JOYCE & BACH (omaggio a Peter Kubelka).
una lecture-performance tra cinema sperimentale, letteratura,
musica e cucina come forma d’arte.
[Per la serie di eventi multisensoriali “theatrum phonosophicum” al “Ground Floor” della State Philharmonia of Armenia, Yerevan, 12 marzo 2023]
Intervista a Leopoldo Siano, di Mariam Hakobyan
Mariam Hakobyan – Che cosa vi ha spinto ad accostare James Joyce e Johann Sebastian Bach in questo nuovo evento della serie multisensoriale theatrum phonosophicum?
Leopoldo Siano – La risposta è affatto già nel titolo dell’evento: Peter Kubelka, appunto. Questi una volta, durante una conversazione pubblica a Düsseldorf, disse che Joyce e Bach sono i suoi “santi” protettori. Ma lo disse così en passent, senza dare ulteriori spiegazioni… Così questo nostro evento – tra cinema e letteratura sperimentale, musica e cucina come forma d’arte –, è stato un personale tentativo di risolvere l’enigma di questo accostamento inatteso. Seguendo le libere associazioni dei nostri propri sentieri immaginativi abbiamo attraversato l’opera di Joyce e Bach intrecciandola con alcuni maggiori leitmotive kubelkiani.
Ma qual è dunque la soluzione dell’enigma, cosa hanno Joyce e Bach in comune? In fin dei conti sono due artisti tra di loro diversissimi…
Ebbene, abbiamo tentato diverse risposte. La prima: un ascolto.
L’ascolto di acqua corrente…
Sì, l’acqua come elemento primordiale. Si pensi a Talete e ai tanti miti della creazione del mondo, dalla Bibbia alle Upanishad… Johannes de Murris, il teorico medievale, affermò: Musica est scientia aquatica. Musica ed acqua sono intimamente connesse. E inoltre con l’acqua vengono ad intersecarsi embriologia (il liquido amniotico…) e cosmogonia. Bach in tedesco significa “ruscello”; la sua musica ha senza dubbio un carattere acquatico. (Però una volta Beethoven disse: “Nicht Bach, sondern Meer sollte er heißen“, non Bach, cioè “ruscello”, dovrebbe chiamarsi, piuttosto “mare” – per la sua immensità). D’altra parte James Joyce è passato alla storia innanzitutto per la sua tecnica letteraria dello stream of consciousness, del “flusso di coscienza”. Anche l’inconscio e le sue produzioni associative sono affini all’acqua. (Si ricordi Sigmund Freud quando all’inizio della Traumdeutung cita Virgilio: “Flectere si nequeo Superos, Acheronta movebo”). Ciononostante il flusso joyceano e quello bachiano sono flussi di tipo ben diverso…
Peter Kubelka ha detto varie volte che la musica di Bach è per lui una sorta di “medicina quotidiana”…
In molti lo hanno detto. Su Bach ci sono bellissime citazioni di Goethe, di Nietzsche, e di tanti altri. A me piace pensare soprattutto a Emile Cioran, a sue boutades come: “Se c’è qualcuno che deve tutto a Bach, è proprio Dio”, oppure: “Senza Bach, Dio sarebbe sminuito. Senza Bach, Dio sarebbe un personaggio di terz’ordine. Solo con Bach si ha l’impressione che l’universo non sia un fallimento. […] Senza Bach sarei un nichilista assoluto”. E Mauricio Kagel a commento della sua Sankt-Bach-Passion: “An Gott zweifeln – an Bach glauben” (Dubitare di Dio – credere in Bach). Bach è una sorta di Dio nella storia della musica. V’è di certo un Bach pitagoreo, esoterico, celestiale, evocatore dell’armonia delle sfere; però vi è pure un Bach drammatico, tragico, profondamente umano nel senso più nobile della parola…
E Joyce?
