ad osservare un affresco della scuola del Veronese, un “capriccio” dove il pittore immagina un paesaggio che unisce direttamente le montagne alla laguna veneta, cancellando di fatto le città della pianura.
“Se tu dici Veneto in giro per il mondo l’immagine è Venezia con un teleobiettivo con dietro le Dolomiti come se fossero attaccate, in mezzo un enorme spazio di cui nessuno tiene conto” chiosa Francesco Sossai».
Ed è proprio su questo spazio che si concentra Francesco Sossai: una provincia piatta e anonima, priva di attrattive apparenti, una terra sconosciuta. Una terra di mezzo, segnata dagli effetti dell’industrializzazione e della crescita economica, ridotta a semplice ‘territorio’ nella logica dello sfruttamento e della valorizzazione. Lo fa con un approccio di deriva psicogeografica. «Per fare una deriva, – scriveva Guy Debord – andate in giro a piedi senza meta od orario. Scegliete man mano il percorso non in base a ciò che sapete, ma in base a ciò che vedete intorno. Dovete essere straniati e guardare ogni cosa come se fosse la prima volta. Un modo per agevolarlo è camminare con passo cadenzato e sguardo leggermente inclinato verso l’alto, in modo da portare al centro del campo visivo l’architettura e lasciare il piano stradale al margine inferiore della vista. Dovete percepire lo spazio come un insieme unitario e lasciarvi attrarre dai particolari».
La pianura veneta è come la Zona di Andrej Tarkovskij in “Stalker”, una landa desolata dove Carlobianchi e Doriano sono i due stalker che sanno la direzione, un paesaggio dove è impossibile orientarsi e che cambia continuamente, un luogo pieno di rovine.
La ricerca della Tomba Brion si rivela essere il vero plot del film che porta poi alla conclusione del viaggio. La sua ricerca è ciò che muove il personaggio di Giulio che perfino nel segno lasciato da due bicchieri sul tavolo prefigura le due aperture a forma di cerchio dell’opera di Scarpa.
«La citazione dei segni dei bicchieri sul tavolo era interessante per capire il simbolico in Carlo Scarpa, cioè c’è l’altissimo e il bassissimo. Quel simbolo dell’ingresso della Tomba Brion lo puoi vedere proprio su una tovaglia di carta in un’osteria. Questo mi interessa a livello narrativo e cinematografico, unire l’alto ed il basso, il bello ed il brutto.
Nella scena finale alla tomba di Brion, Giulio chiede incredulo a Doriano e Carlobianchi come mai non sanno nulla del posto dove vivono. Per me la sequenza alla Tomba Brion era l’unica via d’uscita, una meravigliosa rovina di un futuro perduto, cioè di un’idea di futuro. Perché quel sincretismo culturale su cui si basava Carlo Scarpa era inserirsi nella tradizione aprendola al mondo, portare il Giappone a San Vito di Altivole. Così come avevano fatto i veneziani a Palazzo Ducale ispirandosi ai mosaici iraniani, così come aveva fatto Tiziano ambientando la presentazione di Maria al tempio nel paesaggio delle Dolomiti. Per me il futuro è nella commistione totale e non nella globalizzazione che invece ha reso tutto uguale. Nell’opera di Scarpa c’era il concetto di esaltare le differenze, cioè cosa succede se uso i principi del giardino giapponese nella campagna fuori Treviso?
Per quanto riguarda la sequenza alla Tomba Brion c’è un discorso sulla tecnica cinematografica su cui ho riflettuto a lungo, ovvero come filmarla. Confrontandomi con un amico lui mi ha chiesto: che differenza c’è tra le tue immagini e quelle di un turista o uno studente di architettura che vanno a far foto là dentro? O le immagini di tanti fotografi che hanno fotografato la tomba? Per esempio Guido Guidi ha fotografato la luce, i cambi della luce. Quindi io mi sono chiesto: come faccio a girare alla Tomba Brion?

