RIVISTA DI CULTURA MEDITERRANEA

In cammino tra i suoni neri. Per una musica “colta” dell’Africa d’oggi, di Silvia Belfiore

[Tempo di Lettura: 22 minuti]

 

Silvia Belfiore

 

Con IN CAMMINO TRA I SUONI NERI la pianista Silvia Belfiore, interprete italiana fra le più trasversali e appassionate di repertori contemporanei, rielabora per Finnegans una riflessione critica sulle esperienze musicali e concertistiche che hanno caratterizzato gli ultimi quindici anni della sua attività interpretativa, da quando nel 2008 tenne il suo primo concerto con musiche di compositori ‘contemporanei’ di origine africana a St. Louis negli Stati Uniti dove si svolge un festival biennale di compositori africani, o della diaspora dal Continente nero. Un’avventura musicale e culturale emozionante e molto significativa nel contraddittorio orizzonte del multiculturalismo postcoloniale, in questi anni di forsennata e accelerata globalizzazione, che ha portato Silvia Belfiore a tenere soggiorni di studio in varie università africane ed europee con oltre cento concerti con ‘suoni neri’ in vari paesi africani: dal Sud Africa alla Costa d’Avorio, dall’Etiopia, Tanzania e Togo, a palcoscenici europei, dalla Germania alla Gran Bretagna, Stati Uniti e Italia.
Ed è proprio all’Accademia Chigiana di Siena, prestigiosa istituzione musicale italiana di punta, che Silvia Belfiore ha proposto in un concerto-spettacolo con il percussionista Antonio Caggiano e l’attrice Maria Claudia Massari,  le opere di alcuni autori contemporanei africani lo scorso luglio 2022. (NC)

 

 

S.B., concerto a St. Louis, 2013

         

In cammino tra i suoni neri
Per una musica colta dell’Africa d’oggi

 

     Una passeggiata tra le note nere è una esperienza affascinante che mi coinvolge dall’ormai lontano 2008. Il mio interesse per la musica classica africana è cresciuto passo dopo passo. La dimensione coinvolgente di questo progetto sta nella ricerca continua che mi attrae ogni giorno di più e stimola le iniziative più diverse e variabili: questa “fotografia” è destinata a evolversi.  
     Dal mio interesse per la musica contemporanea nasce la curiosità per il continente africano e per la sua musica colta. La musica erudita interessa gli africani? Esiste una didattica della musica nel continente nero? Nata quasi per caso negli anni, questa curiosità mi permette di scoprire quanto sia sorprendente oggi l’attenzione riservata alla musica classica in Africa. Dal mio crescente interesse si avvia dunque un processo di ricerca, iniziato entrando in contatto con i dipartimenti universitari dedicati alla composizione musicale in diverse città africane. Ho così avuto modo di conoscere molti compositori con i quali avviare collaborazioni e di ricevere da loro numerose partiture. Il vero lavoro incomincia lì: comprenderne i diversi stili, le qualità e scegliere un primo repertorio da suonare in concerto. Il mio primo concerto di musica di compositori neri ha luogo negli Stati Uniti, a St. Louis, dove ogni due anni si svolge un festival di musica scritta da compositori africani o della diaspora. Successivamente, più di un centinaio di concerti in diversi Paesi del mondo (Sud Africa, Germania, Costa d’Avorio, Stati Uniti, Etiopia, Gran Bretagna, Italia, Kenya, Perù, Tanzania e Togo) con musica africana in programma e la registrazione di due dischi: il live di un concerto tenuto ad Acqui Terme nel 2012 e l’incisione di “Yokuwela” nel 2020 nel JaneStudio di Cagliari. Questi dischi contengono opere originali di compositori provenienti da diversi territori africani.

 

     

     Ma vediamo cosa è la musica colta del cosiddetto continente nero.  
     Innanzitutto, in quanto osservatori occidentali, non potremo mai adottare completamente il punto di vista di chi vive la musica africana come un bagaglio culturale legato alle proprie origini, dall’interno dallo stesso grembo materno. Ci chiediamo persino fino a che punto siamo davvero in grado di studiare queste musiche in modo rilevante non potendo abbandonare la nostra formazione occidentale. Allo stesso modo, ci domandiamo fino a che punto saremo in grado di sviluppare nuovi modelli teorici per analizzare la musica accademica africana e se la metteremo necessariamente in relazione con le nostre metodologie e i nostri parametri analitici. Per comprendere il lavoro dei compositori sub-sahariani, dobbiamo dunque chiederci se le nostre metodologie analitiche e la nostra stessa concezione dell’opera musicale siano adeguate alla ricerca della produzione contemporanea in Africa. Al contrario, appare anche il problema di valutare l’adattabilità dei compositori africani ai codici della musica colta occidentale. In altre parole, dobbiamo interrogarci sul rapporto che i compositori colti africani hanno con la cultura occidentale per comprendere il più accuratamente possibile quando si tratti di interazioni di natura sincretica o di mimesi reale.
     Nell’ambito della produzione musicale africana scritta si pone non solo la questione del rapporto con la cultura occidentale, ma anche e soprattutto il problema del rapporto con la loro stessa tradizione. A volte gli stessi compositori africani modificano la propria eredità musicale per adattarsi all’accademismo occidentale. Ad esempio, il pianoforte – lo strumento principale della produzione musicale colta in Africa – impone un’intonazione temperata sconosciuta alla musica tradizionale africana. L’adozione del quadro normativo occidentale è considerabile una mimesi? quella che, in un contesto sociale e politico, Antonio Gramsci avrebbe potuto descrivere come subordinazione culturale alle civiltà egemoniche? Tale imitazione si può spiegare sia come consapevole scelta di un fenomeno estetico esterno e differente, sia come inconsapevole subalternità da parte di popoli africani che pur manifestano apparentemente un grande orgoglio e un forte senso di appartenenza al proprio territorio.
     La musica di tradizione scritta è in Africa relativamente recente in quanto comincia negli anni ‘30. Di conseguenza, lo sviluppo stilistico del linguaggio musicale, strettamente legato all’evoluzione storica dei generi musicali e del repertorio, è ancora poco presente. Ciò nonostante, tutti i compositori contemporanei africani posseggono una conoscenza approfondita della cultura occidentale: la maggior parte di loro studia in Europa e negli Stati Uniti. Per curiosità sottolineiamo che già nel XVIII secolo Chevalier de Saint-George si inserisce pienamente nel quadro della musica colta occidentale, rappresentando però un caso unico e isolato1.

