MUSICA COSMOGONICA E THEATRUM PHONOSOPHICUM
Intervista a Leopoldo Siano sul suo recente libro
Musica cosmogonica. Von der Barockzeit bis heute,
Königshausen & Neumann: Würzburg 2021
di Hildegard Fassbinder
HF Quali sono stati i motivi che ti hanno spinto a scrivere questo nuovo tuo libro, Musica cosmogonica. Dall’epoca barocca ad oggi?
LS I motivi bisogna cercarli nel pozzo profondo del passato, che vanno al di là di noi come individui. In realtà mi occupo da sempre di questo tema. Sebbene la maggior parte della mia vita finora l’abbia trascorsa altrove, a Roma e poi oltralpe, sono nato nel sud d’Italia, vicino al mare, proprio di fronte a Capri. E il movimento delle onde, il fragore delle acque – di cui mi rimane vivo il ricordo dalla primissima infanzia – è un’immagine sonora del mondo primordiale (Urwelt). Questioni filosofico-religiose hanno costantemente accompagnato le mie passioni musicali. Dunque le mie origini, che affondano nella Magna Grecia, e la conseguente vicinanza genetica ai filosofi presocratici quali Parmenide o Empedocle, hanno di certo giocato un qualche ruolo. In fondo vi è un segreto legame tra l’antico pensiero presocratico e la Naturphilosophie della cultura tedesca (da Goethe a Novalis e a Nietzsche) che poi in seguito doveva segnarmi.
Prima di questo grosso volume, ne avevi scritti già altri su temi affini…
Sì, questo libro è da considerare come la parte terza di una sorta di “trilogia” sul tema “suono e cosmo”, una trilogia che ho capito di aver scritto soltanto a posteriori. Dieci anni or sono scrissi un libro su KLANG (Suono), l’ultimo ciclo di Karlheinz Stockhausen, musica astronica per le 24 ore del giorno. Un libro che nasce anche come risposta alla mia frequentazione dei corsi di Kürten, dunque al contatto diretto con la personalità magnetica di Stockhausen. Il successivo libro nasce altrettanto in seguito ad un’esperienza assai personale, dall’amicizia col grande Maestro dell’azionismo viennese: Tra armonia delle sfere e rumore primordiale. La musica di Hermann Nitsch (Lezioni napoletane) (Edizioni Morra, Napoli 2018).
E invece l’ultimo libro, Musica cosmogonica, non è dedicato ad una singola figura, ma è piuttosto un viaggio (non-cronologico) attraverso la storia della musica occidentale degli ultimi secoli, compiuto in una particolare prospettiva, quella della creazione del mondo appunto.
Sì, è giusto. Però devo ammettere che la scintilla ultima o, come si suol dire, la goccia che ha fatto traboccare il vaso, portandolo al parto, la si deve all’esperienza della musica di Jean-Claude Eloy, la cui amicizia mi ha altrettanto segnato. Eloy è un compositore cosmogonico par excellence. Questo mio libro mi è dunque stato ispirato non soltanto dalla lettura degli scritti di Marius Schneider, ma anche da una serie di compositori a me cari, i quali nelle loro opere si sono confrontati con il Creativo in sé che è il suono: oltre ai già citati Stockhausen, Nitsch e Eloy, menzionerei qui anche Richard Wagner, Gustav Mahler, Anton Bruckner e Giacinto Scelsi.
Visto che hai menzionato Marius Schneider, potremmo soffermarci su di lui.
Marius Schneider, “ufficialmente”, fu un etnomusicologo, ma in fondo era molto di più: un filosofo della musica. Da giovane aveva studiato a Parigi pianoforte con Alfred Cortot e composizione con Maurice Ravel. Ebbe una vita non facile. Dopo aver lavorato a Berlino col maestro Curt Sachs, negli anni Quaranta – siccome era inviso al regime nazista – dovette trasferirsi in Spagna, dove lavorò all’Università di Barcellona. Dalla metà degli anni Cinquanta poté fare ritorno in Germania. Insegnò per lungo tempo all’Istituto Musicologico dell’Università di Colonia, lo stesso luogo dove mi sono trovato ad insegnare io da più di un decennio. Strane sincronicità… Mai lo avrei immaginato, quando da studente scoprii per la prima volta i suoi scritti, in una libreria dell’usato a Roma. Fu un incontro fatale. Non con Schneider in persona (che è morto un mese prima che io nascessi), ma con l’aura della sua opera. Purtroppo Schneider è più noto all’estero che in Germania. I tedeschi di oggi, soprattutto in ambito accademico, lo rifiutano…
Perché mai?