Ciò che accomuna Joyce a Bach, oltre all’acqua, è il suo aver composto “opere-mondo”, opere che rappresentano un cosmo a sé stante. Penso all’Ulysses e al Finnegans Wake. Peter Kubelka, ancora studente liceale, sentì parlare un suo professore di un libro assai voluminoso che, nonostante la sua mole, “raccontava” la storia di una sola giornata: il 16 giugno 1904 (oggi noto e festeggiato come “Bloomsday”). L’autore si chiamava James Joyce, appunto. Il giovane Kubelka non aveva ancora letto questo libro, ma ebbe subito l’intuizione che esso avrebbe avuto una cruciale importanza per lui… Non Leopoldo Bloom, non Stephen Dedalus, non Molly – la vera protagonista dell’Ulysses è la città di Dublino. Giustapponendo, interpolando, parafrasando, citando, deformando, associando, il suo gioco con la lingua è stato radicale. Ma questo stream of consciousness, tutte le libere associazioni vengono comunque incanalate in una struttura sovraordinata.
E poi il libro è pieno di impressioni corporali: si parla spesso di cibo, per esempio in questo famoso passo dal quarto capitolo: “Mr Leopold Bloom mangiava con gran gusto le interiora di animali e volatili. Gli piaceva la spessa minestra di rigaglie, gozzi piccanti, un cuore ripieno di arrosto, fette di fegato impanate e fritte, uova di merluzzo fritte. Più di tutto gli piacevano i rognoni di castrato alla griglia che gli lasciavano nel palato un fine gusto d’urina leggermente aromatica”.
Inoltre nel libro si parla di defecazione, di rapporti sessuali, di masturbazione, di passeggiate, di liti per strada, come anche di fugaci e sottili percezioni, di liturgie e di epifanie… V’è un continuo miscuglio di sublime e turpe, di erudizione filosofico-teologica e banalità quotidiana. La prosa di Joyce è stata di ispirazione non solo per tanti scrittori, ma anche per i cineasti sperimentali. Carmelo Bene ammise che l’Ulysses fu l’incontro (non solo letterario) più decisivo nella sua formazione: “L’Ulysses è un fantastico gioco di significanti. Il pensiero non è mai descritto, ma immediato. Dai lacerti più dotti ai luoghi melodrammatici più comuni. Nessuna opera gli è pari”.
Ma quando si legge Joyce si ha, per così dire, un’impressione opposta a quella che si ha ascoltando la musica di Bach…
Sì, perché quest’ultima è “cosmo”, che etimologicamente in antico greco significa “bell’ordine”. Di contro leggendo la entropica prosa di Joyce talvolta si finisce per non comprendere più nulla, ci si può perdere: il caos dunque. Ma cos’è il caos? In antichità v’erano differenti concetti di “caos”… Per esempio Esiodo lo ritiene essere uno spazio primordiale di forma concava da cui possono emergere tutte le forme e le possibilità dell’essente. Però di solito lo si associa al concetto di “disordine”. Ordine e disordine… Con Joyce, in specie con certi capitoli dell’Ulysses, ma ancor di più col Finnegans Wake, si esperisce il “disordine delle parole”. Nonostante ciò vi è sempre, seppur occulto, un ordine sottostante: la struttura dell’Ulysses ricalca notoriamente quella dell’Odissea di Omero. E mentre l’Ulysses è la storia di una giornata, il Finnegans Wake è la storia di una nottata, una rocambolesca veglia funebre, ispirata da una ballata popolare irlandese.
Il linguaggio del Finnegans Wake è essenzialmente onirico e psichedelico, la sua struttura circolare: comincia infatti con il neologismo “riverrun” (di nuovo l’acqua!), e termina nel bel mezzo di una frase (“A way a lone a last a loved a long the”), che è concepita in modo da riallacciarsi alla prima parola del libro (“riverrun”) che comincia altrettanto nel mezzo di una frase: è un circolo, dunque, la lettura dovrebbe ricominciare daccapo… Proprio nel Finnegans Wake Joyce coniò la parola “chaosmos” (che tanto piacque a John Cage): chaos e cosmos assieme. Ciò si addice bene alle “opere-mondo” joyceane. Il cosmo di Bach è invece un cosmo chiuso e perfetto, come quello di Dante. Mentre nei libri ultimi di Joyce si ha un universo in espansione, non solo post-copernicano, ma bensì bruniano: infiniti soli e innumerevoli mondi, una proliferazione continua di materiali…
È interessante ricordare che i filosofi preferiti di Joyce furono due italiani, o meglio – due napoletani: Giordano Bruno e Giambattista Vico. Da quest’ultimo Joyce derivò il suo anti-teleologismo storico: i corsi e ricorsi della storia… Nihil sub sole novum, recita il Qohelet. Non vi è progresso nella storia umana. Una civiltà nasce, si forma, raggiunge il suo apice e inevitabilmente comincia il suo declino, infine scompare, che lasci tracce o meno.
