Le forme della vita, la vita delle forme
Questa mattina B.V. Doshi è mancato, ai suoi cari e al mondo intero. Voglio ri-cor-dare nel momento della sua morte il suo lascito di vitalità. Lo spirito ha lasciato il corpo ma resterà presente in quanti di noi hanno incrociato il suo sguardo, sono stati accarezzati dalle sue parole ma specialmente rinascerà di continuo in quanti approfondiranno la sua figura e le testimonianze del suo fare. Tanto è stato detto e scritto, ma tanto ancora si scriverà perché Doshi è una sorgente. A lui devo l’approdo a una visione dell’architettura come costruzione d’habitat, teatro di esperienza, spazio vitale e vivente quando pienamente vissuto tra spirito (dei luoghi e del tempo e del sé) e corpo (individuale e collettivo, sociale e ambientale).
Averlo conosciuto e amato è stato un dono per il quale non smetterò di render grazie. Ci siamo incontrati per caso durante il mio primo viaggio in India, ma il caso non viene mai a caso (l’ho raccontato in un articolo pubblicato su Casa Vogue e poi su ArtTribune: https://www.artribune.com/progettazione/architettura/2018/04/balkrishna-vithaldas-doshi-pritzker-prize/). Ci legava un filo incomprensibilmente profondo e solido, irriducibile alla dimensione del maestro, del mentore, del padre, era molto di più, l’unico che sia riuscito veramente ad accarezzarmi l’anima e a cambiare radicalmente il corso della mia vita introducendomi al silenzio interiore e alla meditazione, alla disciplina dell’accettazione e dell’accoglienza. Lui sosteneva che dovevamo essere stati di certo amici in una vita precedente, chissà se eravamo formiche o scimmie o pavoni…
Dopo il primo viaggio del 1993 ne sono seguiti tanti altri, uno l’anno e talvolta anche due, come tante sono state le visite di Doshi in Italia, sempre con qualche membro di una famiglia che mi ha accolto, adottato e di cui mi sento parte. La prima volta attraversammo l’Italia insieme in macchina da Venezia fino in Sicilia, con tappa intermedia a salutare Leo Lionni (alla assonanza sonora dei nostri cognomi devo l’incontro con Doshi) in Toscana, dove aveva casa e quella volta dipingeva il cencio del palio. Poi ci ricongiungemmo con gli altri familiari che avevano fatto tappa a Firenze e Roma, girammo la Sicilia in furgone cantando in gujarati e in siciliano, familiarizzando.
Con il titolo Le forme della vita, la vita delle forme voglio richiamare l’dea che la vita ha forme diverse così come le forme hanno vita diversa e, al tempo stesso, che il lavoro dell’architetto è di dar vita alle forme e forme alla vita, creando spazi in cui la vita possa aver luogo nelle migliori condizioni possibili. Considerato che l’architettura è influenzata dalla vita e influenza la vita (come le ricerche delle neuroscienze confermano) e tenuto conto che l’architettura è l’arte di modificare l’ambiente in funzione dell’abitare, risulta evidente come l’architetto abbia precise responsabilità etiche e sociali, il suo lavoro può condizionare il ben-essere degli individui, della società e dell’ambiente. Di questo era ben consapevole Doshi nella cui opera convergono l’unicità dei luoghi, la pluralità dell’abitare e l’universalità delle forme, come traiettorie concentriche nella consapevolezza che ogni avvenimento innesca cambiamenti vicini o lontani, diretti o indiretti; quindi, il nesso tra caso e causa è più stretto di quel che sembri.
Generalmente dell’architettura si prende in considerazione il risultato visibile, ma il vero risultato non è tanto o solo l’aspetto ma la sua efficacia nelle dinamiche che stanno all’interno e intorno all’architettura. Poco ci si sofferma su virtù, valori e pregi come varietà e pluralità o come l’imprevedibilità, che viene considerata un accidente e un difetto da evitare allo stesso modo del disordine, che è in verità un ordine di cui non è dato comprendere la logica, ciò che non si conosce e talvolta resta sconosciuto e inconoscibile. Non è questa una divagazione, mi riferisco alla capacità di Doshi di accogliere l’adattamento delle sue costruzioni alle esigenze degli abitanti ad opera degli stessi abitanti, un’azione che necessariamente modifica e de-forma l’assetto iniziale. Ebbene, Doshi era orgoglioso che le modifiche rendessero talvolta quasi irriconoscibili le abitazioni di Aranya, un insediamento che è il risultato di un processo progettuale e costruttivo partecipato.