È arduo da spiegare in breve… In primis per il rapporto ambiguo che, a detta di alcuni, ebbe con il regime nazionalsocialista; però si dimentica che furono proprio i nazisti ad ostacolare la sua carriera accademica, cosicché Schneider fu costretto a lavorare per un decennio in Spagna… E poi la sua opera sfugge alle categorizzazioni: questo disturba la mente scientistico-specialista. Schneider praticò una sorta di archeologia musicale cercando di ricostruire – sulla base di frammenti sparsi – la visione unitaria che l’uomo arcaico aveva del cosmo. Tutta la sua ricostruzione, a mio avviso, ha da essere considerata come “opera imaginifica” – più come “costruzione” che “ri-costruzione”. Essa consiste nell’esaltare affinità archetipiche nel sistema di pensiero di differenti tradizioni antiche. Schneider costruisce e costruisce, infine per dire ciò che aveva comunque già riconosciuto intuitivamente da lungo tempo, non soltanto grazie ai suoi studi sui testi ma a esperienze dirette con musicisti tradizionali – soprattutto in Africa (con i Duala e i tamburini del Marocco): cioè che il suono è origine e materia prima, essenza di ogni cosa.
E infatti il leitmotiv degli scritti di Schneider è che il mondo non è nient’altro che suono rappreso, “musica pietrificata”.
Esatto. Schneider si è occupato tutta la vita di miti cosmogonici. Ogni cultura ha i propri racconti sull’inizio del mondo che valgono come miti fondatori, miti par excellence. Attraverso l’analisi minuziosa di innumerevoli racconti sull’origine Schneider ha instancabilmente cercato di mostrare come nella coscienza mitica dell’umanità la nascita del mondo sia sempre connessa al suono, all’acusticità… Però il lavoro di Schneider rimane “speculativo”, nel senso più alto della parola: musica come speculum mundi, come “specchio del mondo”. È un approccio assai affascinante, che mi ha ispirato in maniera enorme. Tuttavia a me interessa molto anche il lato sensuale delle cose. Schneider nei suoi studi parla principalmente di miti e concezioni arcaiche, ma quasi mai di opere musicali concrete. Io ho fatto proprio questo. Ho cercato di utilizzare il lavoro di Schneider come punto di partenza teorico per occuparmi di composizioni musicali ispirate da cosmogonie. Vi sono comunque anche opere che non sono state esplicitamente ispirate da miti della Creazione, ma che nella loro gestualità sono tuttavia cosmogoniche – o per lo meno interpretabili come tali.
Il tuo libro ha a che fare primariamente con la “cosmogonia”, non con la “cosmologia”. Qual è la differenza tra i due termini?
La cosmologia riguarda uno “stato”, ovvero il cosmo così com’è. Mentre la cosmogonia riguarda il processo del divenire del cosmo, a partire dalla sua origine.
Perché la tua trattazione comincia con l’epoca barocca escludendo opere anteriori?
Semplicemente perché l’esempio più antico di musica (programmaticamente) cosmogonica che sono riuscito a trovare risale al 1737: Le Cahos di Jean-Féry Rebel, primo movimento della suite orchestrale Les élémens, un pezzo che comincia con un aggregato armonico di 7 suoni adiacenti (do# – re – mi – fa – sol – la – si bemolle), ciò che oggi chiameremmo “cluster”. Un gesto scioccante ancora per le orecchie odierne, figuriamoci per gli ascoltatori dell’epoca! Esso doveva rappresentare la mescolanza caotica degli elementi primordiali (acqua, terra, fuoco e aria) che poi a poco a poco nel processo della creazione vengono separati e ordinati. La fonte principale di Rebel era la cosmogonia così come viene illustrata nelle Metamorfosi di Ovidio.
Ma perché compositori precedenti a Rebel non hanno osato comporre la “nascita del mondo”?