 

S.B. con la flautista Wendy Hymes e il violinista Rudy Perrault, Togo, 2010

     L’emergere della musica colta è determinato da una confluenza di fattori storici. Perché e come le forme di dominazione hanno influenzato i compositori neri e perché ci sono meno compositori francofoni che anglofoni? Qual è l’influenza della colonizzazione e i cambiamenti che ha portato? È impossibile considerare gli sviluppi culturali in Africa nel XIX secolo senza tener conto del sistema coloniale progettato dalle politiche imperialiste.
     L’espansione coloniale genera l’ingresso in Africa di nuove forme di cultura attraverso commercianti, marinai e coloni, che partecipano a una rete crescente di scambi e diffusione di identità culturali. L’avvento della religione cristiana a metà del XIX secolo influenza fortemente il panorama musicale. Influenze musicali straniere accompagnano la crescente presenza transnazionale nell’Africa subsahariana. C’è sicuramente tra gli africani un processo di alfabetizzazione alla musica europea causato dalle melodie popolari e patriottiche suonate da bande militari. Man mano che la musica si evolve grazie agli sforzi di musicisti africani influenzati da marinai spagnoli e portoghesi, l’amministrazione coloniale imperiale dell’Inghilterra e i missionari provenienti dall’Europa e dagli Stati Uniti meridionali lavorano per propagare la propria musica. Le colonie dell’Africa non hanno altra scelta che integrarla e fondersi con essa. Solo alcuni esempi: dall’inizio del XIX secolo la vita musicale di Freetown comprende una miscela di stili musicali derivati ​​dalla musica dei missionari europei, dei militari, dei coloni afroamericani e delle popolazioni indigene; la musica folk americana e afroamericana entra nell’Africa occidentale intorno al 1800, quando i Maroon della Giamaica introducono il tamburo gumbe a cornice quadrata con il suo repertorio di canzoni; nel 1841 un gruppo di nativi del castello di Cape-Coast suona a memoria molte canzoni popolari inglesi.
     In questo particolare contesto si pone, tra gli altri, il problema del metodo didattico in generale e, dato il nostro campo di interesse, in particolare della musica. I missionari cristiani nell’Africa nera hanno vari ruoli nel campo dell’istruzione, che vanno dall’insegnamento dei mestieri all’alfabetizzazione e all’istruzione di tipo occidentale. Nonostante le loro lodevoli intenzioni, questi missionari hanno purtroppo anche l’effetto pratico di allontanare gli africani dalle loro culture d’origine. L’imposizione della lingua del colonizzatore nel processo educativo non è l’unico cambiamento traumatico imposto ai popoli neri. Il sistema educativo occidentale si basa sull’alfabetizzazione e su una scrittura a loro quasi sconosciuta fino a quel momento. L’élite africana, in gran parte un prodotto delle scuole cristiane, viene educata alla scuola dei bianchi, parla e scrive nelle loro lingue e comincia a dimenticare, fino a disprezzare, le lingue indigene che a volte considera inferiori. Lo stesso vale per l’educazione musicale, spesso ridotta a partiture di canti per coro praticati dai missionari. Il colono porta anche i propri strumenti, fabbricati e temperati, completamente diversi da quelli usati fino ad allora in Africa. Questi ultimi, infatti, variano a seconda delle materie prime disponibili in loco e dei loro solidi rapporti con la lingua originale del gruppo. L’obiettivo è abituare gli africani alla musica occidentale, al suo repertorio e ai suoi strumenti musicali come il pianoforte, l’armonium o l’organo. La nuova cultura musicale, associata alla religione cristiana, diventa un simbolo sociale e un segno di identificazione con la civiltà occidentale. 