Ricordo quando parlai di lui della sua statura spirituale a Gino Veronelli, che era un grande intellettuale a tutto tondo, con cui non si parlava solo di cibi e vino. Fu proprio a Gino che devo la scoperta del libro Orientalismo di Edward Said, che regalò nuovi occhi ai miei viaggi in oriente mettendo in crisi l’approccio precedente, condizionato da ottiche da occidentale. Mi disse che tutto ciò che aveva a che fare con la sfera religiosa e spirituale non gli apparteneva. Avrei dovuto aspettarmelo da un uomo con i piedi ben radicati in terra che rifiutava dimensioni che non fossero quelle sensibili da raffinato coltivatore del tangibile, della esperienza percepibile, della carezza del gusto. Quella volta mi scrisse:
Le tue parole sia dette sia lette mi inquietano.
Un risultato opposto a quanto ti proponi.
Dio è l’altro, è l’unica completa affermazione di un anarchico.
La strada della eversione non ha alternative.
Il mio sentimento era esattamente opposto, gli parlavo della utilità del pacificarsi in sé stessi e con il Sé, del piacere di godere delle pause e di abitare il silenzio, conseguenze dello stupore provocato dal mio incontro con la malattia e un altro me.
La presenza di Doshi in terra è stata una benedizione divina, un dono, come dice argutamente mia sorella Radhika nel film DOSHI di Premjit Ramachandran del 2008, con varie testimonianze. Nella mia dicevo solo che mi aveva insegnato a essere me stesso. Mi ha aiutato molto con il suo fare amabilmente indagatore, già, perché con lui sembrava di tornare al motto delfico del conosci te stesso tanto caro a Socrate; la conoscenza introspettiva individuale che aiutava ad avviare non eludeva quella sociale e spirituale facendo percepire l’interno un tutt’uno con l’intorno. Parlare con lui era come percorrere scale con gradini di altezza variabile, in su e in giù, un lavoro impegnativo che ti faceva salire in alto, dove ti ritrovavi senza quasi accorgerti, per poi un attimo dopo scendere dentro in basso nel profondo di sé. Doshi era un in-segnante autentico, lasciava un segno dentro, metteva a dimora un seme che cresceva tuo malgrado e poi fioriva e dava frutti. L’insegnamento non era mai per lui esercizio unidirezionale, ma un avanti e indietro con l’interlocutore, interrogava poi rilanciava. Ascoltava e sembrava imparare a sua volta da tutti, cercando acque sconosciute in cui bagnarsi. Dicevi qualcosa e ricevevi immediatamente la soddisfazione di sentirti preso in considerazione da un gigante e al tempo stesso attentamente ascoltato da una persona semplice, diretta, amabile. Dopo una pausa ecco poi che aggiungeva regolarmente “and?” e riprendendo quello che avevi appena detto ti prendeva per mano ti conduceva oltre, lungo una via mai lineare ma sinuosa, curva, circolare, concentrica, a spirale. Era così che l’orizzonte ti si allargava. Praticava l’arte del dialogo con rara maestria, come doveva accadere nella scuola di Atene.
Pur consapevole che non presenza non è assenza, sento subito forte la sua mancanza, ma dato che Doshi coglieva ogni occasione per celebrare, voglio anch’io concludere celebrando la gioia del miracolo che ci è dato vivere, quello spazio vitale che sta tra lo stupore della nascita e l’incanto della morte.
Hari OM tat sat.
Addendum
“Ex-perientia”
Ex-perientia è aggettivo verbale latino derivante da ex-perior (provo, tento) e indica la cognizione ottenuta con l’osservazione diretta, lo studio applicato, il ragionamento sperimentato. È quindi frutto di un esercizio di “lettura praticata”, non passiva, ma legata ad azione. Ciascuno di noi vede selettivamente, in relazione alla conoscenza, all’esperienza, al proprio sentire. Ogni volta che posso mi accompagno ad altri da cui imparo nuovi sguardi. Colleghi, amici, bambini, anziani, alter-abili, super-abili, da tutti ho imparato modi di vedere a me ignoti. A tutti devo qualcosa, ma con alcuni maestri ho un debito incolmabile.
Massimo Cacciari mi ha insegnato a gettare lo sguardo oltre confine, a vedere di ogni bordo la relatività in rapporto alla posizione di chi esperisce un dato limite. Da lui ho appreso la fertilità degli sconfinamenti, quanto il campo del sapere sia hortus (non) conclusus, come tra le discipline corrano vasi ricchi di linfa vitale. Ho infine compreso che quando sguardi allargati e minuziosi non sono in competizione la vista si espande, come nel respiro dove i movimenti di inspirazione/espansione ed espirazione/concentrazione si completano reciprocamente.
