L’ALTRA ODISSEA.
TUTTE LE DONNE DI ULISSE
MYTHOS, DALL’EPOS AL TEATRO
Un laboratorio Classici Contro
al Museo di Santa Caterina a Treviso (16 aprile 2025)
a cura di
Alberto Camerotto (Università Ca’ Foscari Venezia)

È all’opera Aletheia, il Laboratorio di Ricerca di Letteratura Greca di Ca’ Foscari, in concomitanza col passaggio della Piccola Odissea di Andrea Pennacchi al Teatro Mario Del Monaco a Treviso. Sperimentiamo, alla maniera dei Classici Contro dell’Università Ca’ Foscari, una discussione tra la ricerca e il teatro. Nel laboratorio al Museo di Santa Caterina, dalle 9.00 alle 13.00 del 16 aprile 2025, davanti a un pubblico di duecentotrenta studenti, docenti e cittadini, si alternano ventiquattro interventi, come i canti del poema di Omero, dedicati a tutte le figure femminili dell’Odissea. Per comprendere da un punto di vista differente il pensiero e le azioni di Odisseo/Ulisse, il senso del suo nostos, del suo ritorno in patria, dieci anni di peripezie, di esperienze, di sofferenze. Sono gli archetipi del nostro pensiero. Donne, eroine, dee, demoni e mostri, sono soccorso e pericolo nella vicenda dell’eroe celebre per l’infinito viaggio verso Itaca. Il simbolo della metis, dell’intelligenza e dell’astuzia, dell’esperienza e della sofferenza si trova sempre di fronte a un punto di riferimento al femminile.
Con le voci dei giovani di Aletheia e della ricerca indaghiamo sulle immagini e sui significati di tutte le donne dell’Odissea. Le figure femminili sono simbolo di fedeltà, sapienza, saggezza, generosità, coraggio, responsabilità. Possono essere anche pericolo mortale. Nell’Odissea insieme alla dea Atena, troviamo in azione Elena, Circe, Calipso, Scilla, Cariddi, Ino Leucotea, Nausicaa, Arete, Penelope, Euriclea, Anticlea, Melantó. E altre ancora. Nella discesa agli inferi, l’impresa più difficile, Odisseo incontra tutte le donne più importanti del mito, è il catalogo delle eroine. All’inizio e alla fine di tutto c’è la Musa.
Il progetto, a cura di Alberto Camerotto, Filippomaria Pontani, con la collaborazione di Luigi Spina, Manuela Padovan, Valeria Melis, Katia Barbaresco e di tutto il Laboratorio di Aletheia, è stato realizzato per MYTHOS 2025 HEROES, il Festival di Teatro Classico di Tema Cultura, del Teatro Stabile del Veneto e del Comune di Treviso.
In questo reportage sull’azione del 16 aprile, che abbiamo curato per FINNEGANS, riportiamo per le figure femminili dell’Odissea qualche verso di Omero e un breve estratto dagli interventi di ciascuno dei ventiquattro relatori. Le immagini originali sono tutte tratte dall’azione.

ATENA
I
Riccardo De Pieri
L’IRA DI ATENA
Hom. Od. 1.325-327
A questi l’insigne aedo cantava e loro, in silenzio,
erano seduti, ascoltando. Quello cantava il ritorno degli Achei,
luttuoso, che da Troia aveva stabilito Pallade Atena.
Siamo a Itaca, nella reggia di Odisseo, ma il padrone di casa è assente. Femio, il celebre aedo, riempie con la sua voce il palazzo, a un tempo vuoto e troppo pieno. Canta per i Proci e il tema del canto sono i Nostoi, i ritorni sciagurati degli eroi achei da Troia. L’incipit dell’οἴμη è l’ira della dea Atena, il cui altare sulla rocca troiana è stato violato dallo stupro di Aiace Oileo ai danni di Cassandra. È uno scempio imperdonabile: tutti gli Achei ne pagheranno le conseguenze. Tutti. Anche Odisseo.
Siamo abituati ad attribuire a Poseidone le colpe del naufragio decennale dell’eroe. Lui c’entra, ma subentra solo dopo l’accecamento di Polifemo. L’assenza della dea nelle vicende precedenti è però evidente: non sfugge nemmeno a Odisseo. Giunto naufrago sulle sponde di Itaca glielo farà anche presente, ormai invano. È Atena la causa remota dell’Odissea. È lei la vera protagonista del poema.

II
Marco Menardi
ATHENA ADIUVANS
Hom. Od. 1.48-50
Ma il mio cuore è lacerato per l’intelligente Odisseo,
lui, sventurato, che da tanto tempo, lontano dai suoi, patisce dolore,
in un’isola circondata dalle acque, dove si trova l’ombelico delmmare.
Appena dopo i primi versi memorabili che introducono l’Odissea, c’è scena straordinaria e toccante: la dea Atena piange per Odisseo, un mortale, mentre si confida con il padre Zeus. Questa apprensione della dea nei confronti delle disavventure dell’eroe, chiara fin dall’inizio, presto si trasformerà in azione con i consigli, le trasformazioni di quest’ultimo – in un vecchio mendico o in un giovane prestante a seconda delle necessità – e altri interventi straordinari. Tutte queste azioni, alla fine, aiuteranno Odisseo a superare i momenti pericolosi e gli garantiranno il ritorno.
La volontà di aiutare l’eroe è innata nella dea Atena e potrebbe essere già rivelata dell’etimologia stessa del suo nome. Infatti, c’è chi ha pensato che almeno la seconda parte “-ena” corrisponda ad una variante di Ana, abbreviazione del nome della dea ittita Ḫannaḫanna, divinità legata alla creazione e al mantenimento dell’equilibrio nel cosmo, spesso impegnata ad aiutare gli altri dèi quando si trovano in difficoltà.

