Ritratto di signora. Conversazione con Helena Janeczek
a cura di Anna Trevisan
Introduzione
Bassano del Grappa, 21 gennaio 2018.
Quando Helena Janeczek parla di Gerda Taro, i suoi occhi si accendono. La storia di questa semisconosciuta fotoreporter di guerra, compagna e sodale del leggendario Robert Capa e prematuramente scomparsa mentre era al lavoro sul campo per documentare la Guerra civile spagnola, l’ha catturata. «La sua figura mi ha fatto compagnia, mi ha infuso forza durante un periodo molto cupo della mia vita. È stata lei a scegliere me, non il contrario» – dice durante la presentazione del libro, nella suggestiva sala della Libreria Palazzo Roberti.
A Gerda Taro, infatti, la scrittrice e giornalista ha dedicato il suo ultimo romanzo La ragazza con la Leica (Guanda, 2017) e parole piene di stima, descrivendola come una donna coraggiosa e vitale, libera e anticonformista. A lei, che amava così tanto la vita, sarebbe sicuramente piaciuto essere qui, nella meravigliosa sala affrescata di questo palazzo dove avrebbe ballato fino a notte insieme a Capa – si è divertita a immaginare Helena Janeczek durante il nostro incontro.
A Robert Capa sarebbe sicuramente piaciuto sapere che le sue foto sono state esposte in mostra in questo museo – ha poi commentato ridendo, dopo aver notato la scritta azzurra e scrostata che affiora dalla facciata del Museo Civico: «Vendita vini e liquori». Insieme, infatti, abbiamo visitato la mostra Robert Capa Retrospective, che è risuonata come un congeniale contrappunto visivo ad alcune vicende del romanzo e alla nostra chiacchierata.
Qui di seguito la nostra conversazione.
Esiste una letteratura femminile? Se sì, tu te ne consideri parte?
Non credo che esista una letteratura femminile. La letteratura, o comunque la narrativa, è frutto di storie di persone anche molto diverse tra loro, che per certi aspetti, a volte, possono avere delle sensibilità comuni. Ma mi sembra un’inutile e pericolosa forzatura pensare di poter fissare delle linee guida che determinino una sorta di essenza della letteratura femminile. È una trappola pensare che le donne scrivano solo di amore, famiglia e sentimenti e che gli uomini invece scrivano dei grandi temi. Esistono dei macroscopici esempi di scrittrici che con tutto questo non hanno nulla a che fare. Una scrittrice che mi piace sempre citare a questo proposito è Patricia Highsmith, molto lontana da quello che di solito viene associato alla letteratura femminile.
In ambito anglosassone parlano di women’s writing. Quest’espressione mi è più congeniale, perché descrive e dà risalto a ciò che le donne scrivono, per colmare uno squilibrio che esiste, per ragioni culturali e politiche, tra l’autorevolezza attribuita quasi in automatico al lavoro degli scrittori e a quella che, invece, più difficilmente viene riconosciuta al lavoro delle scrittrici. In questa direzione vanno anche gli women’s studies e gender studies americani. Con questo tipo di orientamento mi trovo d’accordo perché, se proprio vogliamo infilarlo in qualche casella, ha più a che fare con le pari opportunità. Anzi, è una cosa di cui io stessa mi occupo. Con delle amiche ci siamo inventate un festival per scrittrici [SI Scrittrici Insieme, N.d.R.] dove ospitiamo non solo libri di narrativa ma anche di saggistica, per dare visibilità alla produzione di pensiero e creativa delle donne, mostrandola nella sua varietà.
Tu stessa in effetti sei una dimostrazione del contrario: il tuo romanzo Le rondini di Montecassino parla della Seconda guerra mondiale.
Sì, è un libro sulla guerra, che è un tema considerato tipicamente maschile, tant’è vero che molte persone mi hanno chiesto come mai me ne sono occupata. Ma io ho sempre pensato che in letteratura chi scrive si può occupare di qualsiasi cosa. Tra l’altro, le caratteristiche che oggi vengono attribuite alla «letteratura femminile» spesso coincidono con il romanzo «classico», cosiddetto «borghese». Penso a romanzi come Madame Bovary o Anna Karenina, che sono stati scritti da uomini. Certo, sono anche ritratti critici della società dell’epoca e non solo storie di donne infelici, ma sono comunque romanzi che ruotano intorno a personaggi femminili. A ben guardare, anche i libri di Jane Austen non sono solo storie su come ci si deve sposare con l’uomo giusto, ma che parlano della società del tempo. È segno di un’idea stereotipata del femminile pensare che le donne scrivano soltanto della sfera degli affetti.