 

S.B. con William Chapman Nyaho, pianista e studioso ghanese

     Nell’Africa precoloniale l’educazione era invece basata sulla trasmissione: non esisteva la scuola e la musica si imparava attraverso l’osservazione e l’imitazione. La conoscenza si trasmetteva da genitore a figlio o, comunque, all’interno del gruppo. Tutto avveniva spontaneamente e l’insegnamento non era mai teorico. In realtà i musicisti apprendevano forme musicali molto complesse con un’abilità che a volte può essere sorprendente. Regole legate a codici precisi e specifici per ogni etnia africana con i propri costumi e le proprie tradizioni orali, guidavano anche la musica. La memorizzazione avveniva spesso attraverso il nonsense sillabico: una sorta di solfeggio ritmico basato su sequenze di sillabe onomatopeiche e prive di significato se non quello di riprodurre oralmente il ritmo suonato sul tamburo. L’apprendimento passava quindi attraverso l’ascolto, l’osservazione, la memoria, l’orecchio e la capacità di improvvisare.
     Nelle missioni e nelle scuole cristiane, invece i nativi studiano la teoria musicale, gli strumenti a tastiera (pianoforte, harmonium e organo), il repertorio degli inni, la musica sacra, classica e leggera. I missionari, nonostante siano generalmente contrari alla musica indigena, sentono a volte il bisogno di farvi riferimento per scopi pratici per arrivare ad «occidentalizzare» il gusto e le usanze degli indigeni. Alcuni scorci possono illustrare la situazione dell’Africa di XIX-XX secolo: nell’aprile 1880 vengono imbarcati venti organi destinati ai possedimenti britannici in Africa dove chiese e scuole cristiane sono la destinazione principale; l’élite africana di Freetown e Lagos, che già dalla fine dell’Ottocento imitava i costumi della borghesia britannica, organizza concerti con musiche di Bach, Beethoven e Handel; nel 1892, gli studenti degli istituti di Freetown (Sierra Leone) offrono regolarmente concerti, operette e spettacoli corali sia sacri che profani; in Africa occidentale britannica, i gruppi urbani africani formano gruppi da ballo la cui musica è influenzata dal ragtime e dal jazz e tra gli anni ’20 e ’30 l’élite urbana di Accra subisce il fascino della musica popolare occidentale, dei balli da sala, degli stili country e western; le bande militari di stampo europeo – con ottoni, legni e percussioni – sono un punto di riferimento nell’Africa coloniale che promuove un particolare stile di musica patriottica associato alle istituzioni di polizia, militari e pubbliche; l’uso di strumenti occidentali nelle colonie britanniche e francesi si diffonde a tutte le classi sociali: fisarmoniche, armonici a bocca, harmonium, chitarre, tamburelli e flauti sostituiscono gli strumenti tradizionali.

 

Accademia di musica di Stone Town, Zanzibar, dove Silvia Belfiore ha insegnato nel dicembre 2015

     Notevole è la differenza dell’evoluzione musicale nei Paesi africani anglofoni e francofoni. Gli sviluppi culturali ed educativi sono stati molto differenti negli Stati colonizzati dalle due potenze europee. Le scelte territoriali fatte dalla Francia e dalla Gran Bretagna non sono state per nulla simili: la Gran Bretagna ha adottato una strategia commerciale, interessandosi a quei Paesi africani che apparivano economicamente stabili e forti; la Francia ha cercato invece di soddisfare il proprio desiderio di conquista militare, accaparrandosi le terre più povere. Le potenze colonizzatrici hanno sviluppato delle politiche educative divergenti. Il sistema inglese di governo indiretto (indirect rule) ha sostenuto un sistema educativo decentralizzato e flessibile che poteva adattarsi alle popolazioni locali, non ha modificato le strutture tradizionali, si è appoggiato sulle scuole dei missionari già ben impiantate. Ciò ha permesso al Regno Unito di ridurre i costi. A livello di contenuto educativo, i colonizzatori hanno autorizzato l’utilizzo della lingua locale e hanno cercato di impartire un livello di insegnamento di base. La Corona ha preferito occuparsi di mantenere l’ordine e lasciare ai missionari già presenti sul territorio il ruolo educativo. La diffusione dell’educazione è stata molto più rapida nelle antiche colonie inglesi che hanno sempre avuto un numero di strutture scolastiche molto più importante rispetto alle antiche colonie francesi. La Francia invece ha sostenuto una politica basata sull’assimilazione. Gli Africani colonizzati dovevano diventare dei cittadini francesi. La scuola inculcava valori francesi sotto il controllo dello Stato. Contrariamente alla politica inglese, i capi locali sono stati disinvestiti dalle loro funzioni, per essere rimpiazzati da una nuova élite formata nelle scuole francesi. Le lezioni venivano impartite integralmente in francese e seguivano un piano di studio imposto dallo Stato centrale. Si sviluppava un sistema educativo molto selettivo e poco accessibile alle masse. Le scuole rette dallo Stato francese convivevano con le scuole missionnarie precoloniali inquadrate dallo Stato stesso. Quelle che non cooperavano erano costrette a chiudere, così più di due terzi delle scuole scomparvero. Questa posizione francese verso le scuole missionarie si spiega anche col fatto che la Francia annoverava tra le proprie colonie molti Paesi mussulmani. Lo Stato ha preferito vietare le missioni in questi luoghi per paura di alimentare ostilità verso i colonizzatori. Il sistema educativo coloniale è proseguito anche dopo la decolonizzazione: esiste una relazione tra i risultati delle politiche educative odierne e i loro fondamenti coloniali. I risultati economici delle ex colonie francesi sono stati meno brillanti, in particolare perché in ritardo rispetto a quelli inglesi in termini di istruzione2. L’istruzione africana è stata costruita attraverso il passato coloniale. Se la colonizzazione è stata un arricchimento per il sistema educativo africano, è deplorevole che abbia distrutto così tanto a livello culturale tradizionale. 