III
Camilla Rampi
ATENA, LA DEA DELLA METIS
Atena, dea della tessitura, fila con arte la trama del destino di Odisseo.
Atena decide quando Odisseo non deve più soffrire.
Atena predispone gli strumenti affinché Odisseo torni in patria.
È intelligenza strategica: dea della metis, protegge e difende chi come lei è “attento, perspicace e saggio” (Od. 13.332), proprio come il polymetis Odisseo. Non a caso Atena sarebbe figlia di Zeus e Metis.
Il suo rapporto preferenziale con Odisseo è palese: “mai ho visto un dio voler bene così manifestamente come Pallade Atena stava manifestamente al suo fianco”, dice Nestore a Telemaco (Od. 3.331s.).
Hom. Od. 13.299-301, 303-305
Famosa per accorgimenti e scaltrezza. Nemmeno tu, però,
hai riconosciuto Pallade Atena, figlia di Zeus, che sempre
in ogni tuo impegno ti sono vicina e ti proteggo.
…
E ora di nuovo sono venuta, per ordire con te un accorto progetto,
e per nascondere i beni che gli insigni Feaci ti diedero,
quando partisti verso casa per mio intento e consiglio.
Così la dea stessa si definisce. Ella protegge l’eroe, fisicamente vicina a Odisseo, e, come donna che tesse, ordisce la trama del suo destino: hyphaino (ὑφαίνω) è termine tecnico, quello che Omero userà per l’inganno di Penelope (Od. 24.129). Strumento non è il telaio, bensì la boule e il nous, la volontà e la mente. Ma Atena non è l’unica figura femminile a tramare: insieme alla dea, altre donne intessono la storia di Odisseo.

CALIPSO
IV
Pietro Michieletto
IL CANTO DI CALIPSO
Hom. Od. 5.57.62
Finché arrivò alla grande spelonca, dove abitava
la ninfa dai riccioli belli: la trovò in casa.
Nel focolare ardeva un grande fuoco, si sentiva
per l’isola l’odore del tenero cedro e di tuia che bruciavano:
ella, cantando con leggiadra voce,
muovendosi davanti al telaio, tesseva con una spola d’oro.
Calipso, amante e ammaliatrice, tentazione e oblio: è questo il nome della ninfa che tiene prigioniero Odisseo, trattenendolo per sette anni. Il suo nome deriva da kalyptein, che significa nascondere: infatti è sia colei che si nasconde, poiché l’isola di Ogigia dove vive è lontanissima dalle terre abitate, sia colei che nasconde Odisseo, isolandolo dal resto dell’umanità. È una creatura meravigliosa: viene definita euplòkamos, che significa dalle belle trecce, nonché dia theaon, divina fra le dee. In questi versi è ritratta mentre tesse e canta, due azioni proprie della sfera femminile; ma se la tessitura appartiene alle donne sposate, una donna che canta è per definizione una seduttrice, e rappresenta un’insidia. È dunque una figura dai due volti, l’uno rassicurante, e l’altro ingannevole, e ciò si riflette nel suo rapporto con Odisseo: mentre ne è innamorata, è sua carnefice. È un amore intenso e possessivo, che rappresenta un’evasione da un’esistenza immortale, ma solitaria.

V
Maddalena Anna Salbucci
CALIPSO, IL FASCINO DELL’IMMORTALITÀ
Hom. Od. 5.130-132, 135-136
Ma quest’uomo io lo salvai quando era a cavallo di una chiglia,
da solo, poiché la nave veloce, colpendola col fulgido fulmine,
Zeus gliela spaccò in mezzo al mare colore del vino.
…
Io lo nutrivo, io l’amavo, io fatta gli avevo promessa
che sarà fatto immortale, che immune sarà da vecchiezza.
Calipso ebbe un ruolo centrale nelle sorti di Odisseo, poiché riuscì a trattenerlo per sette anni: è lei a parlare in questi versi, nel momento in cui fu costretta a far partire l’eroe. Con molta sofferenza, la ninfa racconta il suo rapporto con Odisseo: si definisce come la sua salvatrice e sottolinea il grande amore che provò per l’eroe, riportando l’offerta che gli fece, chiedendogli di rimanerle vicino in cambio dell’immortalità. Nonostante la grandiosa proposta, Odisseo rifiutò di rimanere per sempre bello e forte, rifiutò di trascorrere la sua vita con una ninfa meravigliosa in un luogo paradisiaco. A muovere Odisseo verso tale scelta fu la sua umanità: scegliere Calipso e l’immortalità avrebbe significato non rivedere più Penelope, Telemaco, Itaca, lasciando per sempre i suoi affetti e la sua patria. Sono i sentimenti umani ad animare Odisseo, ovvero sentimenti che la ninfa non può capire: è questo aspetto a dividere i due personaggi, che non riuscirono mai a incontrarsi davvero.