Quali sono le autrici o, se preferisci, gli autori che più profondamente hanno orientato la tua scrittura e in che modo?
Sicuramente per me sono stati fondamentali, per ragioni legate alla mia storia personale, tutte le letture che hanno a che fare con l’esperienza nei lager. I più famosi sono uomini, come Primo Levi o come Gustaw Herling, scrittore polacco del quale, proprio la settimana scorsa, ho presentato la nuova edizione di Un mondo a parte, e che oltretutto ho citato anche nel mio libro Le rondini di Montecassino. Ma ci sono anche libri meno noti eppure notevoli, scritti da donne. Penso a Vivere ancora di Ruth Klüger, edito da Einaudi; penso ai libri, molto potenti, della francese Charlotte Delbo; penso alle memorie, molto belle, dell’italiana Liliana Millu, detenuta a Birkenau.
Ma amo molto anche la narrativa a cavallo tra ‘800 e ‘900. La scrittrice a me più vicina è Virginia Woolf, insieme a Henry James e Conrad. Invece per Ingeborg Bachmann ho quello che considero una sorta di vero e proprio amore, fortissimo, sia come poetessa che come autrice di testi in prosa. La sua opera mi è rimasta dentro. Probabilmente è per questo che ne La ragazza con la Leica le ho dedicato un piccolo cameo.
Tu nasci con la poesia. È un linguaggio sintetico quello della poesia, eppure sei anche autrice di romanzi. Sono modalità di scrittura diverse, che ti sono entrambe congeniali.
Non sono affatto l’unica che ha cominciato a scrivere poesie e poi è trasmigrata a scrivere opere di narrativa. L’unica cosa che sono piuttosto certa di essermi portata dietro anche nella scrittura in prosa è un modo di lavorare. Penso a un testo in prosa, anche lungo, in base ad un principio di composizione, non in base ad uno schema predefinito. Forse non è il modo più raccomandabile di scrivere, ma è una sorta di inclinazione la mia, è il mio modo di lavorare. Ho un’idea della composizione generale, nella quale poi cerco di far rientrare tutto quello che sento di dover dire, prendendomi la libertà, strada facendo, di fare incontri imprevisti. Ho dei punti fermi, delle linee guida lungo il percorso narrativo ma non ho una scaletta rigida alla quale attenermi. Una volta fatta la prima stesura, il mio lavoro consiste nel riuscire a trovare l’equilibrio della parti.
A proposito delle fonti del tuo romanzo, in La ragazza con la Leica ci sono ovviamente moltissimi riferimenti alle fotografie, ma citi anche molte canzoni. Nel tuo sito ufficiale hai addirittura squadernato il tuo cantiere creativo, condividendolo con grande generosità con i lettori. Perché questa scelta?
In realtà ho condiviso solo alcune delle fonti: quelle più «divertenti», perché molte delle fonti più significative sono piuttosto «noiose», come le pagine dei vecchi elenchi telefonici che ho usato per ricostruire esattamente dove abitavano le persone di cui parlo. Ho condiviso questi materiali per cercare di rendere lo spirito di un’epoca. I film, ad esempio, sono quelli che i personaggi del romanzo hanno effettivamente visto, perché esistono dei riscontri in proposito, o che, in altri casi, è molto probabile che conoscessero, perché si incrociavano con la storia culturale in cui vivevano.
Sul film Kuhle Wampe hai costruito delle bellissime pagine, imperniate su un dibattito immaginario ma molto verosimile tra Gerda e i suoi amici.
Sì, ho scelto quel film perché è emblematico del drastico peggioramento delle condizioni di vita in Germania, ma anche del tipo di tensioni che si venivano a creare all’interno della sinistra, tensioni che poi hanno reso così difficile la capacità di opporsi all’ascesa del nazismo. Sono tutte tematiche molto complesse da raccontare.