 

S.B. col compositore Évangéliste Premier Lolonyo Dogbe, Togo, 2011

     In questo ambiente sociale, culturale e musicale, nascono i primi compositori, ognuno dei quali traspone a proprio modo il patrimonio tradizionale nella musica colta. Tra le due guerre, la musica delle congregazioni cristiane consiste in un repertorio occidentale convenzionale a cui si aggiungevano inni missionari a un repertorio classico e romantico. All’indomani della Prima guerra mondiale emerge una generazione di compositori che sviluppa uno stile corale ancora segnato da forti influenze occidentali, ma in cui gli elementi africani giocarono un ruolo sempre più importante.
     Il primo contatto di molti compositori con la musica scritta è infatti tramite gli inni protestanti o tramite brevi brani di compositori europei del XVIII e XIX secolo. Il linguaggio dell’inno è parte fondamentale del capitale culturale che la colonizzazione tramanda. Un’eredità in gran parte protestante domina la coscienza musicale di molti compositori in erba che spesso vengono anche avvicinati alla musica colta occidentale del XX secolo, compresa quella dell’avanguardia europea. Anche la World Music ha sicuramente influenzato l’immaginazione dei compositori. Il contatto col patrimonio di musica tradizionale tra i compositori africani è invece molto differenziato: se acquisire elementi di tale patrimonio sembra un percorso naturale per alcuni, per altri il processo si rivela più complesso. Il processo di acquisizione può avvenire solo da adulti quando, coscientemente, studiano in maniera sistematica la musica tradizionale. Questa scelta appare come reazione a un sistema educativo squilibrato, basato sulla conoscenza dei grandi compositori europei a discapito della conoscenza della musica tradizionale, spesso denigrata dai circuiti educativi elitari occidentali.

 

S.B. col compositore Girma Yifrashewa, Addis Abeba, 2014

     Dalla fine della colonizzazione si moltiplicano le registrazioni su nastro magnetico, si arricchiscono le biblioteche sonore, si sviluppa l’editoria discografica e si diffonde lo studio della musica di tradizione orale. Gli stessi africani studiano la musica tradizionale del proprio Paese e danno così un prezioso contributo alla conoscenza del repertorio africano. Tuttavia, anche se le possibilità di accesso alle musiche africane non sono mai state così agevoli, il desiderio di scoprirle e studiarle non è mai stato così forte, sembrerebbe che il respiro dell’Occidente stia contribuendo proprio alla loro perdita estirpandole o trasformandole radicalmente. I moderni mezzi tecnici di comunicazione, che raggiungono anche il più piccolo villaggio dove si perpetua un’arte musicale tradizionale, sono gli stessi che da un lato ci permettono oggi di conoscerli meglio e dall’altro impongono brutalmente all’Africa tradizionale di adottare la cultura occidentale e di fondersi con essa.
     A volte anche la possibilità di ascoltare la musica classica occidentale è limitata, ma molti compositori sviluppano la loro arte all’estero o nell’ambito di università fondate tra la Seconda guerra mondiale e l’indipendenza, come l’Università del Ghana (1948), l’Università di Ibadan (1948), la Makerere University of Uganda (1948), l’Università di Dakar (1957), l’Università di Lagos (1962) o il vasto sistema universitario sudafricano.
     Dopo l’indipendenza, i nuovi stati africani scelgono quasi senza eccezioni la musica occidentalizzata per i loro inni nazionali, in modi maggiori e con melodie facili in 4/4 da cantare e ricordare. I versi sono normalmente in lingua europea o in combinazioni tra le lingue nazionali ufficiali e una o più lingue africane. Ad esempio, l’inno nazionale senegalese è di stampo occidentale: scritto dall’etnomusicologo francese Herbert Pepper – che ha anche composto l’inno della Repubblica Centrafricana – si basa sui versi di Léopold Sédar Senghor e tratta di nazionalismo, panafricanismo, rispetto per le tradizioni africane e la fratellanza universale.
     I sistemi scolastici del Senegal e del Ghana includono lo studio della musica occidentale e africana e questo esempio è seguito da molti altri stati africani. Nel 1958, in Ghana, lo Stato sostiene la creazione di un’orchestra sinfonica di stampo occidentale: la National Symphony Orchestra, che promuove anche la musica sinfonica di compositori neri. In Guinea viene creata una rete di più orchestre, fornendo loro nuovi strumenti e strumenti di amplificazione acquistati in Italia con l’obiettivo di sviluppare nuova musica nazionale, con strumentazione occidentale. A partire dagli anni ’60 le influenze musicali occidentali, dapprima limitate ai centri urbani, si diffondono e raggiungono i piccoli centri grazie alle trasmissioni radiofoniche, allo sviluppo dei mezzi di trasporto, all’emigrazione, al commercio e alla presenza crescente di organi di governo nell’entroterra.

 

S.B. con il compositore del Burundi Bosiko Beiz e la pianista Rebeca Omordia, St. Louis, 2013