INO LEUCOTHEA
VI
Viola Sofia De Sanna
LA DEA BIANCA
Hom. Od. 5.333-335
Lo scorse la figlia di Cadmo, Ino dalle belle caviglie,
Leucotea, che era mortale un tempo, con voce umana,
e ora tra i gorghi del mare ha in sorte onori divini.
Leucothea, la dea bianca, emerge dalla tempesta scatenata da Poseidone e salva Odisseo naufrago dalla persecuzione divina.
La ninfa non ha, al contrario delle altre sue soccorritrici, alcuna relazione con l’eroe. Perché, quindi, lo aiuta?
In quanto divinità protettrice dei marinai, soccorrerlo è la sua prerogativa. Ma non basta. Leucothea era prima Ino, principessa di Tebe, sorella della madre di Dioniso, Semele. A lei Zeus affida il dio bambino, e su di lei Era si accanisce, instillando la follia nella mente del marito Atamante, che tenta di uccidere i figli. Riesce a prendere il più piccolo, Melicerte, e si getta in mare. La salvezza giunge dagli Olimpi, che trasformano Ino in Leucothea e Melicerte in Palemone, patrono dei giochi Istmici. La vita di Ino è segnata irrimediabilmente dall’ira divina.
In apparenza distante da Odisseo, Leucothea è, in realtà, l’unica in grado di comprenderlo profondamente e per questo lo aiuta. Conosce quella disperazione, la sofferenza dell’eroe è stata prima di tutto la sua.

CIRCE
VII
Miriam Bertini
IL CANTO DI CIRCE
Hom. Od. 10.226-28
Amici c’è dentro qualcuno che tesse una grande tela
e canta con voce bellissima che tutt’intorno risuona,
è una donna o forse una dea: facciamoci udire al più presto.
«La natura delle cose ama nascondersi» (Eraclito, Fr. 123B D.-K.). Il frammento eracliteo suggerisce una verità universale: spesso le cose non sono come appaiono, la verità ama nascondersi agli occhi degli spettatori.
Analizzando i versi omerici nella loro formularità è interessante notare come molte figure femminili siano descritte intente in due tipiche azioni riferite all’ambiente domestico, il canto e la tessitura: Arete (Od. 6.303-307), Elena (Il. 3.125-128),Andromaca (Il. 6.490-493), la ninfa Calipso (Od. 5.61-62), Penelope (Od. 2.89-110). Sono, però, proprio queste due “stereotipate azioni” a rappresentare, per molte di loro, i perfetti espedienti sociali dietro ai quali celare facilmente la propria natura.
Anche Circe si mostra impegnata in questi gesti agli imprudenti compagni dell’eroe (Od. 10.220-223) e tali gesta appaiono così suadenti e confortanti da portare gli uomini a mostrarsi alla sua presenza senza avere la minima idea di chi stiano per incontrare (Od. 10.226-228).
La dea nasconde così ai visitatori la propria crudele natura, mostrandosi occupata negli impieghi domestici femminili per eccellenza al solo scopo di ammaliare gli uomini e distrarre il loro animo dalla realtà per tendere loro l’inganno fatale.
Circe, tessendo e cantando, continua a riempire i propri recinti di bestie. Una dea che ha costuito la propria figura di femme fatale sfruttando le convenzioni e gli stereotipi sociali: la natura delle cose, caro Odisseo e caro lettore, ama nascondersi.

VIII
Davide Recci
CIRCE, LA SIGNORA DEGLI ANIMALI
Hom. Od. 10.210-215
Trovarono nella vallata le case di Circe costruite
con pietre squadrate, in un luogo protetto.
Intorno c’erano lupi montani e leoni, che ella
aveva trasformato con dei sortilegi, allorché gli diede filtri maligni.
Essi non assalirono gli uomini, ma
agitando le lunghe code si alzarono.
Odisseo alla corte dei Feaci racconta su Circe pienamente la realtà dei fatti? La dea è davvero maligna? La trasformazione in animali è una rovina? Circe presenta i connotati della “signora degli animali”, circondata da bestie selvatiche che in quel contesto diventano mansuete: la dea rappresenta il confine tra il mondo abituale degli uomini e una realtà altra, dove le belve feroci non assalgono gli uomini, sono come cani domestici che scodinzolano al loro signore umano che porta gli avanzi del pranzo. Le fiere appaiono inquietanti all’eroe, in quanto sono la prima manifestazione di un mondo altro in cui categorie diverse da quelle consuete regolano i rapporti tra i viventi. Non vi è alcun concetto o segnale espresso che rinvii a un referente in sé negativo: gli elementi inquietanti solo relativi alla soggettività interpretante di Odisseo, l’eroe della parola il cui desiderio e la cui prospettiva è anzitutto tornare a casa a Itaca e che interpreta la condizione ferina come il peggior male.

IX
Valeria Melis
LA SAPIENZA DI CIRCE
Hom. Od. 10.548-550
“Non restate più addormentati a gustare il dolce sonno,
ma andiamo: Circe possente me l’ha consigliato”.
Così parlai, e il loro nobile cuore si convinse.
Circe, la maga dai “molti filtri” e dagli “ingannevoli intenti”, è la dea che trasforma gli uomini in animali, ma anche colei che può restituire loro l’umanità, rendendoli migliori. Odisseo le resiste grazie all’aiuto di Hermes e, seguendo le sue istruzioni, riesce a sconfiggerla. Ma Circe rivela presto un’altra qualità: l’onniscienza. Sa chi è il suo ospite ancor prima che parli, conosce il passato e prevede il futuro. Non è più minaccia, ma guida. Dopo un anno, rivela a Odisseo che dovrà scendere nell’Ade e gli insegna il rito per evocare Tiresia. Ormai la sua parola è autorevole verità. Quando l’eroe torna dall’Ade, Circe gli offre nuovi consigli per affrontare Sirene, Scilla, Cariddi e le vacche del Sole. Ma Odisseo e i suoi compagni, essendo umani, sbagliano: disattendono gli avvertimenti e subiscono la punizione. Circe, da figura oscura, diventa luce sapiente. È colei che sa, guida, veglia. La sua voce, prima temuta, ora conduce l’eroe verso la piena consapevolezza del suo destino.