A quanto sembra nella prosa matura di Joyce quello che conta è soprattutto il ritmo, il timbro, il tono, la musica insomma…
Esattamente! Nello stream of consciousness joyceano si hanno di sicuro alcuni paralleli con l’écriture automatique dei Surrealisti, e le sperimentazioni tarde del Finnegans aprono una porta alla poesia visiva, alla poesia concettuale e alla poesia sonora. Istruttivo è ascoltare le registrazioni di Joyce stesso che legge suoi brani: si tratta di una sorta di performances sonore. Uno dei traduttori italiani dell’Ulysses, Gianni Celati, spiega che quando si legge Joyce, importante non è capire tutto, ma sentire la musica del flusso. Joyce era un uomo interessato alla musica e molto musicale. Durante il suo periodo triestino prese addirittura lezioni di canto, intendeva diventare tenore; inoltre suonava la chitarra e il pianoforte. L’Ulysses è poi pieno di riferimenti musicali e in generale acustici: dall’Introibo ad altare Dei iniziale a varie altre citazioni di canto gregoriano, oltre alle citazioni wagneriane e di altre opere liriche, di canzoni irlandesi e filastrocche (infantili o sconce). E poi vi sono le varie parole che imitano i rumori dell’ambiente circostante: “Tum Tum”, “Pflaap! Pflaap! Pflaaaap”, la carrozza del viceré che passa sul lungofiume: “Clapclap, Crilclap”; il verso del cuculo: “Cucú! Cucú” etc. Nell’Ulysses v’è specialmente un’aria mozartiana dal Don Giovanni che ricorre di sovente: “”Là ci darem la mano, là mi dirai di sì. […] Vorrei e non vorrei, mi trema un poco il cor”… Sembra insomma che Joyce non riuscisse a pensare a nulla che non fosse un fenomeno musicale. L’Ulysses e il Finnegans Wake non sono soltanto libri polifonici, ma una sorta di partiture sonore.
Al vostro evento ha partecipato anche un’ospite d’onore: Aram Pachyan.
Si, è un nostro caro amico. Pachyan è il Joyce armeno. Ciò che per Joyce era Dublino, per Pachyan è Yerevan. Fortunatamente (per me) i suoi libri hanno avuto già traduzioni in diverse lingue che posso leggere. Aram Pachyan è un vero e proprio animale letterario. Annusa, mangia letteratura. Con lui si respira solo letteratura. Non solo scrittore, è un lettore formidabile – come quasi tutti i grandi scrittori. Joyce, in particolare, ha avuto una decisiva influenza su di lui. Durante la preparazione della serata Joyce & Bach, abbiamo spesso pensato ad Aram, dato che anch’egli è un estimatore di Bach. Il suo romanzo Goodby, Bird si apre con un’epigrafe bachiana: “Ich ruf zu Dir, Herr Jesu Christ” (BWV 639). Ma l’idea del suo intervento è nata quasi all’ultimo momento, in maniera fortuita. Noi avevamo già pensato di leggere in pubblico alcuni passi dalla traduzione armena dell’Ulysses. Però, fatto sta, che non siamo riusciti a trovare un’edizione armena del romanzo in nessuna libreria di Yerevan. Esaurito. Dunque non ci restava che contattare Aram Pachyan, il quale ci ha gentilmente prestato la sua copia personale del libro, da cui durante la serata lui e Shushan Hyusnunts hanno letto alcuni passaggi. Shushan mi conferma che la traduzione armena dell’Ulysses è eccellente.
Peter Kubelka non è comunemente noto al pubblico armeno, potresti brevemente dirci chi è?