     La produzione discografica inizia ad espandersi notevolmente e dal 1927 al 1930 la Zonophone pubblica centinaia di dischi per il mercato dell’Africa occidentale. Dal 1928, la filiale indiana della Gramophone Company stampa dischi swahili registrati a Mombasa. Inoltre, molte case – come l’HMV, la tedesca Odéon, la francese Pathé e l’inglese Columbia – effettuano registrazioni in tutta l’Africa all’inizio degli anni ’30. I dischi includono canzoni tradizionali, musica con influenze occidentali, inni cristiani, ragtime e imitazioni del country americano. La radio e i dischi continuano a trasmettere stili musicali occidentali e africani a un numero crescente di appassionati. In Nigeria, le trasmissioni radiofoniche aumentano notevolmente dopo l’inaugurazione del Nigerian Broadcasting Service nel 1951.
     Con una popolazione molto giovane, una situazione culturale frammentata, alti livelli di povertà e disuguaglianza sociale, bassi livelli di istruzione e igiene e un’eccessiva pirateria nell’industria discografica, l’Africa oggi ha pratiche musicali molto varie a seconda della regione, della lingua, della religione, dell’etnia, età e sesso. Il continente ha quindi ancora pochissimi centri di produzione musicale professionale e molti artisti si trasferiscono all’estero, in particolare in Europa, Canada, Stati Uniti e talvolta Australia o Giappone. Inoltre, dobbiamo distinguere gli ambienti rurali da quelli urbani: nelle aree rurali (dove vive circa il 70% della popolazione) le pratiche musicali tradizionali continuano a essere mantenute, nonostante gli stretti rapporti attualmente esistenti con le aree urbane, dove sono invece relegate.
     Secondo il compositore e musicologo Godwin Sadoh, la pratica musicale in Africa esiste a due livelli: quella che lui chiama pratica musicale intraculturale, già documentata nella musica tradizionale africana prima del XIX secolo, e la musica africana moderna come si manifesta nell’Africa postcoloniale. Il primo consiste principalmente nella musica tradizionale indigena che risale a prima dell’arrivo di colonizzatori e missionari e permea tutti gli aspetti della vita culturale africana (sociale, politica, economica o religiosa). La seconda, legata all’esperienza postcoloniale in Africa, guarda alla creatività e alla performance musicale emerse dalla colonizzazione e dall’esegesi missionaria cristiana dalla metà dell’Ottocento fino all’inizio del XXI secolo. La conquista islamica è il terzo fattore che ha influenzato l’emergere della musica multiculturale in Africa, sebbene non sia correlata allo sviluppo della moderna musica colta africana.
     Sebbene il colonialismo abbia lasciato il segno nella politica e nella cultura, sembra che nessuno si aspettasse che il continente africano producesse un Mozart o un Beethoven. Questo pregiudizio è reso famoso da una frase di Saul Bellow: “Quando gli Zulu produrranno il loro Tolstoj, lo leggerò”.

 

           

     La musica accademica e l’esecuzione di partiture composte e scritte raggiunge solo un piccolo pubblico. Ciò è dovuto a fattori politici, economici e sociali che influenzano la formazione dei musicisti, nonché la disponibilità al mecenatismo e l’accoglienza del pubblico. Per chiarire cosa rappresenti la musica colta in Africa, Akin Euba ci fornisce una definizione in cui sottolinea che, a differenza della musica tradizionale il cui contesto di esecuzione è basato sulla comunità, la musica artistica è musica progettata per essere eseguita abitualmente in un auditorium di fronte a un pubblico definito. Johnston Akuma-Kalu Njoku caratterizza gran parte della musica classica come scritta e composta per l’esecuzione nelle sale da concerto e come rivolta a un pubblico di ascoltatori statici che associano l’estetica della bellezza a quella del suono. La musica colta, meno associata all’Africa rispetto alla musica popolare urbana o alla musica tradizionale di origine precoloniale, è sicuramente la meno diffusa delle tre: la sua presenza è relativamente debole nei villaggi e nelle città, qualunque sia il suo potere simbolico.
     L’antologia in cinque volumi del 2009 Piano Music of Africa and the African Diaspora, compilata e curata dal pianista e studioso ghanese William Chapman Nyaho, è una pubblicazione particolarmente interessante. Offre una vasta gamma di composizioni pianistiche. Il riconoscimento dell’autenticità differente delle culture sembra sempre più una necessità di fronte all’omologazione della civiltà internazionale. Questa antologia è un’occasione per riflettere sul repertorio dei compositori africani e su come l’eredità della tradizione influenzi le loro scelte di suoni, ritmi e fraseologia. Si tratta quindi di una pubblicazione importante per diffondere la creatività africana scritta. Offre agli studenti di pianoforte un repertorio finora emarginato che comprende opere di compositori come gli egiziani Halim El-Dabh, Riad Abdel-Gawad e Gamal Abdel-Rahim, i nigeriani Akin Euba, Christian Onyeji e Joshua Uzoigwe, i ghanesi Gyimah Labi, J.H. Kwabena Nketia e Robert Kwami, i sudafricani Martin Scherzinger, Bongani Ndodana-Breen e Isak Roux, il sudanese Ali Osman; il congolese Bangambula Vindu e l’afro-britannico Samuel Coleridge-Taylor, senza dimenticare i compositori della diaspora africana provenienti da Gran Bretagna, Giamaica, Cuba, Canada e Stati Uniti. In questa antologia – la prima nel suo genere mai pubblicata fino ad oggi – tutta la musica raccolta risale al XX secolo e proviene per lo più da compositori viventi.

