In ricordo di Andrej Tarkovskij a 50 anni dall’uscita del capolavoro cinematografico “Lo specchio”. Testi di Giovanni Di Vincenzo e Fabrizio Borin

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Andrej Arsen’evič Tarkovskij (Zavraž’e, 4 aprile 1932 – Parigi, 29 dicembre 1986)

Eppur questo non basta

Il film, quando non è un documentario, è un sogno.
È per questo che Tarkovskij è il più grande di tutti
Ingmar Bergman

Lo scopo di ogni arte, se questa non è destinata al consumo, come una merce
è destinata alla vendita, è quello di spiegare a sé stessi e a chi ci sta intorno,
perché vive l’uomo, qual è il significato della sua esistenza, di spiegare agli
uomini qual è il significato della loro apparizione su questo pianeta.
O, se non di spiegarlo, di porre loro questo problema”.

Il cinema di Tarkovskij è forse quanto di più inattuale e inopportuno i nostri tempi ottusi e confusi possono sostenere. E quando parlo di “tempi” il riferimento va non soltanto a un tempo esterno, sociale, reciso da ogni solidarietà organica con la natura e con la terra, sempre più offeso e distolto dal miraggio volgare del progresso, della produzione e del consumo compulsivo, ma anche al tempo interno di una coscienza, di un sentire e di un rapportarsi al mondo, cui la summenzionata trasformazione ha nuociuto in maniera incalcolabile, anche soprattutto in rapporto all’involuzione delle modalità di fruizione dell’opera d’arte, merce tra le merci immolata sull’altare del mito fasullo del “tempo libero” e dell’evasione di massa.

Difficile, oggi, trovare il tempo per un film lungo, silenzioso, doloroso, intriso di simbolismi apparentemente complessi, di figurazioni culturali che affondano nello spiritualismo russo come nel misticismo medievale. Il cinema di Tarkovskij esige un’attenzione (una dedizione) che, forse, non siamo più disposti a concedergli, ma ci promette un rispetto e un’autenticità che, qualora volessimo riappropriarci di una sia pure anacronistica concezione idealistica dell’opera d’arte, riuscirebbero davvero a rinnovare l’utopia di un’arte che serve alla vita.

L’inquadratura come esperienza, il piano sequenza come opportunità di disvelamento e accrescimento conoscitivo, viaggio iniziatico che si diparte da un punto all’altro, il fuori campo come mistero progressivamente rivelato che agglutina la scoperta dell’imprevedibile gamma di corrispondenze e risonanze tra micro e macrocosmo.

L’immagine, sempre densissima di verità elementali (l’acqua, la terra, il fuoco) che risarciscono l’uomo della propria necessaria vulnerabilità, è l’unità fondamentale di questo processo e diventa “autenticamente cinematografica alla condizione inderogabile che non solo essa viva nel tempo, ma che anche il tempo viva in essa”.

Ecco, le immagini di Tarkovskij, anche e soprattutto quelle apparentemente statiche, trattengono il tempo. È una pulsazione lenta, regolare e imperturbabile, quella che prorompe da ogni singola inquadratura, dove lo sguardo che indugia sull’apparente immobilità del quadro smaschera l’incessante lavorio del tempo sulla natura: l’acqua di un ruscello, i vapori che si librano dalle zolle fangose, il fuoco che arde. Tarkovskij sprofonda in questo scenario aurorale i suoi uomini tormentati dalla ricerca del senso, assetati di una Verità immateriale che il mondo che li circonda disconosce quando non apertamente disprezza, offende, rinnega.

