Mar de Molada (2025) è un documentario di Marco Segato che segue il progetto teatrale omonimo di Marco Paolini, andato in scena in quattro tappe lungo il corso dei fiumi, dalla Marmolada all’Adriatico. Nel documentario il viaggio inizia sorvolando il fiume Piave tra le Prealpi Bellunesi. La morbida ripresa aerea, sulle dolci note del compositore Giovanni Frison che diventano accompagnamento tematico in tutto il film, attesta immediatamente l’elemento idrico quale grande protagonista. È visibile fin da subito anche una diga, a specificare che probabilmente il vero fulcro è il rapporto tra l’acqua e l’uomo. Il sottotitolo conferma: Storie di crode, rive, grave, palù, arzeri, valli, idrovore, acqua e tera tra Venezia e Piave.
Segato collabora con Paolini e con la casa di produzione Jolefilm (Francesco Bonsembiante, Lorenza Poletto, Michela Signori) da molti anni. I progetti cinematografici dell’ultimo trilustre sono molto diversi. Dal teatro filmato, con la regia video de Il sergente (2007) tratto da Mario Rigoni Stern, alla fiction con La pelle dell’orso (2016) e alla televisione con La fabbrica del Mondo (2022), fino al documentario. Segato ama sperimentare generi diversi, passando da una tipologia spettacolare all’altra. Peculiarità che lo accomuna naturalmente a Paolini: quello che fa può essere tradotto di volta in volta per il cinema, per la TV, per la sala o direttamente per l’home video. Si tratta di una reciproca conoscenza sviluppatasi di progetto in progetto, mettendo in opera ogni volta una sorta di prototipo per vedere fino a dove ci si può spingere. Segato evidenzia che alcuni esperimenti a volte funzionano, altre volte funzionano meno, altre volte ancora si punta su qualcosa che funziona ma si cerca di cambiarla. In Mar de Molada il tentativo più stimolante per il regista è quello di non ripetere cose già fatte, provando un punto di vista più laterale rispetto al racconto teatrale di Paolini. Quindi vendendolo più giù dal palco, sbirciando con una certa prossimità ciò che avviene prima dello spettacolo. L’idea del documentario nasce dalla condivisione, dalla vicinanza sui progetti che porta i due autori a conoscersi, a parlarne fin da quando nascono. Segato sa del progetto teatrale in via di realizzazione, conosce il tema e si interroga sulla possibilità di documentarlo. Ma come? Oltre allo scambio di proposte, per cercare di capire la strada da intraprendere, spesso è possibile partire sulla fiducia, senza un’idea troppo chiusa. Mano a mano che si va avanti comincia a formarsi un’idea, in un processo di collaborazione sinergica.
Un documentario su un progetto teatrale, più che sullo spettacolo stesso, non va necessariamente preparato. La scrittura del soggetto e del trattamento ha finalità prettamente organizzativa: al di là del produttore, qualsiasi istituzione ha bisogno di previsualizzare il progetto per poterlo finanziare. Si costruisce così l’idea a tavolino, senza sapere quanto sarà possibile rimanere fedeli. In questo caso, l’idea di massima è quella di seguire lo spettacolo ma allo stesso tempo di documentare la fase di incontri con i vari personaggi, con gli esperti e in occasione dei sopralluoghi. L’obiettivo è quello di riuscire ad integrare il racconto del territorio, del paesaggio, del tema dell’acqua, trovando il modo di equilibrarlo con il metaracconto che Paolini avrebbe portato sul palcoscenico. Montando insieme linguaggio cinematografico e linguaggio teatrale, legandoli fin da subito con la chiave del processo artistico. Ovvero l’idea che questo tema dell’acqua non ti venga raccontato sul palco ma cominci a essere seminato fin dalle prove con i musicisti, dalle prime letture che Paolini fa con i collaboratori e con gli autori. In qualche maniera, anche lo spettatore segue un processo che, gradualmente, lo porta sempre più dentro al racconto. Per questo motivo il regista si può permettere di arrivare allo spettacolo solamente in chiusura del documentario, raccontandone cinque minuti perché le premesse di quel racconto le ha già seminate lungo il percorso, mostrandole durante le prove, inserendo una voce off oppure rubando un ragionamento esposto guardando in macchina. In questo senso la costruzione narrativa non viene concepita a monte, appunto non vi è un accurato lavoro di preparazione. La conoscenza reciproca consente ad entrambi gli autori di partire senza dover gettare delle basi, dei ponti. Sanno come lavorano, sanno dove vogliono andare, c’è una vicinanza e una conoscenza approfondita sul tema (come detto, Segato è stato autore nella trasmissione Rai La fabbrica del Mondo). Esiste quindi una componente di consapevolezza, di narrazione che permette di partire con serenità. Il lavoro di scrittura più complesso è in realtà quello che viene fatto al montaggio, in una sorta di rovesciamento. Non scrivere e poi filmare ma filmare e poi scrivere su quello che si ha raccolto: un’operazione di riciclo, cercando di creare da qualcosa che c’è già. Ovviamente non è così banale perché, giorno dopo giorno di riprese, nella testa del regista cominciano a unirsi le linee, i puntini, prende forma la consapevolezza di cosa serve e cosa non serve. Il giorno dopo Segato sa cosa è venuto bene il giorno prima e quindi cerca qualcosa che possa dare respiro a quel tipo di situazione o di racconto. Oppure capisce che non è necessario filmare un elemento già reiterato. Insomma, un work in progress dove il regista coordina un gruppo minimo (la troupe è di quattro persone) su quello che si intende raccogliere, che sembra più o meno interessante.