SIRENE
X
Luigi Spina
SIRENE, LE VERE VITTIME
Hom. Od. 12.184-188
Vieni qui, Odisseo da molti lodato, alto vanto di Achei,
falla fermare la nave, a udirla una voce, la nostra.
Oltre non passa nessuno di qui con la nera sua nave,
senza che l’abbia da noi udita una voce di miele;
ma con l’averne piacere ritorna e più cose conosce.
La nave è passata. La perfida Circe aveva insinuato: “Attento alle Sirene: incantano i marinai, che dimenticano il ritorno”. Vero, ma l’incantamento dura solo il tempo del canto. Poi un particolare da film horror: “Intorno al prato mucchi di ossa”. Certo, è una delle isole più pericolose: scogli aguzzi, naufragi sicuri. Lui ci è cascato e ha messo mano a cera e corde. Ascoltava legato: non lo invitavamo mica a fermarsi e dimenticare. Volevamo confermare l’autostima di eroe. Ha cominciato a scalciare; i compagni lo hanno lasciato legato. Lui ha capito che il nostro era un canto di conoscenza. Li vediamo ancora i suoi occhi sbarrati, le vene gonfie, la voce strozzata: “Liberatemi, non sono così pericolose”. Ma ormai è tardi, sono già lontani. Il polytropos è stato beffato. E quindi la racconterà a modo suo, mentendo anche a se stesso. A spese nostre, che solo dopo secoli riusciremo a sfatare un mito di morte. Lo dovremo a Parthenope, quella di Licofrone e quella moderna di Sorrentino.

SCILLA
XI
Rebecca Poles
SCILLA, LA CREATURA MOSTRUOSA
Hom. Od. 12.85-88
Lì dentro abita Scilla, orridamente latrando.
La sua voce è quella di cagna neonata,
ma essa è un mostro funesto: nessuno
gioirebbe vedendola, neppure un dio incontrandola.
Scilla è un male insormontabile. È il mare in tempesta che “strappa” e “lacera” gli eroi mitici di una cultura votata alla terra e costretti a navigare. È un luogo, poiché senza di essa non si può parlare della Trinachia/Trinacria e di quello strano dispositivo geografico che è lo stretto a cui il mostro dà forma, riconoscibilità e memorabilità. È un tempo, in quanto, come oggetto della memoria culturale di un popolo, Scilla ne rappresenta il passato più lontano e, per certi versi, fondante. È un verso disumano, l’orrido latrato che si spande tra le onde da una caverna oscura dalla quale il mostro non si muove mai. È pericolo fisso e ineludibile, perché Scilla non si mostra interamente, sbuca all’improvviso, colpisce con rapidità: tale dimensione invisibile del pericolo accresce il senso di impotenza e chiunque comprende che non è possibile affrontarla direttamente, con coraggio, come farebbe un eroe tradizionale. Odisseo stesso, pur armato e avvertito da Circe, non può fare altro che subire.

XII
Sofia Isabella Mariani
SCILLA, IL CAOS FEMMINILE DEL MARE
Hom. Od. 12.86-87, 98-100
Ma essa è un mostro funesto: nessuno
gioirebbe vedendola, neppure un dio incontrandola.
…
Nessun marinaio si vanta d’essere mai scampato
illeso da lì con la nave: con ogni testa porta via
un uomo, strappato alla nave dalla prora turchina.
Scilla incarna il terrore primordiale dell’ignoto marino: una creatura mostruosa, senza volto umano, che non comunica, non ragiona, non prova pietà. È l’archetipo del “caos al femminile”, simbolo di una femminilità selvaggia e incontrollabile, antitesi della natura materna. È la natura oscura e predatoria, quella forza ancestrale che il mondo greco temeva perché sfuggiva alla logica patriarcale. A differenza di Odisseo, emblema di razionalità e parola, Scilla è istinto, corpo, grido. Nel passo dell’Odissea, ἐξαρπάξασα (exarpàsasa) descrive l’attacco brutale di Scilla: un’azione improvvisa, violenta, irreversibile. Odisseo, pur geniale e astuto, resta impotente di fronte a un male inevitabile, da cui non c’è scampo. Il participio esprime la violenza del destino e la crudezza della perdita, in un contesto dove non esistono scelte giuste, ma solo il male minore da accettare e subire. Scilla incarna proprio questa realtà: una minaccia ineluttabile che impone sacrifici. Ed è in tale impotenza che si rivela la grandezza tragica dell’eroe.