Still da Stalker

Ma Tarkovskij non ignora e non respinge la contemporaneità, anzi. Ne conosce e ne subisce per primo tutta la frammentarietà e le lacerazioni. L’inadeguatezza utopica e necessaria del suo cinema si esprime proprio nell’incapacità di esaurire il proprio discorso poetico nell’esposizione “fenomenologica” di una crisi, nella reticente diffidenza ad arenarsi ad una diagnosi sconsolata e impotente nell’afasia spirituale e dell’insufficienza morale dell’uomo moderno, nell’assertiva perentorietà con cui egli ne profila un superamento lungo gli assi convergenti di due incrollabili convinzioni: innanzitutto quella secondo cui il “silenzio di Dio” non ammansisce ma, viceversa, infonde alla ricerca spirituale dell’uomo uno slancio rinnovato da una sorta di irrazionalismo molto vicino alle espressioni del misticismo medievale (il miracolo laico del sacrificio, la consapevolezza che è dei puri di cuore, siano essi folli – Nostalghia – o i bambini – Stalker; e, in secondo luogo, la fiducia nella possibilità risolutrice dell’esperienza artistica in relazione alla conoscenza e alla felicità dell’uomo (Andrej Rublëv, Nostalghia).

Sullo sfondo rimane sempre l’inappellabile verdetto sulla sproporzione tra progresso tecnologico e arretratezza spirituale (Solaris), dove la dialettica dentro/fuori, soggetto/oggetto è sempre sorretta da un’impalcatura filosofica che ha assimilato e trasceso in una nuova sintesi spiritualistica il relativismo novecentesco. Il mondo non esiste se non come proiezione di un soggetto desiderante: ogni film insiste sulla necessità di trasferire la pulsione e la responsabilità conoscitiva dal “fuori” al “dentro” e non a caso la figura più ricorrente è quella dello specchio. Tempo e spazio (categorie a priori della conoscenza sensibile del mondo) recedono, surclassati dalle nuove libertà istituite dall’affettività e dal desiderio del soggetto, che riplasma arbitrariamente l’universo lungo le coordinate ben poco euclidee della nostalgia, della carità, della compassione. Spazi e tempi diversi si stratificano e convivono in Lo specchio, l’universo di Solaris annette la casa di campagna del protagonista, una cattedrale senese si materializza quale imprevedibile cornice all’immagine dello scrittore russo circondato dagli effetti/affetti della propria infanzia nell’epilogo di Nostalghia.

NOSTALGHIA (1983). La sequenza finale ambientata a San Galgano

E ancora: la stazione orbitante intorno al magma pulsionale di Solaris, un universo pensante che materializza i fantasmi dell’inconscio restituendoceli come, appunto, proiezioni di un desiderio; il lunghissimo viaggio intrapreso per conquistare un luogo (la Zona, che, ancora una volta, materializza i desideri), quando invece ogni miracolo è immediatamente a portata di mano, già iscritto nella fede assoluta della figlia inferma del protagonista, mite figura dostoevskijana che, senza mai essersi mossa da casa, riesce a spostare gli oggetti con la forza del pensiero; ma anche l’interminabile scena che chiude Nostalghia, con il protagonista stremato che ricomincia ogni volta da capo l’estenuante traversata della vasca di Bagno Vignoni per compiere l’”incomprensibile” missione assegnatagli dal folle amico Domenico, ossia, appunto, condurre una candela da un capo all’altro della piscina battuta dai venti invernali, preservando la fiamma accesa per tutta la durata dell’attraversamento. Oppure, nel Rublëv, la fiducia prossima all’autodistruzione che incendia l’indomabile zelo del giovanissimo Boris, il quale riesce a infondere nell’anziano e sconsolato pittore Andrej nuova fiducia nell’umanità e nelle proprietà salvifiche e redentrici della volontà.

Tarkovskij, insomma, non si limita a riabilitare il ruolo e le funzioni di una responsabilità individuale limitatamente all’incidenza sulla sfera politica e sociale, ma davvero eleva l’autocoscienza soggettiva a perno di una nuova metafisica in cui la distanza tra pensiero e atto, coscienza e verità diventa irrisoria. La sfiducia nel razionalismo scientista approda in questo modo a uno smantellamento radicale di ogni più elementare principio di causa ed effetto. Per intervenire sul mondo, dice Tarkovskij, è sufficiente credere. Come fa Alexandr, protagonista di Sacrificio, ultimo capolavoro e testamento spirituale di abbagliante limpidezza morale, che difronte alla minaccia nucleare eleva al cielo una preghiera, implorando Dio di risparmiare l’umanità in cambio di tutto ciò che possiede, ossia sé stesso, la sua vita, i suoi affetti. E il miracolo si compie, perché “la creazione esige da un uomo il dono integrale del proprio essere”: Allora tutto diventa possibile, salvare il mondo, fondere una campana senza mai averlo fatto prima, resuscitare un albero ormai avvizzito.