Con Manfredo Tafuri ho percorso immobile l’Italia del Rinascimento, gli devo la mia riduzione alla schiavitù di occhio e mente. Mi ha mostrato come si legge un libro di pietra e insegnato che il senso della ricerca è nell’interrogazione, seria e rigorosa, più che nella risposta. Da lui ho imparato la parola immaginata (cioè una descrizione tanto approfondita da generare immagini), la ricomposizione delle tracce, ma specialmente l’interligenza (la capacità di leggere tra le righe) l’importanza di indagare il testo, d’interpretarlo, di tradurlo e così di tradirlo.
Di Alvaro Siza ricordo una giornata trascorsa passeggiando per Venezia ad osservare finestre: l’impaginato di facciata, ma specialmente dettagli e varianti, le soluzioni, gli scuri, i piani di facciata, il rapporto tra davanzali e intonaci, gli infissi,… Siza stava allora lavorando agli esecutivi delle case dal Campo di Marte alla Giudecca oggi in parte costruite. Quella volta ho imparato la concentrazione, lo sguardo selettivo, la messa a fuoco, la profondità di campo, l’estrazione di una parte senza distrazione dall’insieme.
Balkrishna Doshi? tra le tante cose, mi viene in mente una visita a Vicenza e la sua emozione in piazza Castello, davanti a Palazzo Porto di Palladio. Mi fece notare come in generale più della volontà sono le circostanze a determinare gli esiti. Da un frammento potente che si faceva tutto seppur solo in parte, derivava una totalità che era questo e quello insieme. Quell’Architettura celebrava della vita l’imprevedibilità e il suo esser parte di un insieme più vasto. Questo mi è parso di capire quella volta.
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Immagine di copertina
In casa di Doshi ad Ahmedabad insieme alla moglie Kamala a cui la casa è dedicata. Foto ripresa nel giorno del suo Novantesimo compleanno (26 agosto 2017)
La biografia di Doshi è incontenibile in poche righe, chi volesse approfondire troverà vasta letteratura. Da parte nostra segnaliamo quella pubblicata sul sito del Pritzker Price (il più prestigioso premio di architettura, omologo del premio Nobel in campo architettonico, conferitogli nel 2018) insieme al video con la sua lectio magistralis e a una selezione di lavori. https://www.pritzkerprize.com/laureates/balkrishna-doshi
Giovanni Leone è un architetto a tutto tondo, non fa l’architetto di professione e poi nella vita privata è altro, no, perché quello dell’architetto è un tratto identitario che lo pervade in modo totalizzante. Pensa, agisce, sogna e vive da architetto, un mestiere che fa stare con la testa tra le nuvole delle idee e i piedi ben piantati a terra nei fatti. Naviga inquieto tra le polarità umanistica e scientifica del campo del sapere, in quel luogo speciale in cui le idee ingravidano le intenzioni generando esperienza e regalando poesia alla tecnica e scienza all’arte. Vittima dell’epidemia familiare scopre l’architettura come funambolismo tra tecnica e umanesimo, che non si esaurisce nella componente estetica, ma si estende ai tratti letterario-narrativi accorpati nel testo architettonico e urbano, racconto sociale e specchio della comunità.
Al centro preferisce la periferia regno del vuoto e pagina bianca pronta ad accogliere nuova scrittura.
Ha approfondito la natura del vuoto nel corso quadriennale di formazione per insegnanti di Yoga e poi nel Master “Yoga studies. Mente e corpo nelle tradizioni dell’Asia”. Grazie alla frequentazione dell’India (dov’è la sua famiglia indiana d’adozione e il suo guru B.V. Doshi, che lo introduce al silenzio, alla meditazione e allo yoga) approda a una visione dell’architettura come esperienza di costruzione d’habitat, spazio vitale e vivente quando pienamente vissuto tra spirito (dei luoghi e del tempo e del sé) e corpo (individuale e collettivo, sociale e ambientale).
Per dieci anni collabora con le guide dei ristoranti del Gambero Rosso attraversando l’Italia alla ricerca nei luoghi del nesso vitale tra uomo e natura nel territorio. Il diletto lo avvicina al mondo del cibo e del vino (che con l’architettura condividono l’inquieta mobilità tra poetica e tecnica), dove si nutre del sodalizio con maestri come Gino Veronelli, Gualtiero Marchesi, Giacomo Tachis che gl’insegnano il rigore della libertà.
Uomo del sud, esigente, rompiballe, critico e ipercritico, figlio e padre, dilettante di enogastronomia, studente e studioso insaziabile d’arte e di pensiero, lettore e utente, collabora come fiancheggiatore non strutturato con centri di ricerca e di elaborazione del sapere, viandante dei sentieri dello spirito, cittadino del mondo, ma siciliano di Venezia e d’oriente.
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