RIVISTA DI CULTURA MEDITERRANEA

“Poeta senza parole”, di Marco Angelo Pancino. Intervista all’autore a cura di Nicola De Cilia

Marco Angelo Pancino, classe 1957, già autore del libro di viaggio, Riflessi caraibici (Mare di carta, 2021), in cui, dopo aver attraversato due volte l’Atlantico navigando da solo, esprime le sue osservazioni sul mondo caraibico, esordisce ora nella narrativa con un bel romanzo di ambientazione africana e carceraria, dal titolo Poeta senza parole. Un giovane africano, di cui non conosciamo il nome, chiamato semplicemente “il ragazzo”, mentre è in viaggio viene incarcerato, senza un preciso motivo, e si ritrova in cella insieme ad altri compagni di sventura, che parlano lingue a lui sconosciute. Per far fronte all’angoscia e ritrovare speranza, il giovane comincia a comporre delle poesie. I compagni, incuriositi, vogliono sapere cosa scrive: il ragazzo, impossibilitato a tradurre con le parole, mette in scena, se così si può dire, i suoi versi: tramite una sorta di danza, traduce le poesie. Riceve l’apprezzamento dei suoi compagni facendo crescere così la socialità e la solidarietà, liberandosi infine dalla solitudine e dall’angoscia. Ma non si tratta solo di una conquista personale, perché la poesia diventa occasione di riscatto collettivo. La parola si fa, dunque, strumento di affrancamento, ma anche di ricerca e comprensione. Come scrive Alvaro Barbieri, nella prefazione al testo, Poeta senza parole è «un apologo di forte torsione antropologica che parla di corpi e violenza, di sogni e solidarietà… entro gli spazi angusti dell’ambiente carcerario, ma è soprattutto una meditazione sulla potenza salvatrice e iniziatica della poesia».

Il libro inaugura la collana Linee e aste dell’editore De Bastiani.

Sei un esordiente, nella narrativa: da dove nasce questo desiderio di scrivere?

«Anche se sono un esordiente, c’è comunque un legame col precedente libro che ho scritto, Riflessi caraibici, un libro di viaggio sui Caraibi: già in quella situazione per me era primario lo stile, creare uno strumento espressivo: è vero che la forma è la sostanza. Stavo ancora navigando quando mi è stato chiesto di scrivere degli articoli da parte del Diporto Velico Veneziano, associazione a cui appartengo, che aveva all’epoca una rivista on line. Non sapevo ancora che sarebbero diventati dei capitoli di un libro, ma subito mi sono posto il problema di come scrivere piuttosto di cosa dire, ché quello lo sapevo, avevo un sacco di cose. Non volevo rischiare la banalità del resoconto piatto di un viaggio, per me era necessario creare uno strumento che fosse rivelatore della verità che sta sotto le cose che vedi. Volevo assolutamente evitare di parlare di me stesso, e concentrarmi invece sulle cose che erano attorno a me, che è diverso. Quando ho finito di scrivere, mi sono reso conto di voler continuare in questa direzione: ho scritto un altro racconto, ho scritto delle altre cose, e poi un giorno ho avuto questa folgorazione, chiamiamola così, questa idea che non è esattamente l’inizio di questo racconto: è ciò che troviamo a metà libro, in verità, ed è la traduzione in movimenti del corpo – quasi una danza – di un testo poetico per coloro che non possono comprendere la lingua. Quello che ha dato forma fisica a questa idea è stato un giovane, un ragazzo, che presto è diventato africano e mi sono immaginato una scena in cui uno si trova in un contesto linguistico straniero ed esprime così delle poesie. Allora ho provato a dargli un inizio e subito l’idea è stata di ambientarlo in un carcere. Esiste una lunga letteratura, di racconti e film ambientati in carcere, un genere vero e proprio: mi interessava l’ambiente carcerario ma non per farne una denuncia di un problema attuale, ci sono scivolato involontariamente. Il mio protagonista non ha la pretesa di rappresentare la situazione di migliaia di migranti di oggi in condizioni disperate. Assomiglia di più a uno di quei tanti ragazzi che ho visto quand’ero in Africa negli anni ’80, che giravano tra i vari paesi in cerca di fortuna. Ed erano perlopiù gioiosi, mi è capitato spesso di girare insieme a loro, in camion. Infatti quando il ragazzo ricorda il percorso che ha fatto per arrivare fin lì, sono ricordi reali che io ho trascritto, cose che ho vissuto quando ero in Congo, allora Zaire». 

