Chi è oggi, lo straniero? Chi era straniero, ieri?
Riflettere sulla condizione che ci vede impegnati – ognuno di noi, a vario titolo – a confrontarci con noi stessi e l’altro è più che mai necessità imprescindibile della nostra società e ci suggerisce un viaggio particolare attraverso un filtro particolare, la poesia.
Fare poesia è dare fiato alla condizione e alla stessa esistenza umana, è filtrare, fotografare – occhio ribelle e inquieto che tesse il suo vissuto oscillando tra esterno ed interiorità – analizzare e, soprattutto, sentire situazioni e momenti attraverso la specifica e irripetibile sensibilità e unicità del singolo, forma finale e collante dell’umano sentire, il ritrovare la collettività attraverso i mille spicchi dell’individualità. Non è essenziale capire, nel senso razionale e asettico del termine, non sempre la poesia è e deve essere compresa, quanto, piuttosto “sentita”, come già affermava Benedetto Croce.
Il fiato si fa carne, essenza, sogno concreto, attraverso la parola, chiave assoluta, decodifica misteriosa e mediatrice assolutistica del pensiero, fabbro e artefice antico della fusione di questo con il sentire emotivo e profondo.
Ed è attraverso la Parola/argomento – fil rouge del nostro poetare, così come del nostro pensare – che questi articoli vogliono esistere e darsi un senso, riflettere ed esplodere, dare un senso, un significato, una passione, esclusiva e talora soffocante, sempre totale e magnifica, alla poesia, nella sua maestosa complessità. È misteriosa ed esigente, la poesia, è imprevedibile ed oscura, proprio quando mette in evidenza, illumina e abbaglia le umane contraddizioni, una traduzione – se vogliamo – in parole delle Humanae Passioni vivaldiane, che frustano e avvolgono, sbranano e accarezzano i contrasti, gli splendori e miserie dell’umanità tutta.
Niente come la poesia ci fa scoprire le contraddizioni e gli opposti umani, nulla come la poesia ci fa sentire STRANIERI, in viaggio alla conquista del proprio sé e di quello altrui, viaggio verso l’ignoto, l’estraneo, lo sconosciuto, viaggio dal sapor dantesco che esplora ogni latitudine e fa del mondo – pericolosamente e pacificamente – il suo dominio.

Lo straniero, dunque, colui che porta in sé il mistero del precipizio sull’orlo del quale siamo costretti a spingerci, l’estraneo di ignota provenienza e ancor più imperscrutabile destinazione, che trascina passioni, sicurezze e speranze in un vortice aspro e inatteso simile ad una rivolta, quasi una abdicazione, del proprio sé conosciuto.
“Nella notte ho viaggiato / ascoltando il vuoto / straniero a me stesso / su terra battuta / incrostata di idee / e di paure”
(da “Straniero” di Monica Buffagni, in “Piume di ghiaccio” – Kanaga edizioni)
L’incipit della lirica racchiude in sé il nucleo centrale dello smarrimento esistenziale proprio di colui che affronta il periglioso viaggio verso l’ignoto, sia esso un Paese altro, sia un percorso umano, sia una sfida al consueto, sia l’incontro imprevisto con il diverso da sé, un alter ego che richiama il lato ombra celato e temuto all’interno del proprio essere. L’estraniamento dalla identità conosciuta, quasi un vortice inafferrabile dove si dissolvono le coordinate del proprio esistere, si scontra con il velo obnubilante, aspro e di impulsivo vigore, della paura, bandiera e roccia difesa della umana fragilità alla proustiana ricerca della sicurezza perduta.
Unica àncora nell’oceano, la parola, la parola come comunicazione, forza devastante e ricostruente insieme, potere di creazione e distruzione, spirito vitale e ribelle che nomina e conferisce corpo e identità, dignità e diritti:
“Ho avuto sete di parole / rosse, verdi e blu come l’inferno / Ho avuto fame di parole / pesanti come pietre di fiume / piume sottili come spuma di neve / che accarezzano, graffiano, uccidono”
scrive ancora l’autrice (Monica Buffagni, “Piume di ghiaccio” – Kanaga ed.), sottolineando nell’asprezza del travaglio – condizione umana collettiva che si fa individuale nel rapporto tra sé e l’altro – l’assoluta, ancestrale, invincibile necessità di denominare il mondo, di dargli forma e realtà attraverso il potere creativo della parola, urlo primitivo che plasma quanto sta intorno attraverso l’interiorità. Riconosce e distingue, vede oltre il guardare, la parola, ridefinisce i confini e li modella, conferisce visibilità all’altro, nella incessante e ineludibile rincorsa e ricerca del proprio esistere nello sguardo dell’altro.

Lo ribadisce anche Judicael Ouango nel suo “Tuio”, dove il tema del riconoscimento diventa centro della narrazione e l’incontro, spesso negato, impedito, respinto, diviene motore e senso ultimo del tratto di vita tra terra di origine e terra altra, tra il noto e l’ignoto, tra una consueta e rassicurante visione di sé e la scoperta, inquieta, contrastata, incompresa, di un altro sé da ridefinire.
“(…) parole mute che non so dire / lame silenziose al risveglio del cielo”
(ancora Monica Buffagni – “Piume di ghiaccio”), lame sferzanti che, se negate, se dimenticate, se abbandonate, se non riconosciute, sono frecce acute e dolenti.
“Le parole, se lontane, hanno una terra / attigua ad un astro più alto / Le parole, se vicine / sono esilio”
dice Mahmud Darwish (da “Murale” – Epoche ed. e “Diversa come te” di Monica Buffagni – Kanaga ed.), sottolineando nuovamente il potere creativo di questi pennelli dell’anima, la loro contraddizione apparente, il multiforme splendore e le infinite declinazioni dell’essere umano, quindi straniero alla ricerca del sé più profondo. Come ignorare lo stretto legame, non solo tra parola / identità / riconoscimento, non solo tra linguaggio / lingua / relazione, ma anche e soprattutto tra il sé e l’altro che implica il concetto stesso di “straniero”?
“Ogni volta che ho cercato me stesso / ho trovato gli altri / Ogni volta che li ho cercati, / in loro non ho trovato che me stesso straniero”
(suggestione personale di alcune parole nella musicalità della lingua araba: وجدت/كل مرة أبحث فيها عن نف س آخرين /), da M. Darwish “Murale” – Epoche ed., tagliente e pungente affermazione che, nella sua essenzialità, riporta il nostro poetare al suo nucleo fondante di relazione tra le diverse componenti, portatrici, prima ancora che di connotati culturali, di contenuti comuni e collettivi di matrice umana.
Possiamo dunque affermare che lo straniero è per sua natura portatore di duplicità, di connessioni transculturali, in cui la reciprocità di apporto è motore e sostegno del rapporto, sia esso interno che, più esplicitamente, rivolto all’esterno e a diverse realtà culturali. L’esplorare la parola – concetto attraverso la poesia ci consente un viaggio inedito e sorprendente della migrazione, come momento umano e storico da decodificare attraverso la nostra individualità.
Monica Buffagni, poetessa, scrittrice e critica letteraria
Immagine di copertina
Migranti (Freepik)
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