CARIDDI
XIII
Luca Brollo
L’ANCESTRALE FORZA DELLE PROFONDITÀ MARINE
Hom. Od. 12.103-107
“Su di esso, c’è un fico grande, rigoglioso di foglie:
sotto, la divina Cariddi risucchia l’acqua scura.
Tre volte al giorno la sputa in alto, tre volte la risucchia
orrendamente. Che tu non sia lì quando risucchia!
Non potrebbe sottrarti alla rovina neppure il dio che scuote la terra.”
Cariddi risulta essere – pur comparendo in pochi versi – uno dei perigli più gravi che Odisseo debba gestire. Odisseo, l’eroe della μῆτις, non può infatti affrontare Cariddi ma solamente gestirla. Ciò poiché ella non è meramente un mostro bensì incarna l’ancestrale forza delle profondità marine. Cariddi è colei che, coi propri gorghi, causa l’inabissamento di tutte le navi che transitano per lo stretto di Sicilia. La frase con cui Circe la descrive risulta emblematica: “Non potrebbe sottrarti alla rovina neppure il dio che scuote la terra.” Poseidone stesso, il dio enosigeo, nulla può contro una vera e propria forza della natura. Eppure, dopo aver appreso (da autori successivi a Omero) come Cariddi fosse stata in origine una ninfa, viene da chiedersi se ella non avesse conservato il proprio senno e se, memore della punizione subita, non riversasse il proprio livore sulle navi che affondava. L’unica cosa più spaventosa di un’entità capace di annientarci è un’entità desiderosa di farlo.

LE EROINE ALL’ADE
XIV
Filippomaria Pontani
LE EROINE NELL’ADE, E CLITENNESTRA
Hom. Od. 11.427-434
Così non c’è niente di più orribile e di più canino di donna
che tali azioni si ponga nel cuore,
quale fu l’atto ignominioso che ella meditò
tramando morte al suo sposo legittimo. Oh, io credevo
che sarei tornato a casa accolto con gioia dai miei figli
e dai miei servi, ma lei, la prodigiosa maestra di atrocità,
macchiò d’infamia se stessa e le donne che in avvenire
vivranno, perfino coloro che siano oneste.
L’Ade di Omero ha un sapore femminile: dopo Anticlea, quasi in omaggio a tradizioni poi confluite nel Catalogo delle donne di “Esiodo”, l’Ulisse narratore infila una teoria di principesse antiche, note e meno note, per lo più segnate da una tragedia, da un tradimento, da uno stupro, ma pronte a parlarne con un fremito sincero d’emozione. Tiro, Antiope, Alcmena, Epicasta (la nostra Giocasta), Clori, Leda, Ifimedea, perfino Arianna; e poi Fedra, Procri, Mera… Nel buio dell’Ade, raccontano le sofferenze inviate dagli dèi, offrono modelli di comportamento ora giusti e sventurati, ora viziati dalla colpa. Ma la punta di questa climax arriva quando, poco dopo, l’ombra di Agamennone, capo degli Achei, lancia una maledizione eterna sul sesso femminile, ricordando – con quanto più pathos rispetto a Proteo e Menelao nel IV canto – l’offesa patita da colei che sin dai primi versi dell’Odissea funge da “negativo” della vicenda di Itaca: è Clitennestra, “faccia di cagna” ancor più della sorella Elena e della ferina Scilla, a relegare le donne, tutte, per sempre nel regno del sospetto e dell’infamia (aischos). La fame che tormenta il ventre (Od. 7.216), il dolore del perdere i compagni (Od. 20.18): solo a questi mali s’applica il kynteron (“più canino”), solo a questi mali s’apparenta il genere muliebre, in attesa di essere redento, ma chissà quando e chissà come, dall’antidoto scaltro di Penelope.

ELENA
XV
Federica Baratella
ELENA, ROVINA DEI TROIANI E DEGLI ACHEI
Hom. Od. 4.277-281
Tre volte girasti, tastandolo, intorno al cavo agguato
e chiamavi per nome i migliori dei Danai,
rendendo simile la tua voce a quella delle spose di tutti gli Argivi;
e io e il Tidide e il divino Odisseo
seduti tra loro sentimmo come gridavi.
Elena è l’archetipo della bellezza e della moglie infedele. Causa della guerra di Troia e della morte di innumerevoli eroi, alla fine si riappacifica con lo sposo legittimo, Menelao, con il quale torna a Sparta. In un’atmosfera di apparente recuperata serenità familiare, nel quarto canto dell’Odissea è raffigurata mentre intrattiene a banchetto Telemaco, lì giunto per avere notizie del padre. Desiderosa di offrire un’immagine positiva di sé, con una notevole capacità oratoria e persuasiva, narra al giovane che un giorno a Troia solo lei aveva riconosciuto Odisseo, penetrato in incognito in città per spiare il nemico, ma non lo aveva rivelato poiché ormai il suo cuore desiderava ntornare a casa.
Menelao, però, ribatte che, mentre gli Achei erano nascosti nel cavallo, Elena si mise a chiamare per nome ogni eroe imitando la voce della moglie di ciascuno, con l’intento proditorio di farli scoprire. Solo l’intervento di Odisseo salvò la situazione. Nel racconto di Menelao, Elena si conferma, dunque, quale donna funesta, anche se in questo caso la sua arma di distruzione non è la bellezza, ma la voce che, come quella delle Sirene, ammalia e attira rovinosamente a sé chi la ascolta. Altro che pentita, avverte Menelao, eppure il suo rammarico pareva sincero… Ma questa è Elena: ambigua, doppia per natura, traditrice e contrita, croce e delizia per chi ne contempla la bellezza e ne ascolta la voce.

