RIVISTA DI CULTURA MEDITERRANEA

“Quello che so di te”, il nuovo libro della scrittrice Nadia Terranova, commento e intervista di Chiara Evola

Nadia Terranova, ©Matteo Casilli

Alla presentazione, a Palermo, del suo nuovo libro – edito da Guanda – Nadia Terranova ha posto sul tavolo un tema molto delicato, di cui la letteratura tradizionalmente si è occupata molto poco: la maternità.

«Quando ho trovato la cartella clinica ho subito notato che la degenza era durata soltanto undici giorni. E a me dicevano che tutto sommato fossero pochi, che questa storia fosse piuttosto una mia ossessione. Io penso invece che undici giorni siano moltissimi nella vita di una donna di trentotto anni che entra in manicomio perché perde una figlia».

Undici giorni sono il tempo della storia raccontata lungo quasi duecento pagine da Nadia Terranova nel suo nuovo romanzo, Quello che so di te. Dieci anni dopo il libro d’esordio, Gli anni al contrario (2015), la scrittrice messinese – finalista del Premio Strega con Addio fantasmi (2018) – torna con una storia familiare a partire dalla quale si, e ci interroga su cosa significhi diventare madre e su cosa questo comporti nella vita e nella psiche di una donna. Nel corso degli undici giorni di internamento in manicomio seguiamo la vicenda della bisnonna della scrittrice, chiamata con uno nome di fantasia Venera. Un periodo che sembrerebbe breve per chi vive “fuori”, ma che per una giovane donna malata è un tempo interminabile, come ci ha raccontato Terranova.

NADIA Quegli undici giorni – voglio sottolineare – per lei potevano costituire un per sempre. Lei non sapeva quando sarebbe uscita, né aveva la certezza che questo sarebbe accaduto. Io immagino, infatti, che lei a un certo punto non conti più i giorni.

CHIARA All’inizio del romanzo, Nadia Terranova si sporge sulla culla della propria figlia appena nata e guardandola si dice che da quel momento in poi c’è una cosa che non può più permettersi: impazzire. La follia appartiene al patrimonio di leggende della sua famiglia, è uno spauracchio familiare che risale alla storia di Venera. La sua vicenda si svolge nella prima metà del secolo scorso, in pieno fascismo, un regime che ha puntato sul controllo delle nascite. All’origine della pazzia di Venera c’è, quindi, anche un clima storico ben preciso.

NADIA Il fascismo, uno dei regimi più mortiferi che ci sono stati nel mondo, era ossessionato dalla crescita della natalità e parallelamente si trovava schiacciato dal senso di morte, perché quei bambini erano destinati alla guerra come soldati del duce. In questa prospettiva, una famiglia che non riesce ad avere figli è trattata come un peso e rappresenta una colpa per la società. A rendere le cose ancor più difficili arriva la pazzia che colpisce Venera, una quasi-madre che per una caduta perde la propria figlia.

CHIARA Tra i temi affrontati c’è anche la condizione delle donne in una società che per loro prevede soltanto due ruoli, complementari e inscindibili, quello di moglie e madre.

NADIA Il libro poteva concludersi con “consegnata al marito”, la frase che io ho trovato nella cartella clinica e che ci dice molto. Come anche l’indicazione all’inizio della scheda “indirizzo di casa della famiglia” o “casa del marito”: perché le donne potevano passare solamente dalla famiglia d’origine alla casa di proprietà del coniuge. Questi dettagli di contorno raccontano in realtà molto della storia e delle persone.

CHIARA Tra le pagine del romanzo si legge in filigrana anche una critica sociale. Terranova racconta che nella clinica dove ha partorito bisognava passare per una scala a chiocciola per nulla agevole per una donna con il pancione. Dobbiamo concludere che questa sia una società che non pensa alle donne?

NADIA Il libro contemporaneo, e forse in assoluto nella storia, che racconta davvero la maternità è “Nato di donna” di Adrienne Rich, pubblicato da Garzanti nel 1976, fuori catalogo per decenni, ripubblicato l’anno scorso da Mondadori con una mia prefazione. Rich individua con chiarezza una distinzione: la maternità come istituzione e la maternità come esperienza. Da questo punto di rottura discende la volontà da parte del femminismo di riappropriarsi della maternità, che fino a quel momento era guardata, dalle femministe stesse, esclusivamente come giogo costrittivo in mano al patriarcato. Anche oggi la strumentalizzazione della maternità come istituzione esiste: quando si fa un “fertility day” incitando le donne a fare figli, ignorando la loro libera volontà e decisione, si ritorna a quel bombardamento mediatico di stampo fascista che la mia bisnonna aveva vissuto.

C’è un personaggio invisibile ma pervasivo nel romanzo che – come ha spiegato la scrittrice stessa – si chiama Mitologia Familiare: quell’insieme di storie e leggende che si tramanda di genitori in figli e che condiziona nel bene e nel male chi ne è depositario. Mitologia Familiare si porta dietro molti non detti e omissioni, la scrittura di questo romanzo prova a dare voce a questo silenzio dando forma a una storia che racconta ai suoi lettori anche quanto ci si può riconoscere nella vicenda personale di chi, pur lontano da noi per tempo e spazio, incredibilmente ci somiglia.

Chiara Evola, studentessa all’Università degli Studi di Palermo


Immagine di copertina
Il tempo, HG Studios

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