Still da Andrej Rublëv

In questo quadro, naturalmente, il ruolo dell’artista in grado di riconsegnare l’estetica all’etica assume una rilevanza assoluta (Andrej Rublëv, Nostalghia). Ma in generale, che si tratti di un pittore di icone russe, di un poeta in esilio. Di uno psicologo disincantato, di un intellettuale solitario, l’uomo tarkovskijano è sempre e comunque uno “stalker”, una guida, e la defilata e tormentata ricerca di autenticità che il regista russo lo costringe a intraprendere si pone sempre e comunque sotto il segno dostoevskijano (la matrice è naturalmente il Myskin de L’idiota) della disponibilità cristologica ad assumere su di sé i peccati del mondo e redimerli nel sacrificio di sé, quale che sia il modo in cui costui sceglie di farlo.

La sua forza è tutta nella sua debolezza (“la debolezza è potenza, la forza è niente. Quando l’uomo nasce è debole e duttile, quando muore è forte e rigido”) e nel disinteresse assoluto del suo agire.

Pochissimi cineasti sono riusciti a conciliare rigore etico e formale con la stessa intransigente purezza di Tarkovskij, forse solo i più grandi: Dreyer, naturalmente, Bresson; in tempi più recenti il Werner Herzog meno autocompiacente; certamente Alexander Sokurov, che di Tarkovskij rimane l’erede più evidente.

Di questi tempi l’opera tutta di Andrej Tarkovskij rimane il segno cinematografico più limpido di un’ostinazione etica, di un pensiero non arreso alle vischiose infiltrazioni/seduzioni formali del moderno (che non ignora), al gigionismo autoreferenziale delle avanguardie (di cui pure si nutre) e allo sconsolato disfattismo positivista che affonda ogni residua dignità del discorso materialistico nella più gretta e involuta barbarie di un cinismo estraneo ad ogni orizzonte, ad ogni progettualità autenticamente umanistica, ad ogni soprassalto dello spirito. L’invito a (ri)scoprirlo diventa quello a riappropriarci di una visione più alta e più bella del nostro essere nel mondo.

Eppur questo non basta

È fuggita l’estate
Più nulla rimane
Si sta bene al sole
Eppur questo non basta

Quel che poteva essere
Come una foglia dalla cinque punte
Mi si è posato sulla mano
Eppur questo non basta

Né il bene né il male
Sono passati invano
Tutto era chiaro e luminoso
Eppur questo non basta

La vita mi prendeva sotto l’ala
Mi proteggeva, mi salvava/
Ero davvero fortunato
Eppur questo non basta

Non sono bruciate le foglie
Non si sono spezzati i rami
Il giorno è terso come cristallo
Eppur questo non basta

(Arsenij Tarkovskij)

Giovanni Di Vincenzo, insegnante, critico e studioso di comunicazione audiovisiva


Margarita Terekhova protagonista de Lo specchio

A proposito de Lo specchio (Andrej Tarkovskij, 1975)

Proviamo a ricordare, dopo cinque decenni, il film Lo specchio del regista russo Tarkovskij (1932-1986), un esempio di cinema onirico-poetico e spirituale destinato a restare nella storia del cinema.

Le critiche che talvolta l’accompagnano sono relative al fatto che il suo andamento sarebbe disarticolato, non omogeneo, difficile ed ermetico, dalla trama “confusa”. A proposito della sua supposta difficile comprensione, lo stesso Tarkovskij soleva citare le parole di una donna delle pulizie di Mosca: «Per quale ragione si sta tanto a discutere? Il film è chiarissimo. Si tratta di un uomo che, sul punto di morire, fa il bilancio della propria vita, e si rende conto che non è riuscito a dare agli altri quanto doveva. Per questo motivo, egli prova un senso di colpa e di vergogna». (riportate da David Grieco, Andrej Tarkovskij, in AA.VV., Film Urss ’70, Venezia, Marsilio, 1980, p.50).