XVI
Federica Leandro
ELENA, SVENTURA DELL’UOMO, GLORIA DELL’EROE
Hom. Od. 4.238-243
Ora sedendo nella sala pensate al banchetto,
e godetevi il racconto; cose adatte vi voglio narrare.
Non tutte, certo, potrò ricordare e ridire,
quante sono le imprese del costante Odisseo;
ma straordinario è questo che fece e sopportò il forte eroe,
in terra di Teucri, dove patirono pene gli Achei.
Sembra una dea mentre fa il suo ingresso nella sala del banchetto. Elena divina, Elena faccia di cane.
Menelao l’ha ripresa con sé, le ha perdonato quei dieci anni di guerra. Ma io potrò mai perdonare? Il padre disperso, la madre nel pianto, la casa assediata, il tempo perduto… ti perdonerò tutto questo, Elena argiva, troiana e poi di nuovo argiva?
Il suo sguardo si fissa nel mio e per un istante vacillo, comprendo la perdizione di Menelao, mentre a lei basta un’occhiata per riconoscere nei miei vent’anni il volto di colui che sto cercando. Dalle sue labbra affiora il nome di Odisseo, nella sua voce riecheggiano le imprese dell’uomo che chiamo padre ma di cui non conservo memoria. La sala si riempie del suo eroismo e dei nostri pianti, e più ascolto Elena raccontare più sento il kleos di Odisseo farsi grande ed eterno.
Così conosco mio padre e comprendo che tu, rovina di Troiani e Achei, sei causa delle sue sofferenze e fonte della sua gloria; e ti ammiro e ti disprezzo, tu che sei origine della guerra, che hai privato me di un padre e dato al mondo un eroe di fama immortale.

ARETE
XVII
Andrea Grigoletto
ARETE, PATRONA DEL NAUFRAGO
Hom. Od. 7.71, 73-77
E dal popolo, che guarda a lei come a un dio
…
Perché davvero non manca anche ella di nobile senno
E a chi vuole bene, anche uomini, scioglie le liti.
Se ella sarà ben disposta nell’animo verso di te
Allora hai speranza di vedere i tuoi cari e tornare
Arete, sovrana amatissima. Ma anche figura enigmatica: è evidente già dal nome. Si chiama così per la sua virtù, dicono certi scolii antichi. Non basta. È colei che è desiderata dai genitori, ma di nuovo non basta. Arete è l’avvocata, chiamata ad aiutare Odisseo. Viene invocata dal naufrago per fare ritorno a casa. È una buona regina e la sua bontà è iperbolica. È associata agli dèi pur non essendolo, e ciò è rischioso. Ma tutti la amano, le si rivolgono come a una dea. Arete è patrona perché è una santa figura. E la sua umana santità si apre a un catalogo di virtù fondamentali. È di nobile senno, acuta osservatrice. E il suo occhio attento è a disposizione della comunità. Avvocata, conosce i problemi e scioglie le liti: è allegoria della Giustizia. La sua intelligenza è al servizio delle persone. Arete è un bell’enigma. È insieme lo specchio di una civiltà ideale e le fondamenta su cui agire per costruirne una reale. Arete è patrona perché non solo aiuta Odisseo, ma anche tutti noi.

NAUSICAA
XVIII
Silvia Bigai
NAUSICAA E LO STRANIERO
Hom. Od. 6.206-208
Ma costui è un infelice, qui arrivato ramingo,
che ora ha bisogno di cure: mendicanti e stranieri
sono mandati da Zeus. Il dono sia piccolo e caro.
Il mio nome è Nausicaa. Sono una principessa di un’isola lontana, lontanissima. E mi sento fortunata, forse un po’ privilegiata, perché sono nata in un Paese che ripudia la guerra. Un giorno, mentre lavavo i panni al fiume con le mie ancelle, all’improvviso ho incontrato uno straniero, un naufrago, un uomo venuto dal mare che aveva un aspetto orrendo. E io l’ho soccorso. Ho insegnato alle mie ancelle e al mio popolo a non temere lo straniero come un nemico, ad accoglierlo come un dono, a riconoscere in lui una tragedia che avrebbe potuto essere la mia. E gli ho donato una delle vesti che avevo lavato per i miei fratelli. Grazie a me Odisseo ha potuto tornare ad Itaca, e rientrare nella Storia. Io gli ho donato i valori civili con cui ricostruire la sua civiltà, ho parlato di pace all’eroe della guerra di Troia, e le mie parole risuonano al vento da ormai più di duemilacinquecento anni. Eppure, chi crede ancora nelle utopie continua a leggere, ascoltare e raccontare la mia storia.

EURICLEA
XIX
Susanna Spolaore
EURICLEA, NUTRICE FEDELE
Hom. Od. 19.467-468, 471-472
Ora la vecchia, toccando la cicatrice con le due mani aperte,
la riconobbe palpandola, e lasciò andare il piede.
…
A lei gioia e angoscia insieme presero il cuore, i suoi occhi
s’empirono di lacrime, la florida voce era stretta.
Sono passati vent’anni. Odisseo approda a Itaca. A casa.
Dopo un tempo infinito si presenta come un mendicante, si inventa un nome e una storia. Viene accolto e, con premura, Penelope gli offre un bagno. Odisseo accetta, ma a una condizione: vuole che a lavargli i piedi sia una vecchia e fedele ancella. La perifrasi è inequivocabile. Odisseo vuole la sua nutrice Euriclea. Non la chiama per nome per non tradirsi, ma non può essere altrimenti.
Odisseo, affidato alle cure della donna, viene riconosciuto. Euriclea vede la cicatrice sulla coscia e non ha dubbi: l’esule che ha davanti è Odisseo. Scioccata, piange. Dolore e gioia le serrano il cuore: sono emozioni di una madre che, dopo vent’anni, vede tornare a casa il figlio che non sperava più di riabbracciare.
Non è stata la sola Penelope a piangere la lontananza del marito. Euriclea ha aspettato, fedele, il figlio che ha cresciuto e allattato come fosse suo. Non condividono lo stesso sangue, ma un legame più potente: quello del latte.