Fiumi e alberi
Nei primi minuti del film, dialogando con l’idrologo Andrea Rinaldo, Paolini affronta l’affascinante concetto dell’universalità di comportamento nel mondo naturale. Viene citata la geometria frattale di Benoît Mandelbrot, ovvero la teoria che tutti gli oggetti naturali sono “sistemi”, formati da molte parti distinte, articolate tra loro, e che la dimensione frattale descrive un aspetto di questa regola di articolazione (Mandelbrot 1987, p. 17). Nel saggio Les objets fractals (1975, edizione rivista dall’autore nel 1987), ciò che Mandelbrot afferma sul conto delle coste oceaniche può essere applicato altrettanto bene alle sponde di un fiume. Al netto delle variazioni naturali, dovute al vento e alle maree per le prime e alla permeabilità del suolo e alla pioggia per le seconde, i sistemi fluviali possiedono aspetti molto sistematici, quasi a mimare i percorsi seguiti dall’acqua su un terreno accidentato dopo un acquazzone (Mandelbrot 1987, pp. 113-114). Considerando coste e sponde come figure geometriche, emerge un ordine soggiacente nella loro irregolarità, un medesimo meccanismo generativo tanto dei minuti dettagli quanto dei caratteri globali. Si può vedere questo meccanismo come una specie di cascata, o meglio come un fuoco d’artificio a stadi successivi, in cui ogni stadio genera dettagli più piccoli dello stadio che lo ha preceduto. Ogni pezzetto di costa o sponda è dunque omotetica al tutto (Mandelbrot 1987, p. 26-27). Viaggiando in autostrada, aiutato dalla nebbia tra gli alberi spogli, Paolini vede fiumi come fossero fotografie bidimensionali. Ricostruisce il corso del Piave tracciando un suo disegno dall’alto, che sintetizza una sorta di mappa fluviale e la rappresentazione scientifica di un albero. Fiumi e alberi crescono verso l’alto, tracciando ramificazioni con traiettorie che si allontanano e si avvicinano in modo estremamente simile. L’immagine del fiume-albero, che ritorna spesso all’interno del film, diventa in questo senso uno degli elementi visivi su cui Segato costruisce alcuni passaggi narrativi e di montaggio. Paolini ama disegnare, usa la penna, prende appunti, scrive sui quaderni. Questa manualità legata alla scrittura e al disegno è decisamente cinematografica. Lo stesso titolo del film è stato scritto a mano dal protagonista con il suo caratteristico “font”. Il fiume-albero viene assunto ad incipit di un racconto visivo, in cui si sovrappongono le mappe che gradualmente si espandono con lo sviluppo dello spettacolo, per poi diventare quel viaggio aereo ripreso con i droni che quasi ripercorre il segno grafico bidimensionale, visto dall’alto. Si tratta dunque di un racconto prettamente visivo, carico di suggestioni colte da Segato, che parte metaforicamente da un disegno, dall’idea di fiume-albero, e cerca di restituirla mantenendo questo aspetto grafico.
Rinaldo afferma che osservando solamente il disegno non è possibile stabilire se si tratta del Rio delle Amazzoni o del Cordevole. È un sistema che a qualsiasi scala ha il medesimo comportamento. Paolini ne deduce che qualsiasi corso d’acqua riproduce questo sistema ma, anche per questo, è difficile fare un elenco dei fiumi italiani. Un nomignolo diventa importante per identificare un corso d’acqua minore unicamente a livello locale, in un’area estremamente circoscritta. Fuori da quest’area smette di esistere. A differenza dei nomi amministrativi dei Comuni e delle località, nessuno utilizza i fiumi come punti di riferimento per orientarsi. Caorame, Codalunga, Pettorina, Ardo, Marteniga, Tesa, Desedan, Boite, Ansiei, Cordevole, Limana, Rasego, Sil Morto, Soligo, Nerbon: Paolini costruisce un catalogo di idronimi che spesso appartengono più all’immaginario collettivo che ad un sistema vero e proprio. Mar de Molada è un racconto dello spazio che esiste tra le montagne e Venezia, l’area del Veneto, a partire dall’acqua, dalla nomenclatura fluviale, dalla prospettiva del bacino idrografico che non viene studiata a scuola. I nomi di una miriade di minuscoli corsi d’acqua rivendicano una presenza tangibile, soprattutto quando diventano un problema.