Kubelka è un homme extraordinaire (nel senso di Gurdjieff), che abbiamo avuto anche la fortuna di incontrare di persona e di intervistare. Fu Hermann Nitsch a consigliarci caldamente di scoprire il lavoro di Kubelka. Assai di sovente Nitsch menzionava il suo amico e mentore Kubelka con profonda stima: “Kubelka ist ein großer Mann” (“Kubelka è un grande uomo”), usava dire. In effetti Kubelka è un grandissimo artista e pensatore. Del resto sono proprio gli artisti ad essere sempre stati i più validi e arditi filosofi. E i grandi filosofi, a loro volta, furono sempre delle Künstlernaturen, delle “nature d’artista”. La filosofia non è soltanto un lavoro con concetti, bensì anche con il pathos e la sensualità. Non vi può essere altra teoria che la “teoria della prassi”. Il pensiero è un’avventura esistenziale ed è parte integrante della fisiologia. Kubelka è un philosophe-artiste, per usare un’espressione di Jean-Noël Vuarnet, ovvero una personalità che non si lascia facilmente inquadrare e categorizzare.
In che occasione lo avete incontrato?
Era il luglio del 2020 quando visitammo per la prima volta Peter Kubelka nel suo appartamento al centro di Vienna, pieno di oggetti, libri e strumenti musicali. Trascorremmo con lui dieci ore indimenticabili, ormai leggendarie: le prime cinque conversando (da queste conversazioni è stato tra l’altro ricavato un podcast1, le altre cinque al tavolo della sua cucina, mangiando e bevendo con divina semplicità… Kubelka abita letteralmente nella sua collezione, che è l’opera della sua vita – e vivendoci la vivifica. Si tratta di un mirifico assemblage di oggetti provenienti dalle più disparate epoche e culture. La disposizione di questi oggetti (che vanno dal preistorico al kitsch turistico) non segue alcun principio museale. Kubelka parla piuttosto di “sfasciume culturale” (“kultureller Schutt”), detriti e macerie antropologiche, talvolta fossili, con cui è possibile instaurare un rapporto creativo aprendo impensati percorsi conoscitivi. Kubelka insegue la chimera di una teoria generale della nascita dell’arte. Il suo appartamento è il suo spazio esistenziale-artistico, una proiezione del suo spirito, un cosmo, un Gesamtkunstwerk. In questo spazio, insieme a Kubelka, non si avverte più alcuna differenza tra arte, scienza e vita quotidiana. La sua collezione in sé stessa è un “teatro”. Di ogni oggetto Kubelka conosce la storia e il retroterra. Oggetti e sostanze sono sempre il punto di partenza delle sue riflessioni. Kubelka ti può condurre in avventure intellettuali anche di somma astrazione, senza però mai perdere il contatto con la concretezza tattile, sensuale. Tutti i collegamenti tra gli oggetti sorgono in maniera associativa direttamente nel suo cervello e nel suo cuore. Kubelka è uno spirito estremamente sveglio e lucido, con un‘infinita sete di conoscenza.
Qualche cenno biografico forse…
Kubelka è del 1934, e ha cominciato col cinema già giovanissimo, studiò negli anni Cinquanta a Roma, al Centro Sperimentale di Cinematografia. Egli confessa di aver imparato a pensare attraverso il suo lavoro col film sonoro. Poi, quasi involontariamente, è divenuto un indagatore della coscienza tout court. Le sue considerazioni teoriche sono sempre di natura antropologica o financo cosmogonica. Esse spingono sobriamente ad interrogarsi sull’origine: sull’origine dell’arte, sull’origine dell‘uomo, sul cominciamento del Grande Tutto.
Dopo i suoi successi come cineasta sperimentale, in specie negli Stati Uniti d’America – dove divenne tra l’altro intimo amico di Jonas Mekas –, Kubelka si rese conto che la sua cultura era un po’ lacunosa. Così decise di cominciare un sistematico programma di “de-specializzazione”, sta a dire: una rieducazione di sé stesso, assecondando i desideri del suo cuore. Non voleva essere semplicemente “qualcuno che fa dei film”. Sentiva la necessità di liberarsi da quelle definizioni che poi si scrivono sulla tomba: “cineasta” o “teorico” etc. Voleva tentare piuttosto di divenire il più universale possibile: un homo universalis. Cominciò ad interessarsi di molte altre cose. Aveva già superato i trent’anni, ma si mise a studiare seriamente il flauto a becco e la musica antica; anni dopo fondò addirittura il suo proprio ensemble, il gruppo Spatium Musicum, spaziando dal repertorio pre-classico alla musica popolare austriaca, con alcune incursioni anche nella modernità (con una predilezione per i “giochi dodecafonici” dell’outsider viennese Josef Matthias Hauer). Inoltre si occupò di architettura, di etnomusicologia, di archeologia, di lingue antiche – e non da ultimo si mise a cucinare, considerando quest’ultima attività come una forma d’arte vera e propria, anzi: come la madre di tutte le arti e di tutte le scienze.