LE ANCELLE
XX
Valeria Falcone
LE VOCI DIMENTICATE, IL DESTINO DELLE ANCELLE
Hom. Od. 22.421-25
Cinquanta donne serve tu hai in casa: ad esse
abbiamo insegnato a fare lavori,
a cardare la lana e a sopportare il peso di schiavitù.
Di queste, dodici in tutto hanno preso la via dell’impudenza,
e non rispettano me e nemmeno Penelope stessa.
Questo episodio dell’Odissea si colloca in uno dei momenti più densi di pathos dell’intero poema: Euriclea, la fedele e anziana nutrice, rivela al suo signore appena tornato che dodici ancelle del palazzo hanno infranto il patto sacro della lealtà verso la casa di Itaca e Penelope.
La loro sorte è già segnata: impiccate per ordine del padrone, colpevoli di aver tradito, o forse soltanto sospettate di esserlo. Odisseo chiama le loro azioni ἀεικέα, “indecorose”, ma è proprio da questa condanna che nasce un interrogativo più profondo: fu davvero colpa o solo il prezzo d’esser donne nell’isola del potere maschile?
Alcuni versi le dipingono come ridenti e complici, accanto ai pretendenti nella dissolutezza; ma altrove emerge il dato di costrizione, come un’ombra che insinua il dubbio. Qui il narratore non è rigido né univoco: concede al racconto delle smagliature, fessure nel tessuto della narrazione, dove la verità si fa meno netta e più umana.
Così, nel cuore del mito, si apre uno spazio per la riflessione: le ancelle furono davvero traditrici, o piuttosto vittime di un potere maschile? Il canto epico non dà risposte, ma ci offre le domande.

ANTICLEA
XXI
Gloria Di Meo
ANTICLEA, LO SGUARDO DI UNA MADRE
Hom. Od. 11.155-159
“Figlio mio, come sei giunto nella tenebra fosca
da vivo? Vedere questa landa per i vivi è difficile:
ci sono grandi fiumi di mezzo e terribili vortici,
e anzitutto l’Oceano che a piedi non si può
traversare, se non hai una nave ben costruita”.
La figura che Odisseo per prima vede e riconosce nell’Ade è Anticlea, sua madre.
Ma, solo dopo aver adempiuto al suo compito, le permette di riacquisire il senno e, quando viene riconosciuto, lei con alate parole si rivolge a lui chiamandolo “figlio mio”.
Non è un riconoscimento banale per Odisseo, abituato a epiteti come “il divino”, “dalle molte astuzie”, “dal multiforme ingegno”: viene spogliato di qualunque ruolo che non sia il suo ruolo primigenio. Prima ancora di essere re, guerriero, marito o padre, lui è il figlio di Anticlea.
Lei non vuole sapere perché lui abbia affrontato un viaggio così difficile, di cui lei stessa descrive i pericoli: la prima cosa che gli chiede è come lui sia giunto lì.
Anticlea, nonostante sia ormai solo un’ombra, rimane la madre di Odisseo e si preoccupa di rassicurare il figlio, rispondendo alle sue domande ed esortandolo ad allontanarsi da quel regno inospitale e a lui estraneo, per fare ritorno a Itaca, il luogo che gli appartiene.

XXII
Teresa Morettin
ANTICLEA, L’ABBRACCIO
Hom. Od. 11.210-214
“Madre, perché non m’aspetti mentre voglio abbracciarti
per saziarci di gelido pianto ambedue
gettandoci anche nell’Ade le braccia intorno?
Oppure questo è un fantasma, che a me l’insigne Persefone
manda, perché piangendo io gema ancora di più?”.
Straziante è il bisogno di contatto fisico che spinge Odisseo a voler toccare con mano l’ombra della madre. Un’ombra, appunto: un fantasma impalpabile ed evanescente, come un sogno. L’eroe che molto ha sofferto e patito qui, nella cornice lugubre dell’Ade, è costretto a sperimentare anche la drammatica rinuncia all’atto d’amore per antonomasia, l’abbraccio. Allora, ciò che resta al re di Itaca, il figlio di Anticlea, non è altro che saziarsi di un gelido pianto, sommerso dal dolore della perdita materna. Ma Anticlea è “colei che dice la verità” e, seppur morta, ascolta, rassicura e insegna come solo una madre sa fare: la morte, così difficile da accettare, non è una punizione divina, un malizioso inganno perpetrato da Persefone, come sospetta Odisseo, bensì il normale manifestarsi della legge umana, di una giustizia che trascende il valore anche delle più capricciose divinità.