Teatro corale e civile
Il primo significato della parola greca χορός (choros) è “danza eseguita insieme”: esibizione non individuale, unita alle voci, unita alla musica. Nell’antica Grecia, fin dal periodo di esplosione culturale della Penteconteteia, il coro è espressione energica di corpi che si muovono, recitano e cantano all’unisono, suscitando emozioni nel pubblico. Il documentario prosegue entrando nell’intimità della fase preparatoria, mostrando lo stretto rapporto tra corifèo (Paolini) e corèuti, in costante confronto e dialogo durante le prove. Segato è convinto che le prove sono sempre una delle parti più interessanti da filmare. Le persone sono spesso concentrate su qualcos’altro e quindi la camera può riprendere restando un passo indietro e riuscendo a catturare delle situazioni che sono più vere di altre. La persona che parla in camera durante un’intervista è consapevole che qualcuno la guarderà e ascolterà quello che dice, quindi c’è sempre la costruzione di un pensiero. Al contrario, durante le prove, spesso anche fisiche e dove l’istintualità è predominante, questo muro è più sottile e a volte penetrabile.
Verso la metà degli anni Novanta, in fase di messa a punto del suo Racconto del Vajont, Paolini ha esaminato il concetto di teatro civile. Il teatro civile è anfibio: nasce e respira fuori dall’edificio teatrale, risponde al bisogno di superare le modalità produttive e distributive, oltre alle censure implicite, del sistema teatrale, il quale non viene rinnegato ma integrato ad altre possibilità e modalità di comunicazione. In sostanza è un work in progress, un percorso sempre in divenire,che cresce e si affina grazie al confronto diretto con il pubblico. Si pone come gesto militante, che trova il suo senso più autentico nel vivo del tessuto sociale, dove se ne sente la necessità e l’urgenza, là dove il conflitto – esplicito o latente – deve trovare espressione e linguaggio. Chi fa teatro civile vuole porsi allo stesso livello degli spettatori, non è uno specialista, un tecnico o un esperto. Nel caso del Vajont come in Mar de Molada, Paolini non è ingegnere o geologo ma uno di noi, un cittadino comune che si è appassionato a un problema, che si è informato e che vuole condividere con il pubblico il proprio sapere, accumulato con pazienza e trasformato in storia, in racconto-spettacolo. Non interpreta dunque un personaggio, ma sale in scena in quanto individuo, come cittadino che ha a cuore l’ethos collettivo. La sua legittimazione, la sua credibilità si fondano proprio sul metterci la faccia e sulla relazione che riesce ad instaurare con il pubblico, che misura la sua verità. Teatro di narrazione (definizione che evidenzia una caratteristica formale)e teatro civile (definizione che riguarda i contenuti e un certo rapporto con il pubblico) non possono essere sinonimi, tuttavia la loro genesi è strettamente intrecciata. In gioco è il nesso tra memoria individuale e memoria collettiva, tra esperienza personale e Storia, è l’equilibrio che cerca di ricostruire il teatro civile, riattivando la consapevolezza individuale per poter condividere un sentimento collettivo, appunto civile. In un teatro dominato dalla regia e dall’immagine, ovvero da un uso dell’attore nel primo caso funzionale ad una progettualità esterna e da un utilizzo formalistico e iconico del corpo dell’attore, alcuni autori-attori come Paolini hanno sentito la necessità di riscattare la parola e la figura stessa dell’attore, l’elemento indispensabile, insieme allo spettatore, dell’evento teatrale. Si avverte anche l’esigenza di ristabilire un rapporto diretto con il pubblico, al di là di ogni filtro intellettualistico, recuperando una forma di comunicazione immediata come quella del racconto. Fondamentale è il recupero della lezione di un maestro come Dario Fo, con i suoi spettacoli militanti (per l’aspetto civile), e con il monologo Mistero buffo (per la forma e il lavoro dell’attore). Anche Fo, come molti narratori, fissa il testo dello spettacolo alla fine del processo creativo, quando è già stato rodato e aggiustato dal confronto con il pubblico. Certo, è meno costoso produrre e far girare un monologo, gli assoli sono molto flessibili e si possono replicare ovunque (nelle piazze e nei circoli culturali, negli appartamenti e negli stadi, nei palazzetti dello sport e nelle stazioni ferroviarie, nelle fabbriche dismesse, ecc.). Ma c’è qualcosa di più a sostenere il teatro civile. Questi spettacoli essenziali incontrano l’interesse del pubblico e dei media perché riflettono un bisogno profondo e diffuso di narrazione, di storie e di Storia, di verità, di identità (Biacchessi 2010, pp. 11-19).
