Mi distanziano dalle prime letture di Zanzotto quasi quindici anni di vita, dieci dalla pubblicazione del mio primo libro, una monografia per parole e fotografie dedicata ai suoi versi ultimi.1 Quante volte, da allora, mi sono sentito chiedere da familiari, genti e studenti: “Ma come fai a capire queste poesie?” Forse la prima risposta, ingenua, era da un lato la mia assenza di presunzione nel capirle, o perlomeno nel darne univoca lettura, e dall’altro la giovanile determinazione davanti alla curiosità, alla necessità, di uscire vivo dal loro labirinto di fascinazione.
Ma chi già mai potrebbe
sanar la mente illusa
e trarre ad altra legge
l’ostinato amator de la sua Musa?2
Sulla scorta di enigmatici interrogativi e sulla melodia di suoni familiari spesso interrotti da interferenze infami, nasce un addentramento, ormai proverbiale, nel “Bosco” zanzottiano: cui si può accedere da più parti e in più modi; assai più complesso è uscirvi. È una poesia che attrae gli specialisti, perché al suo interno vi è una stratificazione infinita di sapere, attinto da ogni scienza e arte: dalla linguistica alla psicologia, dall’astronomia al cinema, dal folklore alla geologia.
Una costante tuttavia, attraverso la quale la poesia zanzottiana è universalmente riconosciuta, e riconoscibile, resta la sensibilità sottile in rapporto al paesaggio. Il suo noto “quadrilatero” con capitale a Pieve di Soligo non è variante localistica del ricorso agli Olimpi della grande letteratura: è coscienza, anzi, che l’ómphalos3 di ciascun poeta, di ciascun uomo, è molto più banale di quanto ce lo si figuri: ma, se non lo si osserva con occhi preconcetti, in questa banalità si scopriranno i fiori rari del vivere umano. Si possono sognare metropoli d’oltreoceano o – con lo stesso sentimento, ma con più senso del vero, con più umiltà – vivere le città di papaveri che ogni giugno regala:
La città dei papaveri
così concorde e gloriosa
così di pudori generosa
così limpidamente inimmaginabile
nel suo crescere,
così furtiva fino a ieri e così,
oggi, follemente invasiva…4
Da questi dintorni altoveneti, data la contiguità geografica, è partita ogni mia idea di vita e di poesia: dunque, da qui doveva partire la mia personalissima lettura di Zanzotto. Ecco che, se la sua scrittura era un labirinto, non poteva esserlo solamente per il difficile accesso al surplus variegato di materia amalgamata dal poeta; doveva esservi anche un dato sensibile, paesaggistico, che condizionava alla radice il suo dire. E la familiarità col labirinto cui stavo abituandomi passo dopo passo cominciava a darsi proprio camminando, in compagnia dell’amico Pluto a sondare «rasoterra e rasoombra»5 le tante cal (stradine campestri, meglio se sterrate e zigzaganti) che, a partire dal mio epicentro castellano,6 si snodavano per decine di chilometri – spesso trafitte da passaggi a livello, svincoli, autostrade – su e giù per il sistema collinare altotrevigiano, fino al margine estremamente occidentale del Quartier del Piave.
Con passi liturgici con andirivieni liturgici
distratti rabdomantici come entro al coma solitari
calcoleremo a un press’a poco il disavanzo
verso quelle scheggine, stuzzicadenti
alla mensa della Vecchia di Spade –7
Nella magica e spesso tragica alchimia di lievi tracce e di trafitture, indossare le scarpe da cammino era come salire sul dorso dell’Ippogrifo per planare dentro luoghi minimi cui pertenesse però la grande letteratura, come desiderata fiaba millenaria e come trauma di una sua possibile fine. Perché righe sempre più spesse di grigio, dalle alture più prossime al Soligo, asfaltano ogni fantasia: estirpano il labirinto di fronde, prosciugano le acque che irrorano l’«ammirata, eminente erba di Dolle»8 (Rolle, il luogo più amato, da proteggere da odierni lauzengiers con un ridente senhal), per le necessità di un’etica del consumo che esclude – per suo stesso statuto – la meno consumabile delle merci: l’ars poetica.9 Ma lì, dietro mille lottizzazioni filari rotatorie, ecco il paesaggio rivelatore, di cui conoscevo fin da bambino, in pianura, il volto traumatico (che intanto l’amica Nadia Breda soffriva, e scriveva per cicatrizzare la ferita):10 i palù, campi chiusi sopra acque sorgive. Cattedrali verdi sorte sulle permeabili terre pedemontane, le cui colonne portanti sono querce, salici, pioppi, platani; i cui pavimenti sono gonfi prati verdissimi di «erbete ingatiade strigade», di fiori per «globi di pappi» animati da «lievi voci, api inselvatichite»;11 il cui soffitto è un cielo vibrante di luce od oscurato di grasse nuvole. Dentro i palù è bello perdersi, sporcarsi, ardire un passo per poi arretrare, col giusto rispetto che deve loro il piede forèsto di chi non vi abita a stretto contatto, di chi non ne conosce l’intrinseco disegno di giardino segreto, di vasto labirinto di flora e fauna.