Quasi per caso Kubelka diventò un artista-conferenziere, tenendo dappertutto appassionate e travolgenti lecture-performances, in cui le sue argomentazioni e i suoi voli pindarici prendono spunto sempre da oggetti concreti o sostanze commestibili. Quando nel 1978 fu nominato professore alla Städelschule di Francoforte sul Meno, Kubelka insistette a rinominare la cattedra che doveva occupare: insegnò al contempo cinema sperimentale e a cucinare.
Le sue lectures sono un “Theater der Tatsachen“, un “teatro delle evidenze”. Esse rappresentano una mise-en-scène del sapere. Il punto di partenza delle sue riflessioni sono sempre sostanze, oggetti (di solito preistorici o “etnici”), che egli maneggia sotto gli occhi del pubblico. A fondamento del suo pensare, che può addentrarsi, come detto, anche in ambiti piuttosto astratti, sta comunque la percezione aptica, il tatto e gli altri sensi. In realtà solo in questo modo il filosofare è legittimo ed autentico. Studiare o insegnare filosofia non è lo stesso che vivere filosoficamente. Kubelka fa proprio questo: vive filosoficamente. Egli è un uomo di grande erudizione, però in lui il sapere non viene soltanto dai libri o da una formazione accademica, ma piuttosto da un impulso interiore, dall’esperienza di vita, specialmente dalle esperienze sensoriali. Un sapere vissuto. Kubelka è un uomo che ha molto viaggiato, udito, veduto ed esperito. È padre di sei figli, parla correntemente molte lingue. La sua cultura, piena di vita e di concretezza sensuale, è imparagonabile a quella di molti cosiddetti specialisti, spesso universitari, con i paraocchi e tanta spocchia.
La scena di Joyce & Bach era abbastanza inconsueta per una lecture: oltre ad un grande schermo di lato e due altoparlanti, al centro troneggiava un tavolo frugalmente imbandito: con pane, vino, latte, frutti, ortaggi, burro, olio, scodelle, mestoli, strumenti musicali…
Sì, la scena era indubbiamente un diretto omaggio a Kubelka. Da lui abbiamo imparato che prender le mosse da sostanze concrete, da oggetti che si possono tastare, tenere in mano, conferisce un’altra qualità al pensiero – ed è un ausilio prezioso per lo storytelling.
Kubelka è un grande esempio per noi, una potente ispirazione per il theatrum phonosophicum. Quando si sta con lui non si avverte più la linea di demarcazione tra una lecture e una conversazione al tavolo di cucina. Kubelka è sempre lo stesso, genuino, autentico. Con la sua intransigenza artistica e intellettuale ha rischiato molto da giovane: si è messo in gioco, ha posto la pelle sul tavolo. Kubelka dà prova della sua arte e del suo sapere testimoniandoli con la sua vita stessa. Con Kubelka è sempre una festa del sapere.
Mentre si discorreva con lui, siamo divenuti consapevoli che in italiano la parola “sapere” e la parola “sapore” sono etimologicamente connesse. Un sapere per essere tale deve appunto “sapere” di qualcosa, avere sapore. Il piacere senza il sapere, può essere grossolano, sfociare nella fatuità e nella trivialità mondana; ma il sapere senza piacere è, non di rado, assai noioso.
Kubelka è un antropologo del mangiare e del bere. Parlando dei cibi affronta profonde questioni filosofiche e ti racconta la storia dell’umanità e delle civilizzazioni. Da dove provengono i cibi?, come si producono? Oggi perdiamo sempre più la consapevolezza dei cicli cosmici, del calendario agricolo. Soltanto il contatto con la terra e gli animali, con i contadini e gli artigiani, permette di apprezzare appieno il miracolo del cibo. E poi vi è una profonda simbologia connessa agli alimenti.