In realtà quell’unicum che è dato dalla sua intera filmografia, evidenzia un percorso artistico originale, che fa riflettere perché si tratta di viaggi poetici dentro le contraddizioni della natura umana. Allora Lo specchio può essere pensato come un anello ideale tra lo smontamento “onirico” dell’etica bellica de L’infanzia di Ivan (1962), il poema spettacolare di Andrej Rublëv (1969), la riflessione assai poco fantascientifica di Solaris (1972) e quel “western nel cervello” di Stalker (1979) insieme alle lacerazioni della normalità insite nel gesto “inutile” di Nostalghia (1983) o dello struggente testamentario Sacrificio (1986).

Se si dicesse che Lo specchio è un film autobiografico, questa definizione non sarebbe sufficiente, inadatta e forse addirittura limitante perché nelle sue opere le tematiche che lo caratterizzano partono dall’uomo per ritornarvi depurate dal suo tempo creativo e narrativo, dalla catarsi dell’arte – ogni artista coinvolge ma non necessariamente proietta sé stesso – e arricchite dalla ricerca poetica dell’Assoluto.

Infatti, qui non si tratta di autobiografismo inteso come «spettacolo esibizionistico, trucco narrativo, astuzia divistica, miopia di un mondo espressivo che non sa staccarsi dal privato narcisisticamente rivisitato [dato che è] diretto, totale e non intermediario (verso lo spettatore) che della “forma” che lo rende biografia del mondo e non soltanto privata avventura del soggetto narrante». (Lino Micciché, Elegia autobiografica, «Cinemasessanta», 126, marzo-aprile 1979).

La centralità della parola si evidenzia ne Lo specchio già nell’incipit dove la vittoria del giovane sulla balbuzie, il recupero vocale, vuol dire per il regista mettere in immagini audiovisive livelli multipli di racconto – la stessa attrice è sia la madre che la moglie del Tarkovskij del film, il quale, bambino, diventa anche il suo bambino – strati di storie reciprocamente incastrate: le sensazioni dell’infanzia, i ricordi dell’età irripetibile, i sogni e gli eventi che ne hanno accompagnato la fissazione nella memoria, le impressioni più profonde fatte riaffiorare attraverso eterogenee fonti mnemoniche credute perdute per sempre o cancellate dalla pressione del presente; la suggestione di persone, gesti e movimenti evanescenti di corpi e della natura, di istantanee cromatiche del dettaglio, macroscopie di oggetti semplici o simbolici che ricostruiscono pezzi di un passato nascosto nell’oblio del dolore; comportamenti reali e flash immaginari di “quadri” familiari incastonati nel turbamento che richiama i personaggi alla realtà del presente.

Smarrimenti di un Tarkovskij ora bambino che vede – rivede – specularmente sé stesso fra le meraviglie del suo universo fatto di piccole cose. Figlio dodicenne che vive la triste assenza della figura paterna, che osserva la madre per riuscire a ricomporre le stagioni di quella parte di vita che non lo comprendeva; poi, ancora figlio, ma insieme regista quarantenne che, nei panni di un mai visibile narratore, traccia un nuovo solco nei ricordi dei genitori, dell’ex moglie e del figlio Ignat; ora spingendo l’immaginazione della memoria verso la vecchiaia della vera madre, oppure, molto più indietro nel tempo, nell’intenzione della nascita, nel suo concepimento.

Lo specchio è come quel campo di grano saraceno che si estende davanti alla Casa della Memoria di Tarkovskij. Immobile e tranquillo come un mare, viene percorso e attraversato dai “riflessi” di due improvvisi colpi di vento. Estraneo sia alla donna, sia al medico sconosciuto – lei, la madre è il dato di presentazione della solitudine della famiglia disunita, l’uomo ha già realizzato la sua imprevedibile presenza ed entrambi, conosciutisi casualmente e non legati da alcun rapporto successivo – il vento disequilibra l’apparente stato di quiete della donna (sta fumando una sigaretta, l’uomo comprende che non ha marito, la staccionata si spezza).