Forse non ne sentivano il bisogno… o non avevano il coraggio di occuparsi di una questione così “scabrosa”, di gettar segretamente lo sguardo nel “ventre materno” della Creazione. Quasi un atto blasfemo… Soltanto dopo le rivoluzioni cosmologiche di Copernico e Giordano Bruno gli uomini, dunque gli artisti, hanno cominciato a osservare il cosmo – ergo: se stessi nel cosmo – in maniera differente, più disinvolta, e ad essere più arditi. Non abbiamo più la contemplazione di un perfetto “ordine del mondo”, di un cosmo sferico chiuso in sé, come ancora evocato nella musica di Johann Sebastian Bach… Nel mio libro mi occupo, come si diceva, di opere cosmogoniche, non “cosmologiche”, dunque del processo della creazione. Per rappresentare mediante i suoni un tale processo era necessaria una concezione drammatica, teatrale, della musica che prima del Seicento non esisteva ancora.
Il libro consta di 10 capitoli preceduti da una corposa introduzione di più di cinquanta pagine. Avendo sotto mano l’indice, vorrei percorrere a volo d’uccello l’intero libro insieme a te. Ecco la struttura generale:
Introduzione
1. Il mito ebraico
2. Rappresentazioni sonore del caos
3. Le acque primordiali
4. Visioni musicali della nascita del mondo dallo spirito dell’India antica
5. Sinfonia come cosmo – compositore come demiurgo
6. I miti dell’astrofisica
7. Risveglio di primavera (suono e sacrificio)
8. Cosmogonie dall’Africa e dall’America
9. Né inizio né fine (sull’eterno ritorno)
10. In principio è il silenzio
L’introduzione ruota attorno a temi di teoria della musica, di “musica speculativa”, di cosmologia (il mito dell’armonia delle sfere ecc.), di metafisica, in un panorama storico-antropologico molto ampio. Offro tra l’altro una particolare interpretazione di The Unanswered Question di Charles Ives dal punto di vista della Seinsphilosophie, e inoltre della serie degli armonici in chiave cosmogonica. Nel primo capitolo (“Il mito ebraico”) si discute l’esempio di musica cosmogonica più classico, nel vero senso della parola: La Creazione di Haydn. Nel secondo capitolo (“Rappresentazioni sonore del caos primordiale”) si affrontano diversi concetti di caos (come “disordine”, ma anche come “concavità”, “abisso”, come “vuoto”) e i vari archetipi sonori utilizzati nel corso dei secoli da compositori quali Rebel, Rameau, Beethoven, Bruckner, Strauss, fino a Cowell, Messiaen, Crumb e Radulescu.
Il terzo capitolo è dedicato alle “acque primordiali” che si trovano praticamente in quasi tutti i miti creazionali. Ad un certo punto dal profondo di queste acque avvolte di oscurità emerge un “qualcosa”: una montagna, un uovo, un sole, un essere, un ritmo, un alito, un canto… In questo capitolo vengono analizzati il Preludio de L’Oro del Reno di Wagner e il Montags-Gruss di Stockhausen, che è l’inizio del ciclo Licht. Sebbene Stockhausen detestasse Wagner, anche lui – attingendo al pozzo senza fondo dell’inconscio collettivo – comincia il suo epico ciclo con le acque all’inizio del tutto. Questo capitolo è stato ispirato non poco dalle ricerche di Alfred Tomatis sull’ascolto prenatale e da alcune riflessioni filosofiche di Peter Sloterdijk a proposito.
Nel quarto capitolo (“Visioni musicali della nascita del mondo dallo spirito dall’antica India”), si parla in maniera ancor più approfondita delle ricerche di Schneider sulla teologia del suono nelle scritture sanscrite. Sebbene l’idea dell’essenza sonora del mondo sia diffusa in tutte le parti del globo, lʼIndia sembra essere la terra dove più si è speculato sulla potenza cosmogonica e magica del suono. (Non è un caso che per la sua incompiuta Kosmogonie il punto di partenza di Schneider sia stato proprio lo studio degli antichi testi indiani, dai Veda ai Brahmana alle Upanishad). In questo capitolo, raccogliendo delle felici intuizioni di Thomas Mann, indago principalmente il Preludio del Tristan wagneriano in prospettiva cosmogonica, cosa che di primo acchito ad alcuni potrebbe risultare balzana. Ma ci sono dei passi di lettere in cui Wagner dice chiaramente come questo preludio sia nato sotto la diretta suggestione di visioni cosmogoniche buddhiste mediate dalla lettura di Schopenhauer. E poi nello stesso capitolo mi dedico a composizioni di ispirazione tantrica quali Kâmakalâ, À l’Approche du Feu Méditant… e Anâhata di Jean-Claude Eloy, che – come accennato – è il dedicatario del libro.