Gerda Taro è raccontata attraverso lo sguardo degli altri. Hai strutturato infatti il libro in tre capitoli, a ciascuno dei quali corrisponde una diversa voce narrante. Perché questa scelta?
È nata dall’esigenza di capire che cosa abbia significato Gerda per gli altri e, allo stesso tempo, dall’esigenza di riflettere la presenza di tutti coloro che rimarranno sempre vivi dentro di noi, pur nella distanza. L’altro motivo è che se non avessi fatto questo tipo di scelta compositiva, non sarei riuscita a raccontare di Gerda, che era così contraddittoria e sfuggente eppure così importante per gli altri e così capace di tirare fuori il meglio da loro, come spesso succede con le persone che hanno la capacità di far innamorare più che di amare. Per raccontare la risonanza emotiva che Gerda riusciva a suscitare negli altri ci volevano gli altri.
Il lettore riesce ad entrare in questa differenza di sguardi anche grazie ad una differenza di scrittura. C’è qualcosa di potentemente teatrale, in fondo, anche nel modo in cui si modula e si sviluppa il romanzo. È come un grande camouflage di Gerda che si insinua anche nella scrittura, perché il modo in cui parla il personaggio di Willy Chardack è diverso da quello in cui parlano Ruth Cerf e Georg Kuritzkes.
La parola camouflage è una parola fondamentale per spiegare meglio la mia scelta. Gerda Taro e Robert Capa erano dei maestri del camouflage. Il loro stesso vivere era un continuo reinventarsi. Non sarebbe stata una scelta adeguata quella di ignorare quest’aspetto senza concedere spazio all’indecidibile confine tra il vero e il finzionale del loro vissuto, offerto e proposto agli altri.
Nel romanzo il coraggio dell’immaginazione è sempre ben miscelato con riferimenti esatti alla Storia, che fanno presa sul lettore.
Sì , perché questa impostazione narrativa ha un effetto un po’ disorientante, straniante; da un po’ di mal di mare. Quindi era necessario ancorarla.
È uno sguardo quasi «cinematografico» quello delle voci narranti.
Sì, me lo hanno detto. Forse perché il romanzo è focalizzato su persone – e questo vale soprattutto per Gerda – abituate a processare il proprio mondo interiore guardando fuori. Spesso i protagonisti di un romanzo sono introspettivi, interrogano i propri sentimenti. Tutte cose che Gerda non faceva e non era. Era vitale, intelligentissima ma andava avanti d’istinto. Quindi non è esattamente il personaggio migliore cui attribuire lunghe riflessioni su di sé, lunghe disquisizioni sui propri sentimenti, e nemmeno gli altri sono personaggi introspettivi: «il Bassotto» per niente, Ruth nemmeno. Forse Georg più degli altri perché è il più intellettuale. Far capire quello che hanno dentro è qualcosa che accade loro quasi controvoglia. Il loro modo di stare al mondo è concreto, fattivo.
Le tue origini ebraiche non solo non sono un mistero, ma spesso sono soggetto dei tuoi libri, dove il tuo «Lessico famigliare» si trasforma in letteratura. Penso a Lezioni di tenebra, che racconta di te e di tua madre, in una sorta di «diario pubblico» annodato ai fili tragici della storia. In La ragazza con la Leica in finale di battuta fai un riferimento esplicito alle tue origini ebraiche. Perché le tue origini sono così importanti nella tua produzione letteraria?
Con Le rondini di Montecassino mi è successo una cosa molto strana. Pensavo che quello di cui mi stavo occupando – il contingente neozelandese Maori durante la battaglia di Montecassino – fosse la cosa più lontana dalla mia storia personale. Invece, ho scoperto che buona parte di questi combattenti Maori arrivati in Italia erano fedeli ad una Chiesa autoctona che, in maniera simile ai rastafariani della Giamaica, si era impadronita della religione dei colonizzatori, reinterpretandola. Ho scoperto che i Maori raccontavano che il loro arrivo in Nuova Zelanda era stato un esodo con delle canoe da Sion. Questa loro religiosità cristiano-sincretistica-giudeicizzante mi ha molto colpito e, ridendo, mi sono detta che le radici, anche se le cacci fuori dalla porta, poi ti rientrano in canoa.