Nei più nascosti recinti dell’acqua il ramo
il vero ramo arriva protendendosi
sempre più verde del suo non-arrivare12
In questo protendersi come di braccio teso, il ramo ostende al poeta la vera natura del farsi stesso della poesia, che Zanzotto ci dimostra, dipingendo in Verso i palù l’atto preverbale – poi verbalizzato nell’atto poetico – dello svolgersi, dello sgomitolarsi continuo di quel senso labirintico che è in seno alla natura e alla realtà mai del tutto sondabile che chiamiamo vita.
Note
1. P. Steffan, Un «giardino di crode disperse». Uno studio di Addio a Ligonàs di Andrea Zanzotto, prefazione di Ricciarda Ricorda, Roma, Aracne, 2012
2. Da Gli sguardi i fatti e senhal, ora in Andrea Zanzotto, Le poesie e prose scelte, a cura di S. Dal Bianco e G. M. Villalta, Milano, Mondadori, 1999, p. 370
3. Letteralmente l’ombelico del mondo, sede di Apollo, originariamente sito al santuario di Delfi in Grecia. Così Zanzotto definisce la “casa-osteria” e lo “slargo” di Ligonàs, a Soligo, nei versi proemiali di Conglomerati
4. Da Meteo, ora in A. Zanzotto, op. cit., p. 831
5. Da Il Galateo in Bosco, ora in ivi, p. 606
6. Castello Roganzuolo è uno degli ultimi lembi collinari del Trevigiano verso il confine col Friuli, circa 20 km a est di Pieve di Soligo
7. Da Il Galateo in Bosco, ora in A. Zanzotto, op. cit., p. 563
8. Da La Beltà, ora in ivi, p. 331
9. Cfr. una lucidissima replica di Pier Paolo Pasolini a Enzo Biagi, nel programma Rai del 1972 III B: facciamo l’appello: «Non possiamo parlare in realtà di poesia come di merce […]: ma produco una merce che è in realtà inconsumabile. […] Morirò io, morirà il mio editore, moriremo tutti noi, morirà tutta la nostra società, morirà il capitalismo, ma la poesia rimarrà inconsumata».
10. Cfr. N. Breda, Bibo. Dalla palude ai cementi, Roma, Cisu, 2010
11. Da Meteo, ora in A. Zanzotto, op. cit., p. 821 («erbette arruffate stregate») e p. 827
12. A. Zanzotto, Sovrimpressioni, Milano, Mondadori, 2001, p. 11
Foto di copertina
Nel labirinto verde di campi chiusi e acque dei palù del Quartier del Piave, foto di © Paolo Steffan
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Paolo Steffan è nato nel 1988. In poesia ha pubblicato le raccolte In deserto (Arcipelago Itaca, 2018) e Frantumi (Quattordicesimo quaderno di poesia italiana, a cura di Franco Buffoni, Marcos y Marcos, 2019). Ha inoltre lavorato a una trilogia sulla poesia contemporanea, con monografie su Andrea Zanzotto (2012), Luciano Cecchinel (2016) e Edith Bruck (in corso di pubblicazione). Con Giuliano Galletti ha curato i volumi Sebastiano Barozzi e la sua Cronaca del popolo (2016) e Germoglia il silenzio. Vita di Giocondo Pillonetto (2020). Nel 2019 ha vinto il premio italo-russo Raduga per la narrativa breve.
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