Cosa ci eri andato a fare?

«L’anno prima, parliamo degli anni ’80, ero andato come volontario in una missione comboniana, in Repubblica Centrafricana, avevo terminato l’università, avevo 28 anni, ero sempre stato attratto dall’Africa, colpa di certa letteratura, l’Africa come la navigazione a vela. Al mattino lavoravo con i comboniani, ma al pomeriggio ero libero e invece di stare a riposare avevo chiesto il permesso di visitare i dintorni del villaggio e andavo a cercare gli accampamenti di pigmei. Ce n’erano alcuni gruppi lì vicino, ma più lontano c’erano i pigmei della foresta, che hanno contatti molto più sporadici col villaggio. Volevo conoscere anche i pigmei dello Zaire, oggi Repubblica Democratica del Congo, così, spinto da una curiosità forse antropologica, ho voluto organizzarmi per tornarci l’anno dopo, per conto mio: mi sono trovato le carte militari francesi, gli appoggi necessari e sono partito. È stata un’esperienza affascinante di viaggio, perlopiù in autostop, dallo Zaire alla Repubblica Democratica del Congo sono 1500 km che ho percorso in 15 giorni. Poi, per tornare a prendere l’aereo, ho preso il battello fluviale lungo l’Ubangi, un immissario del fiume Congo e sono arrivato fino a Kinshasa e sono tornato casa. Una bella esperienza».

Che rapporto c’è tra questa esperienza e il tuo romanzo?

«Non posso dire che nasca da lì, ma il ricordo dell’Africa e il carcere che ho ipotizzato, ché io in carcere per fortuna non ci son mai stato, si sono fuse immediatamente: è stato addirittura con desiderio e piacere che ho potuto riprendere alcune di queste memorie e poter dare loro una collocazione letteraria.

Il romanzo, o racconto lungo se preferisci, è frutto di una sorta di condensazione di eventi, va diluito nella mente e nelle emozioni di chi legge, anche come tempi: quanto dura? Non è esplicitato, può durare qualche settimana, qualche mese: che decida il lettore. C’è molta indeterminatezza, non solo temporale ma anche geografica, perché non vengono specificati i luoghi né da dove viene il ragazzo né dove si svolge la storia. Non c’è neanche un nome proprio, il protagonista è semplicemente “il ragazzo”. È una mia precisa intenzione, questa indeterminatezza, la storia è sì ambientata in Africa ma volevo mantenesse una sua universalità, perché ci sono delle dinamiche sociali che sono semplicemente umane: della prepotenza, della sottomissione, della amicizia, della solidarietà, del crearsi dei gruppi, dell’emancipazione, dell’autostima».

Nel romanzo, stabilisci una connessione molto stretta tra corpo e poesia.

«Certamente, il motore principale di questa storia è la necessità di tradurre il significato della poesia con messe in scena corporali. I compagni all’interno della cella chiedono al ragazzo di leggere le poesie che scrive, non le capiscono ma ne percepiscono i suoni: della poesia colgono il significante nel suo puro valore musicale, lo afferrano e lo continuano costruendo su questo ritmi e canzoni. Quando poi gli chiedono cosa significhi, lui prima prova semplicemente a spiegarsi a gesti ma vede che non funziona, gesti prosaici, capisce quindi che deve immergersi nella poesia e farla divenire un nuovo linguaggio, coreutico. La danza esprime da una parte il significato della poesia, la musica il significante, e si reincontrano a creare una forma espressiva nuova che è coinvolgente, collettiva». 

La poesia come fonte di liberazione, il ragazzo tramite la poesia acquista la libertà.

«Infatti, almeno una forma di libertà, in un certo senso sociale: da quando viene apprezzato, all’interno della cella non è più solo, ha gli amici, che addirittura lo aiutano materialmente. La cella con la sua dimensione soffocante esaspera le condizioni già presenti nella società». 

Ti sei documentato sul carcere?