Nel mio primo libro, Lezioni di tenebra, sono partita da quest’ombra della storia, una storia mostruosa che mi sono trovata in casa. È stato un modo che mi è sembrato legittimo per raccontare la ricaduta di questo non detto, di un’esperienza, come quella dello sterminio, inconcepibile e indicibile, anche per chi l’ha vissuta. Volevo raccontare chi sono le persone che hanno dovuto sopportare questo, che cosa succede nel corpo e nell’anima dei sopravvissuti, che cosa ha significato tutto questo. È sicuramente qualcosa che mi è stata messa accanto alla culla questa mostruosa esperienza, legata al destino degli ebrei di Europa. La cosa che a me interessa – ed è quello che ho fatto nelle storie dei miei libri successivi – è raccontare la pluralità di modi di stare al mondo, modi oggi diventati inconcepibili.
I personaggi del romanzo La ragazza con la Leica sono quasi tutti ebrei, ma quasi nessuno è legato alla tradizione ebraica. Hanno persino un po’ di pregiudizi gli uni nei confronti degli altri, perché quelli che vengono dalla Germania, si sentono più avanti rispetto ad uno come Robert Capa che viene da Budapest e ha dei modi un po’ «balcanici» nel loro modo di percepirlo.
Mi piaceva l’idea di far risorgere la vastità di un mondo – quello degli ebrei d’Europa – che non necessariamente si identificava con il sionismo o con la religione e che aveva una ricchezza culturale che è stata spazzata via. Non è il caso di tutti i personaggi del libro, ma buona parte degli ebrei che provenivano dall’Europa Orientale, come i miei genitori, lo sterminio li ha spazzati via quasi tutti e, con loro, ha spazzato via anche quel tipo di vivacità culturale, nelle sue varie declinazioni. E questo ci tenevo a raccontarlo.
Secondo te che cosa ne avrebbe pensato Gerda Taro – che come tu ami ricordare è stata una persona così difficile da etichettare – di questo nuovo femminismo lanciato dalle attrici di Hollywood con l’hashtag #metoo? L’avrebbe seppellito con una risata o l’avrebbe preso sul serio?
È difficile da dire, perché Gerda era senz’altro una «proto femminista», persino nell’ambito della libertà sessuale, ma non contestava certi modelli di femminilità, pur interpretandoli sempre con il suo spirito di autonomia. Invece, molte delle fotografe e artiste che compaiono ai margini di questo libro, come Eva Besnyö, Kati Horna e Leonora Carrington, diventano poi sostenitrici del movimento femminista. Credo che vi abbia aderito anche Ruth Cerf. Magari Gerda, come molte donne che si sono fatte strada in una società patriarcale all’antica, del #metoo avrebbe faticato a capire e a condividere appieno la denuncia di una condizione femminile vittimaria. Ma sia lei che le donne del femminismo storico hanno aperto la strada alle donne di oggi, per ribellarsi alle molestie di datori di lavoro o di professori.
Qual è l’eredità di Gerda Taro e da chi secondo te è oggi stata raccolta?
Quella che a me sembra sia l’eredità di Gerda è quella di ragazzi che non hanno mai rinunciato a realizzare i propri sogni, che non hanno rinunciato a realizzare quello che desideravano per se stessi, vivendo giorno dopo giorno nel modo più appagante possibile eppure impegnandosi nelle cose in cui credevano. È una cosa che credo sia abbastanza difficile oggi. Con questo non voglio dire che non esistono più persone egregie che fanno cose egregie, ma è stato molto eroso il senso di poter fare le cose insieme. Oggi facciamo tutti fatica a credere in un mondo migliore, per noi e per tutti.
Biografia
Helena Janeczek (1964) è nata a Monaco di Baviera in una famiglia ebreo-polacca e vive in Italia da oltre trent’anni. Ha esordito con una raccolta di poesie, Ins Freie, edita da Suhrkamp nel 1989.