L’idea di coralità in Mar de Molada emerge a partire dalla preparazione. Paolini fornisce continuamente degli spunti (ad esempio i 2000 nomi che compongono la rete idraulica veneta), che diventano materiale da elaborare collettivamente e portano talvolta all’assegnazione di ruoli, funzioni, peso all’interno del mosaico corale. Si tratta di un collage, in cui vengono amalgamate documentazione tecnico-scientifica, fonti regionali per tutto ciò che riguarda l’assetto idrogeologico (in primis Arpav), conversazioni con persone che a vario titolo si sono occupate di acqua. Vi è poi una collaborazione artistica in scena, ad esempio con la cantautrice Patrizia Laquidara (il canto che accompagna il racconto), con la quale Paolini condivide un percorso creativo, con i musicisti di supporto, con un coro di narratori popolari. Quest’ultimo è di fatto un coro greco, costruito insieme sull’esperienza precedente di Vajont, allargato a professionisti e cittadini veneti che hanno partecipato attivamente alla preparazione dello spettacolo. Oltre la narrazione, i brani musicali e i cori, si svolgono anche conversazioni con scienziati e tecnici che raccontano alcuni aspetti della vita del Piave e degli altri fiumi veneti, mettendole in relazione alla nostra. Secondo Segato il carattere corale viene scelto per esplicitare una chiamata, una dichiarazione di intenti al fine di rendere il tema necessario a chiunque. Una presa di coscienza da non delegare alle istituzioni, alla politica, ma da far propria. In questo senso il coro è una perfetta metafora anche da un punto di vista cinematografico perché unisce questa estemporaneità del “corista per caso”, non consapevole quanto l’attore ma non per questo meno volenteroso, ad uno dei temi centrali dello spettacolo. Nel documentario sono presenti molteplici elementi come questo, che pongono in connessione cinema e teatro, tema e concetto, gesto e cosa quel gesto può racchiudere.

Acqua indomabile
La preparazione dello spettacolo dà l’impressione di una materia grezza da plasmare, in qualche modo di acqua da governare. In un altro poetico passaggio all’interno del documentario, sulle immagini del Piave la voce off di Paolini racconta che, per compensare la perdita del paesaggio intorno a sé, l’autore ha sempre rivolto il proprio sguardo verso l’alto, alle montagne, che ha raggiunto ogni volta che ha potuto perché “non occorre chiedere il permesso per andare in montagna”. Aggiunge che non ha guardato con la stessa attenzione i fiumi. Hic et nunc, nel momento in cui l’acqua diventa preziosa, in cui non si può dare per scontata la sua presenza dodici mesi all’anno, diventa ancora più importante conoscere questo elemento. Il carattere selvatico del fiume Piave, e in misura meno invasiva anche quello del Brenta, è stato trasformato e domato nel corso di quattro secoli per preservare la laguna veneziana dal sabion. Il meccanismo attraverso cui l’acqua viene prelevata dal lago Centro Cadore e immessa nelle condotte che rendono il Piave il più importante produttore di energia elettrica in Italia (il 7% di tutta l’energia italiana, il 60% di quella veneta) funziona come un rubinetto, anzi come due rubinetti. I due flussi confluiscono in una galleria che dopo una ventina di chilometri sbocca nel bacino della Val Gallina, alimentando la centrale di Soverzene, la più grande del sistema elettrico plavense nonché la seconda centrale idroelettrica d’Europa. Il 90% dell’acqua viene sottratta al corso naturale del Piave e finisce per confluire in sei grandi bacini lungo duecento chilometri di tubature, canali e gallerie, fino a scaricarsi nel Livenza o nei pressi di Nervesa, dove viene captata dai consorzi e utilizzata per alimentare i canali d’irrigazione (Magno 2010, pp. 51-52). Come evidenziato da Alessandro M. Magno nel suo libro sul Piave, adottato come guida da Riccardo De Cal per il documentario Oltre le rive (2021), questo è un fiume paradossale. Se lungo il suo corso è ridotto al 10 % di quello che era, in compenso può fregiarsi di ben due fonti e due foci. La foce da cui oggi il Piave fluisce in mare ha da poco compiuto trecento anni (è stata tagliata dalla Serenissima nel XVII secolo), mentre la sua bocca storica, quella che si è guadagnato da solo serpeggiando per la pianura ai margini della laguna, è oggi diventata la foce del Sile. Sono stati sempre i veneziani a scambiare un fiume con l’altro per evitare che la laguna venisse interrata (Magno 2010, pp. 13-17). Alla fine del Cinquecento il governo veneziano decide di allontanare le bocche del Piave dalla laguna: il Taglio di Re, lungo quindici chilometri, viene iniziato nel 1565 e finito nel 1579. Ma l’opera idraulica non è risolutiva e si decide di far scaricare il fiume vicino a Santa Margherita, portandolo a formare il Lago della Piave nelle paludi di Eraclea. I lavori del canale, lungo sei chilometri, e di arginatura delle paludi durano 23 anni, dal 1641 al 1664. Nel 1683 una piena rompe gli argini del lago e il Piave si instrada finalmente verso Cortellazzo, nella sua attuale sede, che però subisce un’ultima importante modifica nel 1935 a causa di un’altra piena. Il fiume tira dritto e abbandona la curva a sinistra dando così vita al Mort, ramo abbandonato e trasformato in laguna. Ecco perché la ricerca della foce del Piave è così nebulosa (Magno 2010, pp. 223-224). Dunque 500 anni fa si guardava la laguna di Venezia, la più longeva di tutto il Mediterraneo, in agonia, riempirsi di sabion. Paolini racconta che è stato necessario allontanare i fiumi: la laguna è un polmone, non basta aprire le porte al mare ma occorre chiudere le finestre a Piave e Brenta. Rafforzato dal canto allarmante della Laquidara, sottolinea che le capacità idrauliche dei veneziani nello spostare un fiume