PENELOPE
XXIII
Manuela Padovan
ΠΕΡΙΦΡΩΝ ΠΗΝΕΛΟΠΕΙΑ
Hom. Od. 19.215-17, 23.113-14
Penso ora, o straniero, che ti porrò alla prova,
se veramente laggiù coi compagni pari agli dei
in casa ospitasti il mio sposo, come racconti.
…
Telemaco, lascia che tua madre, qui nella casa
mi metta alla prova: presto si renderà conto anche meglio.
Penelope la saggia, l’incrollabile, l’astuta. Di fronte a Odisseo, che si presenta a lei prima sotto mentite spoglie, poi come sterminatore dei Proci, mantiene lucidità, prudenza e autocontrollo: un comportamento che sappiamo essere proprio dell’eroe πολύμητις. Lo vediamo dalla presenza nel testo di πειράω/πειράζω, usato nel poema una cinquantina di volte, quasi sempre in relazione al protagonista, ma qui riferito a Penelope: la regina mette alle strette l’uomo che ha davanti, senza cedere a desideri e illusioni, senza prestar fede a false verità. Vuole prove, tende insidie. Ne è ben capace, lei: sa tessere trame, sa mettere in atto le astuzie della μῆτις. È l’alter ego di Odisseo: ed è qui che egli deve arrivare, perché solo in lei potrà ritrovare se stesso, come uomo e come re. «Odisseo, se sei davvero tu, non so dire, ma so mentire quando serve, come te. Ti accetterò come sposo. Farò portare qui il tuo letto. È l’ultima trappola: ti aspetto, alla fine dei giochi».

MUSA
XXIV
Alberto Camerotto
LA VOCE DEL CANTO
Hom. Od. 1.1-5
Narrami, o Musa, dell’eroe polytropos, che tanto
vagò, dopo che distrusse la rocca sacra di Troia:
di molti uomini vide le città e conobbe i pensieri,
molti dolori patì sul mare nell’animo suo,
per acquistare a sé la vita e il ritorno ai compagni.
L’eroe polytropos, più ancora che polymetis. La Musa lo sa, siamo noi che sbagliamo. Sono le sofferenze, le infinite peripezie, l’assurdo di altri dieci anni per il ritorno, dopo dieci anni di guerra. Il nostos di Odisseo è il fallimento dell’eroe. Odisseo ha perduto tutto. È il conquistatore di Troia, il kleos dell’infamia e dell’inganno, nient’altro che lutti e pianto. Ha perduto il bottino di guerra della violenza e della strage, ha perduto perfino le armi di Achille che spettavano ad Aiace, ma soprattutto ha perduto tutti i compagni. Inutile cercare giustificazioni. È così.
Un fallimento insopportabile. Odisseo non può più dire, non può gridare Io capitano!, non ha salvato gli altri, che è quello che conta nella vita. Perché ritornare? Il nostos non è più un nostos, è un ritorno maledetto, non ha più senso, Odisseo non è più nessuno. La voce della Musa, una donna, una dea, una figlia di Mnemosyne e di Zeus, diventa il ritmo del canto, la trama del racconto, è la memoria e il significato del dolore. L’unica via della tlemosyne. Di questo sono fatti gli eroi.

Epilogo
Per spiegare il senso delle parole, della poesia e della ricerca, per capire cosa significa leggere i testi antichi oggi, ma anche per riavviare il racconto e le discussioni, concludiamo con un brano tratto dal nuovo volume Libertà di parola. Archetipi mitici: eroi, dei animali, che, tra i laboratori Aletheia e Classici Contro, esce ora per la collana di studi classici Paradoxa dell’Università Ca’ Foscari:
All’inizio dell’Odissea, siamo a Itaca. Femio è il cantore e canta le storie degli Achei, della guerra di Troia e del ritorno, un destino maledetto, fatto di lutti e di dolori. Il canto suscita il pianto di Penelope, che sente dalle sue stanze e, naturalmente, pensa a Odisseo che non è mai tornato. Penelope chiede al cantore di cantare altre storie, perché il canto del nostos funesto degli Achei dice cose che fanno male ancora adesso, dieci anni dopo la fine della guerra. È un dolore infandum, che non si può dire, che sarebbe meglio non dire. Più facile. Ma interviene Telemaco, il figlio di Odisseo, ha meno di vent’anni, non ha mai visto suo padre che è partito per la guerra. È un giovane, ed è la voce di un giovane che ci dice quello che conta. Il cantore deve cantare come gli detta la mente (Hom. Od. 1.347 ὅππῃ οἱ νόος ὄρνυται). La poesia ha la libertà e il compito di cantare le storie degli uomini. Le sofferenze ci sono e vengono come vogliono, forse sono gli dei che decidono. Ma la poesia deve dire tutto davanti a tutti. È parte essenziale della bellezza, perfino del piacere del canto, τέρπειν è l’effetto (Od. 1.347), θελκτήρια, meraviglie che incantano, sono le storie degli eroi e degli dèi (Od. 1.337). Perciò non ci può essere divieto, non ci può essere censura che fermi il cantore. Con una parola dura che suona come nemesis: non ci può essere rimprovero, biasimo, ossequio, timore che possa far tacere il cantore (Od. 1.350): τούτῳ δ’ οὐ νέμεσις Δαναῶν κακὸν οἶτον ἀείδειν, «Costui non va biasimato se canta la mala sorte dei Danai».
Sono le parole della libertà del canto, sono le parole libere della ricerca. Un diritto e un dovere per tutti, per chi parla e per chi ascolta. Al tempo di Omero. Ma è il nostro koinòn agathón da praticare e da difendere giorno per giorno.
Alberto Camerotto, Lingua e Letteratura greca, Università Ca’ Foscari di Venezia
Immagine di copertina:
Affreschi del Museo di Santa Caterina di Treviso
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