Nel quinto capitolo (“Sinfonia come cosmo – compositore come demiurgo”), partendo sempre da riflessioni su concezioni mitologiche – dal Rigveda al Timeo di Platone fino allo gnosticismo –, discuto la Terza Sinfonia di Mahler e gli schizzi per la incompiuta Universe Symphony di Charles Ives.
Il sesto capitolo è sul “mito” del cosiddetto big bang. Sta a dire che anche le più moderne teorie astrofisiche vengono qui discusse quali “racconti mitici”. Poiché in fondo è solo la terminologia ad essere diversa; determinate strutture della mente che interpretano il divenire del mondo rimangono sempre le stesse. Numerosi compositori del secondo Novecento sono stati ispirati dall’astrofisica; in questo capitolo vengono discusse opere quali Ylem di Stockhausen, Kosmos di Peter Eötvös, La création du monde di Bernard Parmegiani, la Nona Sinfonia di Hermann Nitsch.
Mentre nel settimo capitolo, “Il risveglio della natura (suono e sacrificio)”, affronto Le sacre du printemps di Stravinsky e il Prélude à l’après-midi d’un faune di Debussy, nell’ottavo capitolo parlo di opere quali La création du monde di Darius Milhaud e Popul Vuh di Alberto Ginastera, ispirate rispettivamente da miti creazionali dell’Africa e dell’America.
Il nono capitolo (“Né inizio né fine”), riguarda l’idea dell’eterno ritorno. Partendo dalle aporie di Nietzsche e dalla concezione ciclica del tempo nelle culture arcaiche, si discutono i vari tentativi di una musica circolare o perenne. Gli esempi spaziano da Ma fin est mon commencement di Machaut a Tout par comas suy composés di Baude Cordier, per poi seguire le tracce dell’idea in Stockhausen, Feldman, Crumb, Ligeti, La Monte Young eccetera.
Il decimo e ultimo capitolo (“In principio è il silenzio”) porta in epigrafe una frase di R. Murray Schafer, il padre degli studi sul “paesaggio sonoro”: “All research into sound must conclude with silence”. Questo capitolo si collega circolarmente all’introduzione ed è, a mio avviso, uno dei più importanti del libro; ma anche il più sperimentale. La sua conclusione è una sorta di dissolvimento poetico. Prende avvio discutendo la cosmogonia gnostica di Valentino, in cui all’inizio sono Abisso (Bythos) e la sua sposa Silenzio (Sige). Poi si ha una sorta di dialogo immaginario tra John Cage e Martin Heidegger. La “questione dell’essere” posta da Heidegger e la “questione del silenzio” posta da Cage si rivelano come una stessa e unica domanda. Il silenzio è il presupposto per ogni atto creativo. È lo spazio in cui ogni cosa può eventuarsi. Come l‘opera d’arte anche il mondo (che come lo definì Nietzsche è “un’opera d’arte autogenerantesi”) nasce in ogni istante, dal silenzio.
Come proseguirai le tue ricerche dopo aver pubblicato questo volume?
Quest’ultimo libro per me rappresenta una sorta di summa delle riflessioni filosofico-musicali da me sviluppate fino ad ora. Riflessioni fondate su certe esperienze col suono, non solo su ricerche erudite ed astratti ragionamenti. Perciò questo libro rappresenta per me anche una “svolta” dal punto di vista esistenziale. Dopo averlo terminato (già nell’estate 2019) ho avvertito che cominciava una nuova fase della mia vita. V’è da dire che sento in maniera sempre più acuta la mia estraneità rispetto agli ambienti accademici. Negli ultimi anni ha avuto luogo un lento processo di “liberazione”, per sfuggire alla tenaglia della chiacchiera musicologica, spesso mortalmente noiosa. La parola “musicologia” in realtà non mi è mai piaciuta. (Lo stesso Luigi Rognoni la considerava alla stregua di una parolaccia). A meno che non si voglia considerare la “musicologia” in senso originario, così come fa Hermann Hesse ne Il Giuoco delle perle di vetro. Una volta Walter Wiora giustamente disse che la vera musicologia non è quella “scienza della musica” nata in epoca positivistica (“Musikwissenschaft”), bensì la più antica delle discipline: le sue radici sono pitagoriche. Non sta a me rammentare che ancora nel Medioevo la musica fosse parte del quadrivium, accanto ad aritmetica, geometria e astronomia… Mentre il musicologo moderno è soprattutto interessato ad aspetti filologici, analitici ed estetici, il compito del phonosopho (seppur su una base filologico-analitico-estetica) è primariamente filosofico, sta a dire: ontologico.