non sono in grado di contenere il tentativo del fiume di tornare al suo posto appena può. Duecento anni di disastri, di correzioni ma l’obiettivo alla fine è raggiunto: salvare la laguna, salvare Venezia. Nascono le ville, le campagne in terraferma, il paesaggio. Con gli ultimi soldi della Repubblica vengono costruiti i Murazzi e la linea di conterminazione lagunare. Oggi guardiamo tutto questo come se fosse natura ma in realtà è fatto con il righello. Il Piave non può rimanere ancorato unicamente al mormorio calmo e placido al passaggio o al grido “non passa lo straniero”, come recitano parole e musica della celeberrima Leggenda del Piave, inno provvisorio d’Italia tra il 1943 e il 1946. Il Piave di tutti i giorni, della nostra storia, è un’altra cosa: matrice, sedimentazione sotto il terreno che calpestiamo. Da lì provengono sassi e limo che ritroviamo poi frammentati nella sabbia delle spiagge dell’Adriatico. Lo spazio tra le montagne e il mare è evidentemente molto stretto, denso. In alcune giornate di aria limpida e tersa il fenomeno dello “stravedo” permette di vedere nitidamente le Dolomiti dalla laguna veneziana. La proposta alla base di Mar de Molada è quella di non subire un racconto ma di costruirlo, sceglierlo, focalizzarlo sulla consapevolezza che ogni cosa che facciamo deve dar conto del fatto che tutti viviamo in riva al mare. Quello che viene raccontato da Segato non è il disastro ambientale, le colpe, i colpevoli, i drammi che il tema dell’acqua potrebbe portare con sé. È piuttosto un’azione civile di presa di coscienza, di spinta all’azione, un invito alla partecipazione come elemento centrale del vivere civico.
Possiamo considerare Mar de Molada come seguito di VajontS 23. Quella è una storia già scritta, accaduta 60 anni fa in una piccola valle di montagna. Oggi la fragilità del territorio veneto è legata allo smaltimento delle acque quando ce ne sono troppe e all’approvvigionamento delle acque quando ce ne sono poche. Le criticità legate al riscaldamento climatico, al consumo del suolo, allo spazio ridotto sono ormai evidenti. Il progetto teatrale è stato concepito come una carovana, che ha toccato alcuni luoghi significativi, fermandosi e allestendo spettacoli campestri in orario diurno (alla mattina in alta montagna e di pomeriggio nelle altre location). È partita dai piedi della Marmolada, sulle rive del torrente Pettorina (prati di Malga Ciapela a Rocca Pietore, Belluno), per scendere fino al punto in cui il Cordevole sta per buttarsi nel Piave, sotto la Certosa di Vedana (prati di San Gottardo, Sospirolo, Belluno). Poi più sotto seguendo il Piave, appena a monte delle Grave del Montello e vicino al ponte di Vidor (prati ae Barche, Pederobba, Treviso). E ancora più giù spingendosi sulla riva dell’Adriatico, nell’oasi naturalistica di Vallevecchia (Caorle, Venezia), detta anche Brussa, probabilmente l’ultimo pezzo di costa veneta agricola dove si legge ancora un paesaggio diverso da quello turistico. I luoghi toccati da questo itinerario diventano così simbolici. In un momento centrale nel documentario e a ridosso della seconda tappa, Paolini cammina nell’alveo del Cordevole, con pochissima acqua, e parla della tempesta Boris, un vasto sistema ciclonico che sul finire di settembre 2024 si è spostato dall’Europa nord-orientale alla nostra Penisola. Aggirando le Alpi e attingendo l’aria calda dell’Adriatico, la tempesta ha scaricato tutto sull’Emilia-Romagna, sopra Faenza, sul Lamone e i suoi affluenti. Tra il 17 e il 19 settembre 2024 sulla Romagna e sulla provincia di Bologna sono state osservate precipitazioni record con accumuli nelle 48 ore di oltre 300 mm sull’Appennino romagnolo e di oltre 200 mm sulla pianura e sulla costa. Guardando in macchina e interrogando così direttamente gli spettatori, Paolini si chiede come sia possibile parlare di fiumi senza considerare i disastri naturali in aumento. Nel 2024 sono stati registrati circa 2000 eventi climatici estremi (alluvioni, frane, ondate di calore, nubifragi, tornado, grandinate). In un altro passaggio toccante, sulle immagini delle montagne innevate, le parole di Paolini riportano al 3 luglio 2022 ed evocano il rumore infernale della slavina provocata dal distacco di un seracco sul ghiacciaio della Marmolada. 26000 tonnellate di materia sono cadute a 300 chilometri orari, travolgendo 20 alpinisti. 11 morti, 7 feriti, 1 sopravvissuto quasi illeso. Lo spettacolo va a toccare luoghi precisi della memoria, li evoca, sfiora corde emozionali condivise. Anche se nel luogo della prima tappa il ghiacciaio non è visibile, Paolini chiede a tutte le persone coinvolte nella messa in scena di sentire quel ghiaccio. La prima tappa si svolge tra il ghiacciaio della Marmolada e i Serrai di Sottoguda, dove nell’ottobre 2018 l’uragano Vaia ha travolto milioni di alberi. Segato afferma che oggi tutti noi abbiamo a disposizione le informazioni necessarie per avere una piena consapevolezza di quello che succede. Il problema è che magari non vogliamo avere questa consapevolezza perché abbiamo tante altre questioni quotidiane che si frappongono tra noi e tutto il resto. In un periodo così difficile la consapevolezza dei problemi non è condizione sufficiente a portarci ad una presa di coscienza proattiva. Anzi, spesso è una presa di coscienza passiva, che genera ulteriore distacco e frustrazione. Sappiamo le cose, sappiamo che vanno sempre peggio ma non sappiamo cosa fare. C’è anche chi propone delle soluzioni, degli interventi. Forse quello che può fare il cinema, il teatro, la cultura in generale è legare queste questioni proprio alla sfera emotiva, in modo da poter fare quel salto tra la consapevolezza e l’azione legandole ad uno stato d’animo, ad una forza, se vogliamo utopistica, ma necessaria.