Un certo tipo di intellettuale tende a sottovalutare il valore del mangiare e del bere. (Con disprezzo Bertolt Brecht, molto teutonicamente, definiva l’arte borghese come “culinaria” o “gastronomica”). L’atto del mangiare, per quanto ovvio ci appaia, è un atto quotidiano abissale: facciamo scomparire delle cose esistenti, i cibi, introducendoli in quel buco nero che è la cavità che chiamiamo bocca: le mastichiamo, smozzichiamo, ergo distruggiamo, e poi deglutiamo, digeriamo. L’intestino, come dice Kubelka, ci unisce all’universo. Con l’apparato digestivo trasformiamo e assorbiamo sostanze materiali, rilasciando energie spirituali… L’atto del mangiare è un atto par excellence di trasformazione del reale che ci consente di rimanere in vita. Ancora per citare Gurdjieff: la vita non è nient’altro che mangiare ed essere mangiati. Si è coinvolti in un incessante rito sacrificale cosmico. Questa lecture-performance è stata anche un ammiccamento alla lezione eraclitea: panta rhei, tutto scorre, tutto è in perenne trasformazione. E per cuocere i cibi, il fuoco gioca un ruolo centrale, il fuoco che per Eraclito è l’elemento primo e originario. La scoperta della domesticazione del fuoco, e millenni più tardi quella dell’elettricità, hanno costituito le due scoperte più rivoluzionarie nella storia della specie Homo.
Perché il cibo è così importante nel lavoro di Kubelka?
È con la bocca che si comincia a “leggere” il mondo: l’inizio della conoscenza attraverso la lingua. Con la lingua si assaporano i cibi, e con la lingua si parla. Percezione del sapore, fonte di piacere, ma anche articolazione del logos. Il mangiare e il cucinare costituiscono un’esperienza sensuale che coinvolge tutti e cinque i sensi, e che fomenta la scoperta e l’invenzione.
Ma in che senso il cucinare è arte per Kubelka?
Il cucinare, come detto, è un’arte della trasformazione, in certo qual modo un’arte “alchemica”, se si vuole. E poi Kubelka spiega come il cucinare preveda la creazione di metafore. Il verbo greco metaphérein letteralmente significa “trasportare”. È ciò che fa il poeta quando accosta parole provenienti da ambiti irrelati per creare nuove immagini e sensazioni. Così fa il cuoco o colui che prepara da mangiare. Kubelka intende il cucinare in senso lato: anche il cercare gli ingredienti e la preparazione di semplici pasti, per esempio pane e burro, significa cucinare per lui. In tedesco il verbo “dichten”, poetare, viene dall’aggettivo “dicht”, che significa “denso”. Dunque “dichten” è un “verdichten”, “densificare” qualcosa. Il poeta crea densità, intensità, carica ogni parola del suo massimo sapore. Si racconta che l’imperatore romano Vitellio, a quanto pare assai debosciato e ingordo, una volta mobilitò tutta la sua flotta, inviando navi in diverse angoli dell’Impero per raccogliere ingredienti prelibati e portarli in tutta fretta ancora freschi a Roma: fegatini di pesci rari, cervelli di pavoni, lingue di fenicotteri etc. Questa impresa gli costò quanto una guerra. Ma questa zuppa, questa creazione metaforica spinta all’eccesso, poteva mangiarla soltanto lui, l’imperatore di Roma. Kubelka non si stanca mai di ripetere che il mangiare e il cucinare hanno sempre a che fare pure con il concetto di potere.
Come pensi che la musica di Bach abbia influenzato il cinema di Kubelka?
In alcun modo, non vedo nessun parallelo immediato… Forse inconsciamente la complessità polifonica e la concisione strutturale. Vale la pena però di spendere qualche parola sul lavoro di Kubelka nell’ambito del cosiddetto “film sperimentale”, che si pone al di là del mainstream del cinema commerciale. Kubelka, giustamente, sostiene che parlare di “cinema sperimentale” è – in fin dei conti – una sorta di ridicola contradictio in adiecto o un pleonasmo. Meglio, dice Kubelka, parlare di arte filmica tout court e delle sue potenzialità intrinseche, strutturali ed espressive.