E infatti dall’estate 2019, quando hai finito di scrivere questo libro, ti sei concentrato sempre di più sul theatrum phonosophicum. Potresti spiegarci in breve che cos’è?
Il theatrum phonosophicum è un progetto di vita, nato insieme a Shushan Hyusnunts. È il teatro della phonosophia… “Phonosophia” è un termine che adoperiamo da più di un decennio oramai come sostituto di “musicologia”. La phonosophia è una via di conoscenza attraverso il suono. Ad un certo momento scoprimmo che il termine phonosophia era già stato utilizzato in epoca barocca, quale neologismo, dal padre gesuita Athanasius Kircher, grande e bizzarro erudito, tipico del suo tempo… L’ascolto, come esperienza dell’essere, è il fulcro nevralgico della phonosophia: l’ascolto in senso lato, in senso molto ampio, come ascolto sinestetico del mondo, del tutto in perenne movimento, della polifonia degli eventi nello spazio.
Ma in che senso adoperate la parola “theatrum”?
Nell’età barocca la parola theatrum sta ad indicare una visione generale di una disciplina, la rappresentazione di un sapere. A partire dalla metà del secolo sedicesimo il termine theatrum fungerà da titolo per una mole sterminata di volumi. Non v’è campo dello scibile che possa sottrarsi alla teatralità: v’è il theatrum botanicum e il theatrum historicum, il theatrum anatomicum e il theatrum machinarum, il theatrum amoris e il theatrum chemicum, il theatrum memoriae, il theatrum instrumentorum e persino il theatrum fungorum… (Quest’ultimo sarebbe tanto piaciuto a John Cage!). Furono trattati di carattere enciclopedico, con l’aspirazione a mostrare spettacolarmente la summa del sapere accumulato in una certa disciplina. L’universo stesso viene messo in scena.
Il theatrum phonosophicum è dunque uno strumento filosofico…
Certamente. Laddove la filosofia è però intesa nell’etimo: come “amore per la sapienza”; e inoltre: filosofia come “arte della coscienza”, come “tecnica pratica dell’esistere”, dell’esserci, intensamente. Uno strumento filosofico, di autodisciplina e condivisione creativa… Avendo avvertito sempre di più i limiti di un lavoro puramente teorico-speculativo (che pur rimane nobilissimo e necessario), è sorto il bisogno di un pendant azionistico, da praticare con tutti i sensi e con l’istinto, di un sapere vissuto, al di là della parola che definisce. Bisogna avere pur sempre un riferimento sonoro che bilanci l’attività speculativa… Qualsivoglia argomento può essere scandagliato, approfondito, financo analizzato, anche con mezzi non verbali. A che vi serve una filosofia, dice Elémire Zolla, “se non la potete scolpire, cantare e danzare? A che vi serve scolpire, cantare, danzare, se così facendo non imparate a conoscere gli archetipi del reale?”. Da qui è nata l’idea delle azioni e “install’Azioni” sonore, coadiuvate pure da una serie di podcasts “radiofonici”, dunque del theatrum phonosophicum. Negli ultimi tempi cerchiamo di non fare più delle mere “lectures”, bensì delle “lecture-performances”, con una dimensione rituale. Non si vuole soltanto parlare di un tema, bensì di farlo esperire immediatamente agli spettatori. Una “lezione performativa” non vuole soltanto “in-formare”, trasmettere un contenuto, bensì un’esperienza, una forma; essa vuole innanzitutto “trans-formare”… Sempre di più ci piace la frase di John Cage: “I like it better when something is being done than when something is being said”.
Archivio online con alcune produzioni del theatrum phonosophicum: https://soundcloud.com/you/sets
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