Stravedo è anche il tempo all’interno dello spettacolo in cui viene data voce agli esperti (idrologi, geologi, il Commissario Straordinario Nazionale per l’emergenza idrica). In questo senso Mar de Molada è la naturale prosecuzione de La fabbrica del Mondo, in quanto approfondisce una simile modalità comunicativa. In quel caso si parlava dell’Agenda 2030, quindi di tutti i temi legati al pensiero di un mondo più sostenibile, per fronteggiare problemi climatici e non solo (nel programma d’azione si parla anche di povertà, ineguaglianza, diritti umani). Dopo La fabbrica del Mondo,Paolini ha cominciato a lavorare sul tema dell’acqua in maniera più precisa e approfondita. Però la modalità da cui si parte è un po’ la stessa, cioè l’idea di mescolare da un punto di vista linguistico generi diversi – l’incontro, l’intervista, il dialogo, il teatro, la musica – per tessere un racconto multidisciplinare. Segato pensa a La fabbrica del Mondo come ad un progetto che cerca di superare la forma esplicativa canonica, trovando una terza via tra il teatro civile e la divulgazione scientifica. L’idea è di fondere queste due modalità di racconto in qualcosa di originale e personale, che non a caso il lavoro di Paolini riassume perfettamente da molti anni.
In un momento in cui l’acqua diventa preziosa, Paolini riassume il senso di Mar de Molada come una maniera di raccontare ciò che sta in superficie (il visibile, il conosciuto) e ciò che circola sotto. Questo duplice registro è riscontrabile anche nel documentario, nelle ampie inquadrature a piombo sui fiumi e nei morbidi movimenti aerei di cui si parlava all’inizio di questo saggio. In altri lavori Segato ha evitato l’uso dei droni per non alimentare un certo abuso dell’uso del mezzo, che ormai vediamo ovunque sia nel cinema che in televisione, ma qui è anche vero che restituire alcuni ragionamenti fatti sulla cartina, sull’identificazione con la mappa, su questa idea del fiume come albero o anche sull’idroelettrico, fornisce una geografia all’immagine aerea visivamente interessante.

Costruzione visiva e sonora
In un’inquadratura significativa, durante una delle tappe, all’improvviso l’immancabile cartellone con il fiume-albero vola via dal palco, a ricordarci che la montagna non è del tutto e non sempre un ambiente ospitale. A livello logistico, la troupe minima che realizza le riprese si muove agilmente, spostandosi con la carovana e seguendo ciò che avviene in ogni allestimento. La leggerezza dell’attrezzatura consente di rimanere nello stesso luogo durante la preparazione e durante gli spettacoli stessi, in uno spazio dove spesso succedono diverse cose simultaneamente. Si ha quindi la possibilità di coglierne l’andamento, la parabola, di capire in quale momento e cosa filmare. In post-produzione si deve poi riuscire a trovare la chiave per legare questi elementi e restituire allo spettatore quella contemporaneità. Più ci sono difficoltà logistiche (il temporale, il vento, ecc.), più questi accadimenti sono influenzati dallo stesso elemento e quindi diventa più semplice raccontarli. Ad esempio, in un momento di vento fortissimo, in qualche maniera il movimento generato tra i capelli, sulla carta, sugli alberi, lega di per sé qualsiasi immagine montata e dunque aiuta a rendere più preciso quel racconto. È una sorta di montaggio naturale e interno alle immagini. Per chi fa il regista ogni intervento naturale è sempre ben visto e ben voluto, al di là delle difficoltà che comporta, sempre superabili. Se il vento entra nel suono del microfono è certamente un problema, ne va della comprensione. Tuttavia fornisce verità a quel momento, così come tante immagini non riuscirebbero a fare con la stessa efficacia.