Nelle sue forme più radicali il “film sperimentale” non è qualcosa che può essere raccontato a qualcuno che non lo ha visto; giacché i suoi modelli non sono più i melodrammi o i romanzi ottocenteschi, bensì una prosa come quella del Joyce maturo: non storie lineari, ma piuttosto proliferazione di immagini ed eventi, tra astrazione, realismo e surrealismo. Se l’attaccamento al senso comune viene obliterato, le immagini proliferanti possono lentamente trasformare lo stato di coscienza dell’osservatore-ascoltatore… La posizione di Kubelka è assai intransigente, quasi “ascetica”: eppure egli cerca l’estasi – l’estasi filmica; Kubelka è radicalmente alla ricerca del film “più filmico” che vi sia – il suo precipuo interesse si rivolge alla materialità stessa del nastro (letteralmente: film; con il digitale – che egli ripudia – poi, naturalmente, tutto cambia). Per Kubelka gli elementi base del cinema sono luce e oscurità… Kubelka nega il movimento, quindi in un certo senso la stessa parola “cinema”. Quasi riprendendo i paradossi di Zenone l’eleatico, Kubelka dice: “il cinema non è movimento”. In effetti il movimento delle immagini è tacitamente un’illusione percettiva; un film è la veloce successione di singoli fotogrammi che di per sé sono statici: “it’s between frames where cinema speaks”, dice Kubelka…
Nonostante la sua notorietà come filmmaker sperimentale, la sua produzione cinematografica non è vasta. Kubelka usava lavorare in maniera meticolosa con i suoi materiali (immagini e suoni), prendendosi molto tempo, in primis per memorizzarli a perfezione, per poi creare con essi strutture ermetico-associative di estrema concentrazione. L’opera più famosa è forse Unsere Afrikareise (1965); ma vale la pena di menzionare anche altri film quali Mosaik im Vertrauen, Adebar, Schwechater, Arnulf Rainer… e non da ultimo il più recente Antiphon (del 2012). I suoi film non vanno semplicemente visti: ma guardati e riguardati ancora. Richiedono un lavoro di studio da parte dello spettatore-ascoltatore; un lavoro simile a quello che fa il lettore di una poesia di Mallarmé o degli ultimi libri di Joyce, per sviscerarne e scandagliarne la densità. Non è un lavoro puramente intellettuale, ma percettivo-sensuale.
Quale era il vostro specifico messaggio da comunicare al pubblico? Esso differisce da quello dell’opera di Kubelka?
Una tale lecture-perfomance non si preoccupa tanto del messaggio, quanto della forma che è sostanza. In fondo non conta avere un “proprio” pensiero da comunicare. Il filosofare è qui inteso come attività poetica, come flusso, come facoltà di far zampillare il pensiero… Aprire orizzonti inattesi, creare spazi esperienziali, dare intensità, gioia. Sia Joyce che Bach sono due artisti “unici” che – come Kubelka (e d’altronde tutti i veri creatori) – nonostante tutto, nonostante il dolore, la morte, la laidezza e la polvere del mondo, sanno dire di sì alla vita. Ricordiamo le ultime parole dell’Ulysses: “yes I will Yes”.
Altre foto dell’evento sulla pagina facebook della State Philharmonia of Armenia:
https://www.facebook.com/media/set/?set=a.649683740294222&type=3
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Nota
1. Il podcast “Peter Kubelka Musicus”, in due parti, può essere ascoltato nell’archivio sonoro online del theatrum phonosophicum:
https://soundcloud.com/theatrumphonosophicum/peter-kubelka-musicus-1-teil
https://soundcloud.com/theatrumphonosophicum/peter-kubelka-musicus-2-teil
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Leopoldo Siano, 12 agosto 1982, è filosofo della musica e azionista del suono. Giovanissimo si trasferisce in Germania. Dal 2012 al 2022 insegna allʼUniversità di Colonia (nello stesso Istituto Musicologico dove tra gli anni cinquanta e settanta insegnò Marius Schneider, suo grande ispiratore); qui è anche coorganizzatore della serie di concerti acusmatici Raum-Musik. È autore e curatore di diversi libri (su Karlheinz Stockhausen, Hermann Nitsch, François Bayle etc.). Il suo ultimo volume è stato pubblicato nel gennaio 2021 dall’editore Königshausen & Neumann di Würzburg: Musica Cosmogonica: von der Barockzeit bis heute (Musica cosmogonica: dall’epoca barocca ad oggi). Insieme a Shushan Hyusnunts è ideatore del theatrum phonosophicum e della serie omonima iniziata nell’autunno del 2022 al “Ground Floor” della State Philharmonia of Armenia a Yerevan.
* La foto di Leopoldo Siano è di © Mane Hovhannisyan
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