Nel 1997 pubblica con Mondadori Lezioni di tenebra, la sua prima opera di narrativa in italiano. Il libro, oggi disponibile in una nuova edizione per i tipi di Guanda, affronta a partire dall’esperienza autobiografica, il tema della trasmissione di madre in figlia di una memoria tabù segnata dalla deportazione della madre a Auschwitz. Vince il Premio Bagutta Opera Prima e il Premio Berto, riceve elogi importanti da scrittori come Lalla Romano e Erri de Luca. Segue Cibo (Mondadori, 2002), mosaico romanzesco di storie che indagano il rapporto, felice o problematico, di donne (e uomini) con il cibo, il corpo e i desideri e le memorie che vi si intrecciano. Nel 2012 è stato ripubblicato Bloody Cow (Il Saggiatore), pamphlet visionario sulla «Mucca Pazza» e tributo a Claire Atkinson, una ragazza inglese vegetariana tra le prime vittime del morbo.
Le rondini di Montecassino (Guanda, 2010) è un romanzo che intreccia fiction e non-fiction, collegando continenti e spaziando tra l’oggi e la battaglia del ‘44, per scandagliare il portato e il lascito della Seconda Guerra Mondiale attraverso le storie dei reduci e dei loro discendenti. Con quest’opera, l’autrice ha vinto il Premio Napoli, il Premio Pisa e il Premio Sandro Onofri.
Negli ultimi anni Helena Janeczek ha partecipato a diverse opere collettive: Nell’occhio di chi guarda; scrittori e registi di fronte all’immagine (Donzelli, 2014), Festa del Perdono; Cronache dai decenni inutili (Bompiani, 2014), Milano (Sellerio, 2015), La formazione della scrittrice (Laurana, 2015), Dylan Skyline; dodici racconti per Bob Dylan (Nutrimenti, 2015), Il racconto onesto (Contrasto, 2015), Con gli occhi aperti: 20 autori per 20 luoghi (Exorma, 2016) e L’agenda ritrovata; Sette racconti per Paolo Borsellino (Feltrinelli, 2017).
I racconti La minaccia fantasma (Sellerio) e Pochi gradi di separazione (Feltrinelli) sono disponibili in versione e-book.
La ragazza con la Leica (Guanda, 2017), suo terzo romanzo, ha vinto il Premio Bagutta 2018.
Helena Janeczek è cofondatrice del blog letterario Nazione Indiana. Ha collaborato con Nuovi Argomenti, Alfabeta2 e Lo Straniero e scritto per giornali come La Repubblica, L’Unità, il Sole 24Ore e Pagina 99.
Ha lavorato nell’editoria come consulente per la narrativa straniera. A Gallarate, dove vive con suo figlio e due gatti, organizza il festival letterario SI Scrittrici Insieme.
Anna Trevisan è blogger, giornalista pubblicista e mediatrice interculturale. Si è laureata in filosofia all’Università Ca’ Foscari di Venezia. Ha conseguito un Master in Comunicazione a Il Sole 24 Ore e un Master in Studi Interculturali all’Università degli Studi di Padova. Ha studiato anche a Berlino e a Londra. Per diversi anni ha collaborato con la Biennale di Venezia, nei settori D.M.T. (Danza, Musica, Teatro), Arte e Architettura. Ha insegnato italiano L2 ai bambini e agli adulti immigrati in Italia e ha lavorato come operatrice di sportello dell’Ufficio Immigrati. Ha svolto e svolge attività editoriale.
Scrive da più di dieci anni per il mensile “Venezia News”. È redattrice della rivista “Finnegans”. Collabora con il blog “Cult Tv Live Reviews”. Scrive per il suo blog “Multiculti” e per “ABCDance”, blog di danza del quale è co-fondatrice e redattrice. Per il progetto europeo “Migrant Bodies” di Operaestate Festival ha pubblicato un omonimo report e ha scritto due brevi testi teatrali, rappresentati nella tappa italiana dello spettacolo “Ethnoscape” (2015) di Cécile Proust. Per Tracciati Editore ha pubblicato i racconti brevi: “In viaggio verso dove”, nella raccolta “Tre d’amore” (2014) e “La bicicletta”, nella raccolta “Dammi Cinque” (2017).
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