 

Egwu Amala Dance

     Il contatto che ogni africano mantiene con la musica etnica segna in modo indelebile la creatività di compositori nelle cui opere sono presenti tratti derivati ​​dalla tradizione. Inoltre, come è vario il panorama delle tradizioni etniche e delle musiche associate, è vario anche il panorama delle influenze che esse producono sulla musica classica: è quindi sempre importante collocare ogni compositore nel proprio contesto di origine e di crescita. La musica colta dell’Africa della fine del XX secolo copre un’ampia gamma di approcci compositivi con l’esplosione di nuove forme musicali risultanti dalla sintesi creativa degli stili. I compositori africani sciolsero la dicotomia estetica con la creazione di un nuovo stile dalle caratteristiche specifiche, né africane né europee. Alla fine del XX secolo, l’unione della musica popolare con quella accademica porta sempre più il segno dell’ibridismo e della mescolanza culturale. È un mondo in cui i confini musicali diventano altamente penetrabili attraverso scambi culturali transnazionali che producono una serie di forme musicali multiculturali riccamente intersecanti. Il “polistilismo” è considerato un segno rappresentativo che va oltre i concetti stessi di autenticità culturale e originalità artistica. Il confine tra la musica colta africana e altre forme di musica africana rimane spesso difficile da tracciare. Innanzitutto, ci sono molti esempi di espressioni musicali tradizionali africane che enfatizzano l’ascolto contemplativo, che dunque non resta appannaggio solo della musica classica. Dopo aver ottenuto l’indipendenza, la maggior parte degli Stati africani crea e finanzia vari gruppi musicali, balletti o gruppi culturali nazionali: ne è un esempio l’orchestra panafricana. Questi progetti funzionano in gran parte come simboli dell’identità nazionale, ma l’istituzionalizzazione statale riflette un atteggiamento simile a quello occidentale nei confronti della musica colta. Sebbene la musica popolare e la musica classica siano relazionabili ai rapporti con l’Occidente e sebbene siano un fenomeno urbano, tra loro differiscono radicalmente nell’attirare un pubblico eterogeneo e nel ricorrere a diverse fonti di creatività. Come il romanzo africano moderno, emerso nel XX secolo da una vasta e variegata letteratura orale in risposta a una rete di sollecitazioni esterne, la musica colta Africa inizia a essere coltivata nelle nuove istituzioni create dal colonialismo. Molti sono gli studi che riguardano la musica africana e molte sono le università nel mondo che hanno un dipartimento di studi di letteratura africana – in particolare letteratura orale – che è inscindibile dalla musica. Nella maggior parte dei casi, l’interesse degli studiosi è rivolto al patrimonio tradizionale., solo più raramente e di recente l’attenzione si è rivolta al repertorio musicale colto.

 

Joueur d’arc musical, photo Pierre Salée

     Alla fine del XX secolo, la musica intellettuale e popolare vengono concepire nel segno dell’ibridazione e della mescolanza culturale. I confini musicali diventano estremamente labili e gli scambi culturali transnazionali producono un insieme di forme musicali riccamente intersecate. La pluralità di stili, considerata una caratteristica moderna, in effetti sovverte il concetto stesso di autenticità culturale e originalità artistica. L’eredità culturale del compositore africano è dunque molteplice e le influenze che la alimentano provengono sia dall’esterno che dall’interno, sia dall’Europa che dall’Africa stessa. Ma se l’educazione di un compositore è soggetta ai vari tipi di musica tradizionale e popolare, la composizione classica è modellata in modo decisivo dalla tecnica europea. Dopo essersi diplomati nelle scuole nazionali, molti compositori si iscrivono alle università o ai conservatori in Europa e in America. Diventano così capaci di padroneggiare le tecniche di composizione occidentali che sono visibilmente alla base della maggior parte delle loro opere. Un certo numero di artisti e compositori africani sceglie di esplorare il mondo della musica erudita componendo opere con orchestrazioni complesse e attingendo a un repertorio africano o europeo o fondendo più generi musicali. Nella prefazione al suo libro Modern African Music (1993), il compositore Akin Euba propone una sommaria suddivisione della musica colta africana in quattro categorie. La prima include musiche interamente basate su modelli occidentali in cui il compositore non introduce consapevolmente elementi africani. La seconda riguarda la musica che attinge il proprio materiale tematico da fonti africane, anche se occidentale per linguaggio e strumentazione. La terza comprende la musica in cui gli elementi africani sono parte integrante del linguaggio compositivo (uso di strumenti africani, testi, concetti stilistici o altro) ma che include anche idee non africane. La quarta riguarda la musica il cui stile deriva dalla cultura tradizionale africana, che utilizza strumenti africani e in cui il compositore non inserisce idee occidentali. Invece, il compositore e musicologo Kwabena Nketia non solo sottolinea gli aspetti tecnici della composizione musicale, ma anche l’importanza dell’approccio interculturale. In che modo i compositori traggono ispirazione dalle risorse tradizionali? Alcuni trovano fruttuosa la collaborazione con etnomusicologi, musicisti immigrati e virtuosi, altri cercano un contatto diretto con le tradizioni musicali delle proprie culture di origine e altri ancora si concentrano sulla raccolta di registrazioni per studiare la struttura della musica che intendono utilizzare.
     Generalmente l’identità primaria della musica africana risiede nell’organizzazione ritmica legata alla prosodia usata nelle lingue aborigine. Ciò si traduce in una stretta connessione tra ritmi vocali e ritmi musicali. Il compositore Ephraim Amu era il principale sostenitore del principio dell’adattamento della melodia al tono del discorso.
     Il recupero della musica tradizionale nella musica colta africana contemporanea nasce dalla volontà di riaffermare il senso di identità soffocato sotto il dominio coloniale. Costituisce una strategia importante ma indiretta per migliorare gli effetti dell’egemonia culturale europea. Anche l’accettazione della musica classica occidentale come risorsa creativa che incorpora elementi africani è politicamente significativa. Oggi è possibile accettarla o rifiutarla, a differenza del periodo coloniale in cui le cose si facevano sotto i dettami dell’autorità. Adottiamo tecniche musicali occidentali o no? Niente impedisce di prendere in prestito da altre culture, e tutte le culture lo fanno. Molto diverso è averne l’obbligo. La giustapposizione della sintassi musicale africana ed europea in un modo che simbolicamente ripristina l’integrità dell’una e mina l’egemonia dell’altra risuona quindi come un messaggio politico particolarmente forte.