«Ho cercato persone che hanno avuto esperienza del carcere, in Africa. Ad ogni modo, questo non è un carcere libico, è un carcere di criminali comuni, o sfortunati, semplicemente, in un immaginario paese in cui comunque c’è molta corruzione e il potere della violenza carceraria esce dal controllo legale». 

Il tuo è una sorta di romanzo di formazione, dunque.

«È difficile collocare in un genere preciso questo mio romanzo: indubbiamente c’è il romanzo di formazione, visto che questo ragazzo attraverso questa esperienza sostanzialmente diventa uomo, viene riconosciuto come uomo. Ma c’è anche un po’ la fiaba. Nella fiaba c’è l’aiutante magico e qui è la poesia, che viene non da fuori ma da dentro lui. Mi chiedo se nelle fiabe l’aiutante magico non voglia rappresentare un qualcosa che pur giungendo dall’esterno, in realtà scaturisce dal protagonista stesso. Il ragazzo, qui, oppresso, pressato dall’angoscia dalla paura, dal dolore, dalla solitudine e anche dalla nostalgia, a un certo momento sente scaturire dentro di sé la parola e ci si aggrappa con tutte le sue forze. In qualche modo, questa storia sembra ripercorrere la genesi della poesia in senso universale». 

Il testo è in prosa, però compaiono anche le poesie che il ragazzo scrive durante la detenzione. Sono poesie molto belle, suggestive, dimostrano una notevole “tecnica poetica” da parte tua: da dove nasce?

«All’inizio non pensavo che avrei scritto le poesie, pensavo di limitarmi a dire che il ragazzo le scriveva. Invece la prima poesia è venuta fuori di forza sua, e allora ho pensato che avrei dovuto scriverne altre, forse tre, e poi dire che il ragazzo ne aveva scritte delle altre: invece in quei giorni stavo leggendo Ritratto dell’artista da giovane di James Joyce, in cui il protagonista scrive delle poesie che nel testo compaiono per intero, e allora mi sono detto che non mi potevo limitare a citarle… Alla fine sono diventate sette. Ma credimi, in fondo non ho inventato tanto: a tratti mi pareva di essere come un archeologo che ha trovato una statua sepolta, e allora, piano piano, senza rovinarla, la tira fuori scavando attorno. Ho iniziato il racconto immaginando il ragazzo già in carcere, mentre sta ripensando a quando l’hanno arrestato al mercato. Ho scritto metà della prima pagina e lui aveva già una fisionomia alla quale io non potevo che obbedire, la storia aveva già una sua verità di invenzione e io ho dovuto trovare frase per frase quello che era, come se ci fosse già e io la stessi scoprendo. Quelle poesie andavano scritte ed erano così. Diciamo uno stato di grazia quello che dovevo cercare: infatti non l’ho scritto di getto, ci ho messo un bel po’, sono andato avanti lentamente. Comunque, se le poesie sono belle, è merito del ragazzo, sono sue…». (ride) 

Il tuo è uno stile originale, ma tra gli scrittori, hai qualche punto di riferimento?

«Fra i tanti, davvero tanti, mi viene in mente Giovanni Comisso. Ora, questo libro non ha molte somiglianze con lo stile dell’autore trevigiano, ma Comisso cos’ha di particolare? Ha un linguaggio che sembra strano, che nella sua correttezza non appartiene al suo tempo perfettamente e questa caratteristica ce l’ha anche il mio. Questa stranezza del linguaggio di cosa è fatta? Del rifiuto di ogni formula che sia luogo comune, che sia eccessivamente legato a quest’epoca, che può essere vista come una latente polemica se vogliamo. Nella mia scrittura ricerco una parola che sia fresca, non logorata dall’uso, che abbia ancora un legame col suo significato originario e che non sia anche eccessivamente ristretta nel tempo. Qui uso termini che sono anche un po’ desueti e attingo all’italiano da Boccaccio in poi, qualcosa di manzoniano, ci sono anche i testi sacri, tante cose, parole usate nella loro accezione meno frequente, meno comune. Mi serviva un linguaggio che, tra le altre cose, sapesse essere rivelatore, anche per me». 

Nicola De Cilia, scrittore, critico letterario e docente


Immagine di copertina
Caraibi. Foto di Marco Angelo Pancino

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