Lo stesso vento sospinge l’attenzione verso la casa: da una parte la cinepresa coglie la madre seduta commossa davanti alla finestra mentre il gocciolìo dal tetto segna lo scorrere ininterrotto del tempo (tarkovskiano) della solitudine; dall’altra c’è la colazione dei bambini – il latte sparso sulla tavola, il gattino nero che lo beve e il doppio richiamo al bianco con lo zucchero versato sulla testina – che dà l’idea di giorni sereni trascorsi da Tarkovskij in campagna, magari con eventi straordinari come l’incendio del fienile, insieme alla madre, alla sorella e alla nonna.

Poi, con un salto di molti anni, risvegliato dal passato del sogno, dalla telefonata della madre, l’autore/narratore adulto ricorda che nello stesso anno dell’incendio, il 1935, i genitori si separarono. Il sogno interrotto dal telefono, così come il successivo ricordo-ricostruzione della vicenda della tipografia, e in genere gli episodi più affettuosi e lirici, a colori o in b/n e seppia, aprono lo spazio all’osservazione descrittiva e sentimentale della madre.

Se Solaris si chiudeva con il ritorno alla Casa e l’abbraccio del Padre, qui nel primo sogno di Alëša bambino, la nostalgia per l’immagine paterna sembra uscire dall’acqua del catino dal quale l’uomo, a torso nudo, emerge in primo piano, di profilo, per scomparire subito lasciando il posto ai lunghi capelli della madre immersi anch’essi nell’acqua. Il ralenti allucinatorio e visivo offre alla visione i movimenti della donna che solleva il viso nascosto, sono movimenti scanditi dalla caduta dell’intonaco e dall’acqua che cade dal soffitto. Non è però una macchia ostile, un crollo di segno negativo, ma piuttosto una forma, per così dire, di sofferenza piacevole – la donna sorride – una struggente malinconia per il focolare, la stilizzazione di una pratica femminile amata che Tarkovskij riesce addirittura a triplicare nel tempo del ricordo quando al rallentamento dell’intero sogno, unisce quel suo procedimento, già usato prima e che impiegherà nei successivi film, di spostamento rotatorio messo in moto solo allorché la donna si trova riflessa nello specchio bagnato dall’acqua. Elemento questo, che insieme al fuoco, all’aria e alla terra rende innovativo e decisivo il cinema di Andrej Tarkovskij: senza l’acqua e le sue manifestazioni sia orizzontali (fiumi, laghi, pozze, acquitrini, plaghe, ecc.) che verticali (pioggia, neve, nebbia, vapori, ecc.) il suo cinema sarebbe semplicemente privo di senso.

La ricostruzione del passato per Lo specchio non si esprime solo con diversi cromatismi – il colore abbinato al presente con il passato invece vicino a tonalità verdi o seppia – o con il montaggio di brani esemplificativi della memoria delle diverse età dell’autore/narratore, ma trova completamento nella combinazione con la cronaca di avvenimenti reali mostrati con spezzoni di filmati documentari.

In questo senso la sfera del quotidiano de Lo specchio è anche quello dell’artista Tarkovskij che, nei panni di Ignat, trova il modo di esprimere i riferimenti della propria concezione del mondo: quelli artistici – il libro su Leonardo da Vinci e la sua pittura che il ragazzo sfoglia o che sta sulla tavola in campagna quando il padre, finalmente visualizzato, torna in licenza,– e quelli storico-culturali dell’eredità russa nella citazione di un ampio passo della lettera di Aleksandr Puškin a Pëtr Čaadaev del 1836 (sulla forte necessità di riportare all’attenzione dell’Occidente i perché della predestinazione che le leggi della Storia hanno deciso di tributare alla immensa Russia e al suo popolo).

A sua volta il quotidiano del regista è soprattutto la memoria evidenziata in un breve momento del fluire del tempo: l’invenzione del cerchietto di vapore che svanisce gradualmente dal tavolo sul quale è appoggiata la tazza di tè fumante della “donna del secolo scorso”. La creazione di un segno quasi impercettibile, peraltro amplificato dal sonoro che viene interrotto solo un momento prima della sua definitiva cancellazione sulla chiusura della scena all’interno di una situazione già “irreale” o quantomeno stonata: la signora apparsa dal nulla con la cameriera, la donna che sbaglia porta, il campanello che non si sente suonare, la scossa che poco prima Ignat avverte raccogliendo le monete i due testi errati che inizia a leggere. E soprattutto la ripresa di tipo semicircolare, ma stranamente, per Tarkovskij – indiscusso teorico del tempo lungo edel montaggio costruito con la religione di interminabili e a volte “insopportabili” piani sequenza – invece qui è ottenuta per stacchi successivi.