 

 

S.B. col compositore Fred Onovwerosuoke

 

Intervista a Fred Onovwerosuoke3 nella sua casa
a St. Louis (USA), il 13 maggio 2019

 


SB
 Com’ è stata la tua vita in Africa?

FO La mia vita in Ghana si è svolta nella norma. Come la maggior parte dei bambini, andavo a scuola, in chiesa la domenica e in moschea di venerdì. Dopo la scuola aiutavo i miei genitori.

SB Questo periodo ha influenzato il tuo stile compositivo?

FO Ho cantato molto presto nei cori. Ma a differenza di molti bambini, amavo anche i rituali tradizionali. Amavo le loro canzoni, i tamburi e le danze.

SB Tu hai dedicato molte energie alla diffusione della musica africana. Secondo la tua esperienza, come viene accolta la musica classica dei compositori africani negli Stati Uniti?

FO Quando sono arrivato in America e ho fondato un’organizzazione per promuovere i compositori africani. Non sono stato accolto molto bene. Ma a poco a poco le nuove composizioni hanno incuriosito il pubblico.

SB Le tue composizioni sono nate dalla ricerca sul campo sulla musica tradizionale in tutta l’Africa. Come hai fatto questa ricerca?

FO Ho viaggiato in molti paesi dell’Africa. Ho amici e collaboratori in almeno quaranta paesi. Ho tanti colleghi in loco con i quali rimango in contatto per studiare vari tipi di pratiche musicali tradizionali.

SB Ad esempio, questa ricerca ha determinato la composizione dei 24 Studies in African Rhythms per pianoforte solo. Come hai utilizzato il materiale tradizionale in queste composizioni?

FO Per i 24 studi di pianoforte, il mio obiettivo era semplice: sostituire vari tamburi e altri strumenti musicali tradizionali con il pianoforte.

SB Come si produce nelle tue opere la scelta dell’organico strumentale?

FO La mia strategia è semplice anche per gli arrangiamenti delle canzoni popolari: l’accompagnamento al pianoforte ha sostituito diversi strumenti tipici dell’Africa.

SB Come pensi che la composizione della musica colta si sia evoluta in Ghana dai tempi di Amu e Nketia fino ai giorni nostri?

FO A mio parere, l’influenza della chiesa occidentale ha limitato la pratica della musica tradizionale. Quindi, sfortunatamente, poche composizioni utilizzano materiali tradizionali e ne fanno un uso creativo, così come invece hanno fatto Nketia o Amu.

SB Quali prospettive vedi per il futuro della musica erudita africana in relazione alla rivendicazione dell’identità delle società africane?

FO Penso che l’influenza della Chiesa comincerà a diminuire e sempre più persone vorranno tornare alle loro culture tradizionali. La musica pop e il cinema sono all’avanguardia in questo senso: aiutano i giovani a identificarsi nuovamente con le loro tradizioni.

SB Secondo te, i musicisti bianchi che si accostano a opere di compositori africani – come nel mio caso o in quello di tua moglie (la flautista americana Wendy Hymes) – incontrano difficoltà particolari, oppure la comprensione delle tue opere è semplice? Gli strumentisti neri dimostrano una maggiore facilità innata?

FO La maestria richiede molto studio e pratica in tutte le forme musicali. Non dipende dalla razza o dall’etnia dell’esecutore. Prima che la flautista Wendy Hymes mi conoscesse, era come la maggior parte dei musicisti classici di formazione occidentale: ignorava le tradizioni musicali africane. Ma quando ha iniziato a viaggiare con me in Africa, la sua prospettiva è cambiata completamente. Perché? Perché ha dedicato più tempo allo studio e alla comprensione di diversi stili e culture musicali. Peter Henderson e Darryl Hollister sono i due più grandi pianisti che ho incontrato durante tutti i miei studi sui ritmi africani. Peter è bianco americano e Darryl è nero americano. Potrei anche parlare di te (Silvia Belfiore, pianista italiana), di Rebeca Omordia del Regno Unito e di altri. Il loro approccio è simile a quello di Wendy Hymes, basato sullo studio diligente e dedicato. Spesso ho detto, in diverse interviste, che un nigeriano, ad esempio, può essere indifferente ai ritmi tradizionali del Ghana; che un keniota non ha idea delle tradizionali danze Sabar del Senegal e del Gambia. Tutte le forme musicali dipendono quindi dallo studio diligente, dall’immersione e dalla pratica che vi si dedica. Non c’é alcuna relazione con l’origine razziale o etnica dell’esecutore. La mia risposta è quindi no: la mia musica non è più facile per un musicista nero che per un musicista bianco. I miei studi (Twenty-Four Studies in African Rythms) sono stati pensati per musicisti classici che desiderano comprendere i ritmi africani.

SB Quali sono i tuoi studi attuali e quali sono le tue prospettive compositive?

FO Per quanto riguarda la mia visione della composizione, cerco sempre nuove ispirazioni dalle mie esperienze personali e, naturalmente, sempre dall’Africa. 