Il ritmo di Mar de Molada viene spesso spezzato con momenti di sospensione, di attesa, in cui qualcuno si rivolge al fuori campo, riflette guardando il paesaggio. Sono brevi situazioni che aiutano la storia ad andare avanti, che permettono di mettere in campo dei temi che in altro modo sarebbe difficile raccontare ed esplicitare. A Segato non spaventa l’idea di semplificare dei concetti o di utilizzare delle tecniche considerate, forse un po’ a torto, televisive, come ad esempio l’intervista. Il regista apprezza il documentario di osservazione, dove non ci sono interviste e tutto viene filmato come se lo spettatore fosse un voyeur eticamente sostenibile (adora il cinema di Frederick Wiseman). Nello stesso tempo ammira anche Errol Morris, che intervista Robert McNamara sui temi centrali del secolo scorso e lo fa in maniera frontale (The Fog of War, 2003). Segato ha sempre trovato difficile mettere su piani diversi il documentario d’autore e quello più televisivo. Ogni storia che si decide di raccontare chiama anche un genere cinematografico, un tipo di approccio documentaristico, anche rispetto a chi ci si deve rivolgere. Ciò non toglie valore al documentario che partecipa ai festival né al documentario che invece si rivolge ad un pubblico con strumenti meno raffinati, che deve essere aiutato con il racconto. Si tratta di trovare un equilibrio in questo compromesso, evitando soluzioni troppo alte e autoreferenziali ma anche di abbandonarsi ad un approccio molto televisivo, purtroppo oggi molto in voga, in cui tutto viene masticato e risolto rapidamente. Del resto nella riconfigurazione cinematografica attuata dalla prospettiva documentaria, l’importanza di una coscienza estetica, che valichi lo storico e il sociologico, è fondamentale. Il trattamento poetico della realtà investe la riflessione sul cinema: oggi “idea documentaria” significa spesso ricerca linguistica raffinata, lontana ai compositori delle “tele-visioni”, a volte ignota anche agli autori del “cinema di finzione”. L’importante è sapere fuggire dal mero contenutismo per riflettere sul valore estetico delle immagini, sul valore intrinseco di “segni”, sull’immanenza del loro peso interno (Bertozzi 2003, p. 12).

In Mar de Molada assistiamo frequentementealla costruzione delle sonorità nei passaggi musicali dello spettacolo. Paolini si confronta spesso con Marco Duse e Marco De Rossi, esponendo un’idea preliminare di sovrapposizione sonora di diversi elementi: il coro popolare con declamazione “idrosillaba” (per evocare la metrica di un testo poetico antico), la voce eterea di Patrizia Laquidara, la base formata da suoni arcaici (Giovanni Frison usa ad esempio dei sassi). È una trama musicale de tessere insieme, in risonanza con i canti tradizionali di montagna, legati alla vita degli alpini e alle leggende delle Dolomiti. Si tratta ogni volta di provare, mettere in pratica, affinare per raggiungere l’armonia ideale, il perfetto equilibrio. In un altro suggestivo momento di sospensione, dopo un temporale, la Laquidara raccoglie alcune foglie canticchiando dolcemente ed evocando una sorta di ninfa boschiva. Anche nei progetti di Marco Segato l’aspetto sonoro è sempre molto curato. In questo caso il documentario fa sua la presenza musicale: i brani musicali, già innestati nello spettacolo, vengono estratti, quasi a diventare commento sonoro di parti esclusivamente visive. La musica, nata e filmata come accompagnamento teatrale, si intreccia così con un racconto visivo che nello spettacolo non è presente. È uno degli elementi più creativi del film: la capacità di smontare e rimontare piani diversi di cinema e di teatro. Il sonoro funziona molto più del visivo da questo punto di vista, perché, subordinato ma palpitante, accompagna con continuità. Ha una forza di percezione maggiore proprio perché a volte ha un livello di inconsapevolezza più alto rispetto a quello dell’immagine. Dunque è possibile veicolare temi, testi, musiche, stati d’animo in maniera più fluida e omogenea.
L’attrice Marta Dalla Via racconta la particolare modalità preparatoria dello spettacolo, in cui nemmeno Paolini vedeva inizialmente il punto di arrivo. Questo mettere continuamente in prova un’intuizione, in un’esecuzione imperfetta, in una creazione tendenzialmente infinita alla ricerca di una nuova idea, è per l’attrice l’essenza del teatro. Se è finito non c’è il teatro. Nella feconda connessione tra idea teatrale di Paolini e idea documentaria di Segato, vi sono assonanze con l’arte programmata e performativa. Umberto Eco segnala che le qualità dell’arte programmata risiedono nel rapporto tra programma e caso, nella variabilità e nell’ambiguità dell’opera, nella sua provvisorietà, nel ruolo del fruitore (Eco 1984, p. 234). Bruno Sullo sottolinea che nella linea di confine tra arte visiva e teatro esiste un’area grigia in cui si stemperano e si mescolano i caratteri distintivi di entrambi, così da consentire la creazione di una realtà nuova e sintetica che non è affatto una semplice somma di addendi. In quest’area il performer, così come l’installatore e il film-maker, trae elementi di originalità e di autonomia proprio utilizzando strumenti e metodi di entrambe le pratiche confinanti (Fontana, Frangione, Rossini 2015, p. 92). Come sostenuto da Segato, il documentario parte senza una circoscritta idea di scrittura, diventando un racconto e un’osservazione, un punto di vista su quello che avviene. La performance in qualche maniera è un’interpretazione di un pensiero e il tentativo di esplicitarlo con altre forme. La camera fa sicuramente questo ma forse lo fa ancor di più il montaggio, creando assonanze o riletture. L’arte performativa ha quel carattere di imprevedibilità e di traslazione della realtà che il documentario riesce a cogliere. Più del cinema di fiction, che non potrebbe farlo pienamente in quanto costruito e spesso artefatto. Il documentario riesce invece a restituire la verità della performance.

