Paul Weller
Estragon, Bologna – 10 settembre 2017
I più lo chiamano ancora “Modfather”, ma nel corso di una carriera che quest’anno compie quarant’anni mr. John William Weller ha fatto l’impossibile per divincolarsi dalle etichette e affermare una libertà espressiva spiazzante. E se quest’ultima, ennesima tournée rivendica senza pudore il sacrosanto diritto all’autocelebrazione predicato dalle ricorrenze rotonde, è pur vero che la sontuosa scaletta sciorinata all’Estragon di Bologna in quasi tre ore racconta di un artista curioso e ambizioso, poco incline alla nostalgia e men che meno a crogiolarsi su (numerosi e luminosi) allori. Risicate ma doverose, quindi, le concessioni ai Jam e agli Style Council: nel primo caso, l’immarcescibile stop&go di Start, Monday acustica e A Town Called Malice assestata come un uppercut micidiale in un terzo, imprevedibile encore, quando il pubblico satollo sta già sfollando; nel secondo, altri tre instant classics (My Ever Changing Moods, Have You Ever Had It Blue e Shout To The Top) incidono il conciso ma efficacissimo amarcord della leggendaria, miracolosa sintesi tra soul bianco, acid jazz e sofisticatissimo pop d’autore. Ma poi si guarda avanti, che Paul Weller ha più vite di un gatto. E quindi via libera alla carriera solista, in un’altalena tra passato e presente che interseca una generosa selezione estrapolata dai primi due album (Wild Wood, Above the Clouds e Into Tommorrow, ma soprattutto, dal mai troppo celebrato “Stanley Road”, l’epica di Changing Man e Porcelain Gods, la sorniona fragranza soul di Broken Stones, l’inderogabile You Do Something To Me – stato dell’arte della ballata pianistica welleriana – e una Out of the Sinking che rinasce a nuova vita in formidabile veste unplugged), con numerosi estratti dagli ultimi “Saturns Patterns” e “A Kind Revolution”, quando Paul ha impartito l’ultima, vigorosa sterzata: sfilano a rotta di collo la chiassosa White Sky, la brevità fracassona di Long Time, l’elettronica spigolosa di Saturn Patterns…
Dispiace che abbia quasi completamente trascurato tutto quanto sta nel mezzo, e non è mica poco. “Illumination” e, soprattutto, “As Is Now” sono dischi di sopraffino cantautorato AOR, e qui ci sono solo il pop admantino di Come On /Let’s Go e due numeri da Heavy Soul (Peacock Suit e Friday Street). Soprattutto manca l’avventuroso “22 Dreams”, che nel 2008 rilanciava la sua carriera sotto il segno di una voracità creativa che esplodeva in mille direzioni stilistiche diverse, dall’elettronica al jazz, dal folk alla classica, dalla psichedelia al rap, sfiorando persino “altre musiche” (l’Africa, il tango!). Ma d’altronde questa scaletta, si diceva, evoca la quadratura di un cerchio e la schizofrenica staffetta tra ieri e oggi proclama a viva voce l’interminabile giovinezza artistica di questo signore classe 1958.
Perché Paul, oggi più che mai, appare quasi smanioso di esorcizzare l’incipienza del crepuscolo licenziando insindacabili certificati di modernità. Lo fa pasticciando con l’elettronica più screamadelica, infilando collaborazioni, affidandosi al remix. Cimentandosi sempre con qualcosa di nuovo. Togliendosi lo sfizio di sondare ogni latitudine musicale (è di quest’anno “Jawbone”, la sua prima colonna sonora originale, che associa aggraziati bozzetti di folk westcoastiano a un’intimidatoria ma nondimeno affascinante suite di classica contemporanea lunga oltre 20 minuti). Un uomo inossidabile: domina il palco con la consapevolezza e l’eleganza consumata del veterano, ma è più tonico ed entusiasta del più sbarazzino scavezzacollo. D’altronde, da uno che attacca con una brano che s’intitola “sono dove dovrei essere”, cos’altro ci si può aspettare?
Giovanni di Vincenzo
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