 

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Note

1. Joseph Bologne de Saint-George, più conosciuto col nome di « Chevalier de Saint-George », è nato a Guadalupa nel 1745 e morto a Parigi nel 1799. Militare che frequentava i milieux abolizionisti, Saint-George è, per propria posizione sociale, un simbolo dell’emancipazione degli schiavi degli imperi coloniali europei nella seconda metà del XVIII secolo. Portato molto giovane in Francia, sarà educato dalla famiglia adottiva dove vivrà come affrancato, come un uomo di colore libero. Dal punto di vista stilistico, si tratta di un compositore molto convenzionale del periodo classico.

2. Il 22 novembre 2016 abbiamo visitato Jean Claude N’Guessan, direttore dell’École Nationale de musique (E.N.M.) e dell’Institut National Supérieur des Arts et de l’Action Culturelle (I.N.S.A.A.C.) di Abidjan. Nella principale scuola di musica della capitale della Costa d’Avorio non esiste una tradizione di musica scritta e le prime composizioni sono di questi anni. Lui stesso è compositore, ma le sue opere sono principalmente legate alla chiesa. Ritiene che in Africa, i paesi di lingua inglese siano generalmente più inclini a scrivere musica e a comporre musica erudita. L’École Nationale de Musique oggi mira a promuovere lo studio dell’armonia e della composizione e a stimolare la composizione della musica in Costa d’Avorio, ma oggi ci sono solo pochi esempi di composizioni.

3. Fred Onovwerosuoke nasce nel 1960 in Ghana da genitori nigeriani. Pur non essendo composta da musicisti, la sua famiglia ascoltava con entusiasmo la musica, soprattutto quella trasmessa da una stazione radio a onde corte che trasmetteva canti gregoriani, mottetti di compositori rinascimentali come Tallis, Gibbons e Byrd. È stato attratto dal coro missionario dei bambini fin dall’inizio della scuola elementare.
Studia la musica africana di diversi gruppi etnici conducendo ricerche sul campo e facendo confronti con le tradizioni caraibiche e latinoamericane. Capisce che la musica è davvero un linguaggio universale, un linguaggio i cui vari dialetti dovrebbero essere goduti oltre i confini nazionali, culturali ed etnici. È su questa premessa che si fondano le sue musiche.
Onovwerosuoke ora vive a St. Louis, USA, dove si occupa di promuovere nuovi generi compositivi, ispirati in particolare dalle popolazioni americane immigrate dall’Africa, dai Caraibi, dall’America Latina e dall’Asia.
È convinto che la società possa migliorare mettendo a disposizione risorse affinché le opere di compositori neri e di altre minoranze etniche vengano eseguite regolarmente nelle sale da concerto in America. Secondo lui, il settore delle arti e della musica si arricchirebbe e il conseguente apprezzamento interculturale rafforzerebbe la convivenza tra le comunità e migliorerebbe la qualità della vita. 

 

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SILVIA BELFIORE (www.silviabelfiore.it), pianista e musicologa, è interessata alle più svariate forme espressive e di collaborazione artistica. Si è diplomata al Conservatorio in pianoforte, è laureata in Musicologia (relatore A. Clementi). Ha frequentato i “Ferienkurse für neue Musik” di Darmstadt nel 1986, 1990 e 1992. Ha partecipato a vari workshop e masterclass con S. Celibidache, M. Damerini, A. Kontarsky, J. Micault, P. Rattalino, M. Schroeder e R. Szidon. Si occupa dei più diversi ambiti musicali, sempre alla ricerca di forme espressive innovative, insolite e accattivanti.
Mantiene un fitto programma di esibizioni e registrazioni. Ha tenuto più di 550 concerti come solista e in formazioni cameristiche in Brasile, Costa d’Avorio, Etiopia, Francia, Germania, Gran Bretagna, Grecia, India, Italia, Kenya, Malta, Messico, Moldavia, Perù, Polonia, Portogallo, Romania, Spagna, Sud Africa, Svizzera, Tanzania, Togo, Ungheria, USA, Vietnam. Ha registrato per emittenti radiofoniche e televisive in Moldavia, Brasile, Germania (Sudwestfunk di Freiburg), Radio RAI3 Italiana (presa diretta del concerto al Quirinale il 24.V.2009 con musiche di John Cage per pianoforte e percussione). Ha eseguito prime assolute di vari compositori e molti compositori le hanno dedicato proprie opere.
La sua discografia è varia e abbraccia diversi generi e periodi della musica. Ha inciso 23 CD per pianoforte solo e in formazioni cameristiche con repertorio classico e contemporaneo, tra cui: 1991, musiche di Feldman (viola: M. Barbetti) Music Worx / 1996, musiche di Perosi, Petrassi, Respighi (violino: D. Scalabrin) – VideoRadio “… bella esecuzione del mio lavoro, che ho apprezzato particolarmente per l’incisività esecutiva e la giusta comprensione della musica. … ” – Goffredo Petrassi – 9 VII 1996 / 2016-2019, 7 CD “Suoni e …” integrale delle opere pianistiche di Federico Gozzelino –HIT-CL / “Contemporary Piano Works” musiche di Brizzi, Cisternino, Flammer, Radulescu e Scelsi, Da Vinci Classic / “Yokuwela: Contemporary Piano Music from the African Continent”, musiche di Uzoigwe, Sadoh, Grové, Yifrashewa, Blake, Onovwerosuoke.
Da anni si occupa di organizzazione tecnica e operativa di attività musicali: dal 1998 al 2015 è stata direttrice artistica di “Omaggio a …”, Festival Internazionale di Musica Contemporanea di Acqui Terme (AL). Insegna al Conservatorio di Cagliari.  

 

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