In una recente lettera sul Corriere del Veneto, Francesco Bonsembiante rileva con entusiasmo la crescita del cinema veneto che, a differenza di venti anni fa (quando autori veneti come Mazzacurati, Contarello e Monteleone si trasferivano a Roma per lavorare), oggi vive grazie alla nascita di numerose società di produzione, si nutre di storie locali, coinvolge maestranze del territorio e si compone di molteplici sguardi originali, tra i quali certamente quello di Marco Segato. Il regista rileva la crescita del cinema veneto ma aggiunge un punto di domanda. Nei quindici anni in cui può dire di fare questo lavoro in maniera professionale, le realtà produttivamente rilevanti sono rimaste più o meno le stesse e sono ancora poche. La Film Commission è partita con molti, troppi anni di ritardo e questo purtroppo ha impedito la formazione di solide strutture produttive, di maestranze che abbiano la possibilità di sostenersi con ciò che viene prodotto in Veneto. Anche ora che la Film Commission è in piena attività, spesso arrivano ad accedere ai fondi produttivi 2-3 film su 20. E questi 2-3 progetti spesso non hanno né un direttore della fotografia né un fonico né un montatore veneti. Questo perché alcune professionalità per lavorare ad alto livello si sono dovute spostare a Roma. È un problema che secondo Segato non è sanabile perché globale. Anche il rapporto delle nuove generazioni con il cinema è decisamente cambiato. Quando Segato studiava cinema, questo era al centro del dibattito culturale. Quando usciva un film importante era ancora un elemento culturale e sociale fondamentale. Con l’avvento di internet e delle piattaforme, lentamente questo spazio è stato eroso: oggi il cinema è diluito, è una delle tante possibilità d’intrattenimento che ci si offre. È sempre più complesso produrre cinema indipendente perché il pubblico della sala non è più sufficiente a sostenerlo. Oggi se non si propone un film che a Roma riescono a capire o interessante per una piattaforma, risulta difficile metterlo in piedi. Ma ci sono anche esempi che vanno nella direzione contraria. La città di pianura del bellunese Francesco Sossai, prodotto da Marta Donzelli e Gregorio Paonessa (Vivo Film) con Rai Cinema e coprodotto con Maze Pictures (Germania), ha recentemente partecipato al Festival di Cannes nella sezione Un certain regard. Si tratta di un ottimo progetto, un film piccolo senza grandi attori, che vive di un’autorialità e un’idea forte di cinema. Sfortunatamente è l’unico caso di film veneto arrivato a Cannes negli ultimi vent’anni. Tutto ciò spinge comunque gli autori veneti come Segato ad essere positivi, a calibrarsi ogni volta su un presente in continua evoluzione. Proprio per negare questo approccio pessimistico, da qualche mese Marco Segato ha aperto con Renzo Carbonera, Andrea Pennacchi e Filippo Zago la Galapagos Produzioni, una nuova casa di produzione dedicata allo sviluppo e alla realizzazione di progetti più legati al territorio ma con un respiro più ampio. E ci sono esperimenti già riusciti, dal teatro di Pennacchi ai video per Propaganda Live, ad alcuni progetti teatrali che porta avanti Carbonera. Insomma, c’è l’idea di fare qualcosa che nasca in Veneto ma che riesca a parlare ad un pubblico più ampio.
Davide Lucatello, critico cinematografico e docente di discipline audiovisive e multimediali

Riferimenti
- Benoît B. Mandelbrot, Gli oggetti frattali. Forma, caso e dimensione (ed. 1987), Einaudi Paperbacks Scienza, Torino 1987.
- Daniele Biacchessi, Teatro civile. Nei luoghi della narrazione e dell’inchiesta, Edizioni Ambiente, Milano 2010.
- Alessandro Marzo Magno, Piave. Cronache di un fiume sacro, Il Saggiatore, Milano 2010.
- Marco Bertozzi (a cura di), L’idea documentaria. Altri sguardi dal cinema italiano, Lindau, Torino 2003.
- Giovanni Fontana, Nicola Frangione, Roberto Rossini (a cura di), Italian Performance Art, Sagep Editori, Monza 2015.
- Umberto Eco, La definizione dell’arte, Garzanti, Milano 1984.
Immagine di copertina
Mar de Molada, spettacolo di Marco Paolini, ph Gianluca Moretto
Le altre immagini sono frame tratti dal film, © Jolefilm
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