Quel segno di lieve vapore inconsistente assume un peso di evidenza vera, come sarà la candela di Gorčakov in Nostalghia, come saranno il modellino, l’uovo e il bicchiere di Sacrificio e altre cose “in sonno”: oggetti unici che lo sguardo non condizionato e “infantile” del regista è riuscito a cogliere. Poco prima che Natalja, la moglie visualizzata dalle sue apparizioni davanti a specchi anonimi, aveva inutilmente cercato di imprimervi sopra un alito.

L’assenza di un punto centrale di drammaticità o, se si vuole, di una chiara linea narrativa, unita al costante autoprodursi del dubbio, di percezioni inespresse – «i sentimenti non espressi non si dimenticano» farà dire Tarkovskij al poeta Gorčakov in Nostalghia – spostano decisamente l’asse del film. Questo specialmente dopo il primo piano del Ritratto di Ginevra Benci, una donna che, dice il regista, «ha qualcosa di un bello inesprimibile e di ripugnante, di “diabolico”», l’implicita dualità antagonista della “figura cinematografica”, un modello a lui molto caro attraverso il quale costruirà la sua definizione dell’unità fluida del tempo (filmico).

Il racconto del film tende a procedere su un doppio tracciato, come il simbolo dello specchio lungo il quale si continuano a consumare le memorie delle paure banali o profonde insieme alle sicurezze del cuore. E allora scattano: il colloquio tra Natalja e il marito sul possibile nuovo matrimonio di lei; ancora il senso di colpa dell’ “io narrante” nei confronti della madre; Ignat, stretto tra le indecisioni dei genitori, soffre e non studia, ma accende un “roveto ardente” rimpianto dalla donna; le considerazioni dell’uomo sull’imborghesimento della società insieme a quelle positive sulla funzione salvifica della poesia.

A questo punto la quiete del sogno della Casa si fonde con l’urgenza della registrazione di un tempo interiore attraverso il montaggio di dettagli eterogenei evocati dal ricordo: la flebile lucina del fiammifero, i riflessi nel vaso di vetro aprono al successivo episodio degli orecchini di turchese e del tempo raddoppiato dallo specchio nell’attesa di Ignat; la calma delle acque e della natura che accompagna il ritorno a casa dello stesso Ignat e della madre, gli effetti del vento improvviso che mentre sconvolge, aiuta a rigenerare il ricordo dei sentimenti nelle mutazioni, anche simboliche, dei colori.

Questi tornano per aggregare sul prato della casa e tra gli alberi le diverse età della storia di Tarkovskij: la nonna, il padre e la madre stesi, il richiamo alla malattia e alla vecchiaia dell’uomo. Le ultime immagini sembrano volersi ritrarre dentro il nero del bosco per lasciare, alla luce dello spazio aperto, le persone che il cinema tarkovskiano del ricordo ha riportato alla visione. Così la memoria del viaggio familiare si è espressa completamente.

Rimane, per il regista, quella dei percorsi spirituali che saranno con sofferenza poetica raccontati nei prossimi film, ma intanto la macchina da presa è già rientrata in quella che possiamo intendere come la sua Casa dell’Uomo Contemporaneo. Il luogo tipico di Andrej Tarkovskij che, a cinquant’anni dai riflessi della Memoria de Lo specchio, può essere ancora vivo e necessario alla nostra etica quotidiana.

Fabrizio Borin, già professore di Storia e critica del cinema e di Filologia cinematografica all’Università Ca’ Foscari di Venezia


Immagine di copertina
Andrej Arsen’evič Tarkovskij (Zavraž’e, 4 aprile 1932 – Parigi, 29 dicembre 1986)

Nota
Tutte le immagini relative all’articolo su Lo specchio sono fotogrammi tratti dal film

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