Un giorno stavo riguardando “Viaggio a Tokyo” di Ozu. E Ozu ha girato tutta la vita con la tecnica del Tatami shot, ovvero in ginocchio sul tatami con la macchina da presa all’altezza degli occhi e con una lente fissa.
Questa tecnica ha una doppia valenza, innanzitutto credo che a Scarpa sarebbe piaciuto che uno potesse recuperare una tecnica giapponese cinematografica per filmare uno spazio come quello e poi il fatto di entrare in ginocchio. Io sono entrato fisicamente in quel luogo con una reverenza, cioè entro in ginocchio nell’opera di una persona che reputo quasi divina.

Questo modo di girare rivela la matrice giapponese dello spazio perché in quel momento in un film che è tutto in movimento di colpo entra un film giapponese. Come il dettaglio giapponese di Scarpa dentro l’architettura veneziana. Inoltre mi piaceva che quella tecnica in quel luogo creasse un sincretismo culturale tra Scarpa ed Ozu in cui io sono il tramite, creando una analogia tra questi due mondi che altrimenti non sarebbero stati connessi.
È una scena sull’ascolto: per la prima volta i due uomini Carlobianchi e Doriano ascoltano per la prima volta questo ragazzo che gli spiega una cosa e loro, all’improvviso, sono veramente in ascolto. Ed è stato così anche per me, semplicemente andando in quel luogo tante volte, restando in ascolto e guardando molto cinema giapponese. Tutto questo mi ha portato a scegliere questa tecnica di ripresa che è semplicissima. La cosa interessante è che avendo la macchina da presa su treppiedi e con una lente fissa non puoi più toccarla. Per fare un primo piano sono io che mi devo spostare nello spazio, voglio fare un ‘totale’ e devo allontanarmi io. Quindi sono io che mi muovo nello spazio e non resto nello stesso posto e cambio lente. Devo spostarmi fisicamente in uno spazio che ha creato Scarpa, così di colpo sei dentro la sua geometria e sei obbligato a certe geometrie.
Per questo film non ho fatto nessun tipo di shortlist, nessuno storyboard, niente. Guardavo, giravo perché volevo questa impressione di vedere i luoghi per ricreare anche dentro di me questa freschezza nel vedere i luoghi. Il contrario di quello che ho fatto nel film precedente “Altri Cannibali” (2021) dove invece disegnavo qualsiasi inquadratura, poi le firmavo col cellulare e la messa in scena era molto precisa».

E se la pianura veneta è la “zona” di tarkovskiana memoria, la tomba Brion è la stanza dei desideri, forse senza redenzione, ma il luogo dove Giulio realizza la differenza tra ciò che si immagina e ciò che si esperisce, mentre Carlobianchi e Doriano si fermano per un attimo e si guardano attorno senza l’angoscia di cercare una cosa da bere.
La Tomba Brion è un luogo dell’anima, come la chiamava Carlo Scarpa “una macchina per elaborare il lutto”, un luogo chiuso come un tempio giapponese ma in rapporto con la campagna che evoca gli artisti del rinascimento veneto – Bellini, Giorgione, Tiziano.
Da questo osservatorio privilegiato i nostri protagonisti guardano il paesaggio attorno a loro – e qui più che altrove risulta evidente quanto il paesaggio ci offra modi efficaci e profondi di rappresentarci a noi stessi, di plasmare la memoria e di dare una forma al pensiero – e colgono forse una verità che non sapremo mai.
Il film finisce con la separazione dei nostri protagonisti, sulle note delle musiche di Krano. Giulio prende il treno e Carlobianchi e Doriano lo seguono guidando la macchina nella campagna veneta fino a prendere diverse direzioni. Giulio va verso il futuro, mentre i nostri tornano al loro quotidiano di traffico e cemento, in un finale “apocalittico” dove le ruote delle macchine schiacciano ripetutamente un gelato che non sono riusciti a gustarsi.
Chiara Andrich, filmmaker

Immagine di copertina
Still dal film Le città di pianura
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